I social network non capiscono che siamo mortali [di Massimo Sideri, Corriere della Sera, 10 novembre, p. 21]

Cosa succede al’io digitale quando l’io anagrafico muore? Come scrive Sideri, la cancellazione di un profilo nei social network al momento della morte non può essere solo un fatto burocratico, ma non può essere neanche delegata alle regole che si sottoscrivono al momento dell’iscrizione. Non è come interrompere il contratto elettrico o telefonico. Richiede un’elaborazione del lutto da parte del noi digitale che condivideva con il defunto lo spazio sociale virtuale. Ancora nella fase liminale del rito di passaggio, l’Io digitale del morto non è più vivo ma neanche ancora completamente morto e sepatarato dalla comunità dei vivi. Come nelle descrizioni etnografiche di Hertz (1904), si tratta di inventare nella contemporaneità una “doppia sepoltura” reale e virtuale per rispettare l’identitià del morto e per proteggere i sopravvissuti dalla minaccia del suo fantasma.

 

Banski non salva il “museo” dei graffitari [di Giuseppe Guastella, Corriere della Sera, 10 novembre, p. 23]

“5 Pointz”, crossroad liminale tra città ufficiale e sottoculture, tra arte del MoMA PS1 (a pochi metri)  e street art anonima e ibrida, verrà distrutto per far spazio a due grattacieli e all’avanzata della gentrification. E’ sempre inquietante quando una città non ha più spazi da dissipare.

 

 

The Future is African [di Karen Rosenberg, The New York Times, 8 novembre]

The Shadow Took Shape“, Studio Museum, Harlem, fino al 9 marzo. 

29 artisti e l'”afrofuturism“: un’estetica del futuro per interrogarsi su memorie e identità della diaspora africana

I sei gradi di separazione? Con i social network sono diventati tre  [di Leonard Berberi, Corriere della Sera, 20 ottobre p. 27

Eman Yasser Daraghmi e Shyan-Ming Yuan della National Chiao Tung University di Taiwan riducono a 3,2 i 6 gradi di separazione di Milgram, a partire dall’analisi di 950 milioni di utenti di Facebook. Viene voglia di rileggere il geniale esperimento del 1967.

 

For Her Next Piece, a Performance Artist Will Build an Institute  [di Sarah Lyall, New York Times, 19 ottobre]

Il futuro Marina Abramovic Institute, una nuova Bauhaus o apologia di narcisismo e morte della performance art? 

 

L’Art Kanak au Quai Branly: un “événement majeur” pour Ayrault  [Le Monde, 15 ottobre] 

Il Quai Branly e la mostra kanak: interessante commistione contemporanea tra antropologia, politica e vestigia di colonialismo.

 

Sequential waves of stickers bearing a Jim Jones’s photo have been flooding many squares and streets in downtown Rome.

Reverend Jim Jones was the founder, and the terminal angel of death, of the People’s Temple, a Californian sect-church which committed suicide with a cyanide-laced soft drink on November 18, 1978. The ritual of self-destruction took place in a rural community the Temple had created in the heart of the jungle of Guyana, and had aptly named Jonestown: 908 dead, including at least 200 children, plus a few others slain and suicidal at the church site in Georgetown.(continua)