Jim Jones è stato il fondatore, il capo carismatico e il pifferaio paranoico del People’s Temple, la comunità religiosa californiana che si è suicidata in massa – 1012 morti – nella giungla della Guyana il 18 novembre 1978. La famiglia del Reverendo era atipica. 1 figlio dalla moglie Marceline e altri 8 adottati nel corso degli anni: Indiani Americani,  Asiatici, Neri, caucasici ecc. Jones la chiamava la “Rainbow Family”, la Famiglia Arcobaleno. 

Come il People’s Temple, la Famiglia Arcobaleno era il prolungamento fantasmatico dell’Io e del corpo del Capo. Il gruppo esisteva in quanto Io-folla di Jones, il contenuto cui il corpo del Reverendo serviva da pelle psichica e sociale insieme: Body Natural e Body Politic in una perfetta e mortifera incarnazione dei «due corpi del Re» (Kantorowicz). La Famiglia Arcobaleno conteneva in sé tutti i colori possibili della realtà, tutte le ‘etnie’ umane: una Famiglia-Mondo, stenogramma dell’umanità. Tramite la sua Rainbow Family, Jones perdeva il confine e i confini, diventata illimitato uomo-specie, incarnazione dell’universale, figura corporea di ogni possibile vivente, il luogo geometrico corporeo dell’onnipotenza divina: essere il padre di ogni vivente possibile, essere tutti, il tutto.(continua)

 

Non lo dimenticherò finché vivo.

1967, nel più improbabile dei luoghi, il Teatro Parioli, Roma, al cuore del quartiere piccolo-borghese che si pretendeva medioborghese. 21 anni. con quella che poco dopo sarebbe diventata la mia prima moglie.

Nessuna scena, solo fondali grezzi, travi, corde penzolanti, uno spazio senza vie d’uscita, Carceri piranesiani, luci senza grazia o pietà.

In programma l’Antigone di Brecht, via il Living Theater. Mai amato Brecht, al massimo sopportato, quel didascalico pedagogico greve di realtà. Ma c’era il Living. Dal 1966 la mia famiglia aveva affittato per Julian Beck e Judith Malina un appartamentino dietro Santa Maria in Trastevere. Era per 4, ci vivevano in 15. Ogni settimana qualche telefonata del Commissariato di zona, per impicci d’ogni genere. Ma adesso stavano per andarsene quasi tutti al Castello di Rocca sinibalda, ospiti, a far laboratorio, e lì ci sarebbe stato tanto spazio. 

Si parlava di loro nella Facoltà di Lettere e Filosofia occupata. Ero curioso, avido. A Berlino, Herbert Marcuse aveva già sancito “la fine dell’Utopia”, game over. In qualche modo l’enorme fiume di parole ‘alte’ e ideologiche che avvolgeva i più vivi di una generazione cominciava a sapere di morte, pensiero paranoico senza confini. Cercavo qualcosa, parole non consumate, forse gesti, di sicuro segni primitivi, corpi.

Il pubblico era quasi tutto in giacca, educato, nel buio. Lo ‘spettacolo’ non inizia. 15 minuti, 20, 30, 40. Poi inizia l’urlo. Non un grido, ma un urlo isolato e senza fine, ineducato, una voce sola e potente, da qualche parte laggiù nel Carcere d’invenzione, non da una gola ma da un ventre. Pian piano altre urla, a palcoscenico vuoto, un coro prima dell’umano e della storia, indifferente al senso e all’armonia, om senza pretesa di senso, potenza sonora del caos. Alcuni corpi praticamente nudi, donne e uomini, belli di forza non di bellezza, cominciano materializzarsi e invadono la scena a piccoli movimenti lenti, senza toccarsi o guardarsi, monadi sonore sparse sul palcoscenico, ognuna sola a se stessa. All’improvviso altri corpi nudi e urlanti scendono da dietro in mezzo alle poltrone, lentissimi, verso il palcoscenico ma restii ad arrivarci. Lo spazio intero del teatro è diventato una matrice carnale e sonora insieme, uno spazio-ventre regressivo, vicino alla origine. 

Il resto è stato Antigone, tableaux vivants, corpi-macchina e grandi macchine di corpi, pelle contro pelle, l’apollineo che mette in scena il dionisiaco, la voce del ventre che sfida il logos e il nomos della Legge di Creonte, la violenza del potere, il suo sadismo carico di desiderio, la carne morbida della vittima, il faustiano Regno delle Madri che si oppone alla legge del Padre e inghiotte senza fine l’Io nella forma-utero della sua danza, l’Io che cerca il confine della sua individualità e lo perde di continuo nel gruppo-massa di carne che lo avvolge.

Bello, ma per me la ‘verità’ è stata tutta in quel primo urlare corale di corpi sonori denso di carne e sesso e sconfinato addosso a noi, a me. In pochi minuti era saltato un paradigma, il ‘teatro’ era diventato qualcosa che non avevo mai ‘sentito’ che potesse essere, la perdita del limite, il dissolversi dell’Io abbandonatosi nel “sentimento oceanico” (Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io). Diventare magma e folla, disperdersi. Il rito non come liturgia ma come transe ec-statica. 

Sono tornato nei giorni successivi a vedere altri ‘spettacoli’: da Les Bonnes di Genet, i Misteri. Poi negli anni ho inseguito le tracce nomadiche del Living, i suoi frammenti dispersi, un po’ ovunque. Spezzoni di filmati – The Brig di Jonas Mekas è l’unico compiuto. Apparizioni qua e là: la maschera straordinaria di Julian Beck  per es. il Tiresia nell’Edipo Re di Pasolini. Altri ‘spettacoli’: Frankenstein, Seven Meditations on Political Sadomasochism nel 1974 a New York. Paradise Now, diseguale, contenitore nel quale il Living metteva tutto di sé cercando di afferrare lo spirito dei tempi quando quei tempi erano già finiti; eppure indimenticabile. 

Grado zero del teatro. Quella sera al Parioli in qualche modo è venuta meno la mia possibilità di sperimentare ancora il teatro, di viverlo di nuovo in altri modi degni. Ho cercato con ostinazione, ma sempre deluso. Ingiustamente deluso, lo so. Qualche sprazzo di speranza ogni tanto: le 120 giornate di Sodoma di Giuliano Vasilicò al Beat 72 di Roma, visto in amore clandestino, com’era giusto. Kantor, forse. Per il resto, la noia, tanta. Il déjà vu, tantissimo.

In Paradise Now torna ossessiva una frasetta presa dalle ultime pagine di The Politics of Experience, di Ronald D. Laing. “I have seen the Bird of Paradise. I’ll never be the same again”. Elogio decadente della psicosi come follia in Laing. Richiamo al dolore nostalgico dell’Utopia, in Julian Beck e Judith Malina: chi è stato ferito dall’utopia non potrà mai rimarginare la ferita, è condannato a desiderare il Paradiso Ora. Magari come Giardino Incantato all’origine di tutte le favole possibile, “nei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a qualcosa”, come scrivono stupendamente i Fratelli Grimm nell’incipit della prima favola della loro raccolta. O magari, per sua ventura e sventura, come il Kubla Khan di Coleridge, Perché di rugiada e miele si è nutrito/E ha bevuto il latte del paradiso.

Per me solo grado zero, teatro che ha sancito, per me,  l’impossibilità di ulteriore teatro. Un altro modo per dire la fine dell’utopia, e il suo ricordo come faglia irriducibile della realtà. Questo è morto e non è morto con la morte di Judith Malina. Si usa dire: Riposi in pace. Ma questo serve solo a rassicurare i vivi che è possibile mettere una pietra tombale sul desiderio. E allora: che Judith Malina si agiti, inquieta, per sempre. (enrico pozzi)

Masse di corpi

Masse di corpi

 

Julian Beck e Judith Malina

 

Julian Beck in Antigone (da B. Brecht e Sofocle)

Già da anni Marina Abramovic ripete stancamente il kitsch di se stessa, per se stessa e per i true believers di cui si circonda. Gli accoppiamenti con gli scheletri e con la terra alla Bicocca nel 2006 (la patetica Balkan Epic; vedi il Diario che ne parla) avrebbero dovuto mettere in guardia. Ma la carica libidica del suo corpo ancora riusciva a nascondere l’ovvio, la crisi creativa, la mancanza di idee, la povertà della narrazione. Ora il corpo ha dieci anni di più e non se la passa tanto bene, l’eros langue, il voyeurismo fatica a scattare. Servono idee per restituire carne alla carne. Ma la carne tace, e resta solo il cerebralismo di riti/performance senza verità, sine ira et studio, da burocrati del narcisismo. Se ne stanno accorgendo tutti. Alla Serpentine Gallery (continua)

 

Domenica pomeriggio di sole al MART, Rovereto. 

Arrivo da lontano per vedere la mostra di El Lissitzky. Pubblicità a pagina intera sull’inserto Cultura del Sole 24 Ore, lanci redazionali e la foto del bacio russo dappertutto. La mia ragione è Il costruttore del 1924, forma/figura umana del costruttivismo russo. Non può non esserci.

Parcheggio facile e vuoto. La grande Cupola trasparente della simil-Piazza interna. Un muro poderoso sbarra la vista delle montagne, la cosa più bella che Rovereto ha da mostrare. L’altrimenti grande Mario Botta pensava alle cose sue quando ha fatto il progetto.(continua)

Da qualche anno nel linguaggio aziendale e nei progetti di “responsabilità sociale” si va affermando la parola diversity, talvolta, non sempre, accompagnata da inclusion.

La diversity più conosciuta e riconosciuta  è la gender diversity, ma non è sola, se ne aggiungono progressivamente altre: di orientamento sessuale, di religione, di età, di dieta! Arrivano in forza i diversity manager pronti ad individuarne il più possibile! Il tutto per una buona causa, riconoscere “i diversi”  per garantire pari accesso  o semplicemente “includerli”. Purtroppo però diversity è una di quelle parole trappola che si trasformano sottilmente nel proprio contrario. Ecco 3 buoni motivi per liberarcene il prima possibile. (continua)

 

Un tempo gli psicoanalisti mangiavano il mondo. Ora leggono i Bollettini di psicoanalisi.

Dispiace dire questo partendo da una delle poche cose interessanti di matrice psicoanalitica che ho letto ultimamente. Per l’appunto un Bollettino della European Psychoanalytical Federation, il n. 67 di Psychoanalysis in Europe. Sono gli atti di un convegno della EPF a Basilea, 21-24 marzo 2013.

Il tema è bellissimo: Formlessness: Deformation, Transformation. La perdita della forma come campo, precondizione, strumento, procedura delle deformazioni che consentono le trasformazioni. Meglio: delle deformazioni che precedono le trasformazioni, continuano a sabotarle dall’interno come fessure costanti di perdita di forma, e diventano lo stadio successivo e sempre transitorio della trasformazione che insiste a deformarsi e introduce nuove trasformazioni possibili. 

 

Ben Miller, The Amorphous Blob of Human Experience

(continua)

Dopo anni di indifferenza, finalmente alla Fraenkel Gallery di San Francisco una mostra importante per le foto di Peter Hujar, la prima abbastanza completa dopo le retrospettive del 2005 al Moma PS1 (Brooklyn), e allo Institute for Contemporary Arts (Londra) nel 2007.

Morto di Aids a 53 anni, Peter Hujar è stato uno dei grandi protagonisti della vita artistica dello East Village newyorchese negli anni ’70 e ’80. Mentore di alcuni, conosciuto da tutti, amato e/o odiato da molti, ha costruito un universo iconico forse unico in quel periodo per rigore formale e tematico. Corpi: soprattutto di uomini del popolo gay del Village (continua)

[L’invenzione dell’A.D.H.D – Attention Deficit Hyperactivity Disorder, perché i bambini non possono più essere “cattivi”, ma solo malati]

The Selling of Attention Deficit Disorder

di Alan Schwarz, New York Times, 14 dicembre 2013

 

[fumetti, identità, immigrazione, sincretismi, a Parigi la mostra: Albums. Bande dessinée et immigration 1913-2013]

Dalle avventure di Asterix alla tragedia di Lampedusa passando per la nostalgia di Superman. In mostra a Parigi un secolo di migrazioni raccontate attraverso le strisce dei fumetti e le biografie di chi li ha disegnati

Supereroi in cerca di casa

di Siegmund Ginzberg, la Repubblica, 15 dicembre 2013, p. 37

 

[Udacity: la formazione universitaria online non funziona, solo il 7% supera l’esame finale e solo il 4% completa il corso; altre accademie digitali: Coursera e edX]

I riscontri sulla proposta educativa che aveva lanciato deludono lo scienziato Sebastian Thrun. Sollievo degli atenei tradizionali

Dietrofront, cari studenti in rete. L’università online non funziona

di Massimo Gaggi, la Lettura, 15 dicembre 2013, p. 4

 

[iloveyourwork: Jonathan Harris realizza un’etnografia visuale della vita quotidiana di 9 donne nel porno lesbico]

Documenta. Un lavoro appassionato e molto intimo

di Chiara Campara, la Lettura, 15 dicembre 2013, p. 8]

 

[arte digitale; Julia Kaganskiy: nuovo incubatore arte, design tecnologia del New Museum di New York; piattaforme online per l’arte digitale: openframework; artisti digitali segnalati: Julian Olivier, Dunne&Raby, Lauren McCarthy]

Centri – Julia Kaganskiy, 28 anni, dirigerà l’incubatore del New Museum di New York. “E’ nata una nuova classe culturale”

A me gli hacker, anzi gli artisti

Con internet tutto il processo creativo diventa opera

di Serena Danna, La Lettura, 15 dicembre 2013, p. 16

 

[Vincenzo Padiglione: Poetiche dal museo etnografico; AM – Antropologia museale, Itri: Museo del Brigantaggio]

L’Istat censisce le (fondamentali) istituzioni legate al territorio

Mille musei etnografici: un caotico primato italiano

di Adriano Favole e Vincenzo Padiglione, La Lettura, 15 dicembre 2013, p. 17

 

[Morozoz, sensori emozionali, misurazione integrale dei linguaggi verbali e non verbali]

Allo studio strumenti capaci di riconoscere quando le persone sono più vulnerabili e quindi più ricettive ai consigli promozionali

Stai piangendo? Ti vendo i fazzoletti

Merci su misura al momento giusto: i sensori leggono le emozioni e pilotano gli spot

[di Evgeny Morozov, la Lettura, 8 dicembre 2013, p. 7]

 

[Singularity University, hamburger stampato in 3]

Tra vent’anni ci opereranno i robot

Il caso di Amanda: sulla sedia a rotelle, può alzarsi e camminare grazie a un esoscheletro. “E’ vicino il giorno in cui un americano cieco riuscirà a comunicare con un bulgaro sordo”

[di Cristina Gabetti, la Lettura, 8 dicembre 2013, p. 8]

 

[Silvio Garattini, Nature, oscurantismo italiano]

La nuova legge sui test animali è contro la scienza

Vietato allevare cani, gatti e primati, vietato sperimentare droghe sugli animali (per capirne la tossicità sull’uomo), vietati i trapianti fra specie diverse. Mentre gli animalisti esultano, l’autorevole rivista Nature avverte: è un fallimento tutto italiano. E per gli scienziati queste regole impediranno il progresso verso farmaci e terapie più efficaci.

[di Silvio Garattini, Panorama, 11 dicembre 2013, p. 48]

 

Un manifesto per i Big Data  [di Serena Danna, La Lettura, 24 novembre, p. 6]

Il 15 novembre al Massachusetts Institute of Technology di Boston, il SENSable City Lab ha organizzato Engaging Data 2013, giornata di studio sui Big Data a partire dall’effetto Snowden. Utile, importante, fondamentale l’autocritica e il ripensamento. Meno utile, continuare ad utilizzare il concetto/valore di trasparenza come se dovesse bastare la chiarezza sull’uso delle informazioni  raccolte e sul loro utilizzo a trasformare i Bad Data in Good Data. Dobbiamo interrogarci sulle componenti emotive delle nuove strategie di costruzione dell’identità del soggetto. Perché c’è bisogno di condividere ogni viaggio, ogni festa, ogni cena, ogni parto su Facebook? La regolamentazione sull’uso dei dati deve andare di pari passo con la costruzione sociale dell’importanza e del valore della priviacy e con la rifondazione del desiderio di intimità.

 

L’ossessione dell’apparenza  [di Gabriele Romagnoli, la Repubblica, 24 novembre, p. 43]

1. Ricordati che anche se non appari continui ad esistere ugualmente …“: un decalogo per cominciare a ridiventare intimi, innanzitutto con se stessi.

 

Elogio della discrezione  [di Anais Ginori, la Repubblica, 24 novembre, p. 42]

Intervista al filosofo Pierre Zaoui che ha pubblicato La Discrétion: Ou l’art de disparaître. Selfie, l’autoritratto con smartphone condiviso sui social media, è la parole del 2013: l’uso è cresciuto del 17mila % in un anno. Zaoui contrappone all’ossessione dell’apparire, la definzione di discrezione di Proust:” E’ il privilegio di poter assistere alla propria assenza “. Per Zaoui la discrezione diventa:” Una forma di dissidenza nella società panopticon in cui tutto e tutti è guardato, osservato, schedato “.