Un affascinante “cabinet de curiosités” dell’antropologo Vincenzo Padiglione

                                     Nomadi

Molti anni fa, Jean Baudrillard scrisse un breve articolo sui graffiti a New York. Erano un tentativo di spezzare l’ordine razionale della griglia geometrica di quella metropoli. Smagliature visive nell’ordine ferreo e numerico di una trama di coordinate cartesiane che non consentono mai di perdersi.

Vincenzo Padiglione, artista in quanto antropologo, interpreta allo stesso modo la Wunderkammer. Tuttavia la trasferisce dalla ‘meraviglia’ alla ‘curiosità’,  cabinet de curiosités, come suona un’altra dizione. La variazione non è banale. La ‘meraviglia’ è uno stato d’animo monocromo, si ripete in forme e emozioni sempre eguali a se stesse, ha un identico rapporto con l’oggetto per quanto diversi siano i suoi oggetti. La ‘curiosità’ non lascia che un oggetto si impadronisca di noi, anche solo per qualche attimo. Saltella. Pratica lo zapping. Non si lega a nulla. Conserva una sua distanza mentre fruga nella realtà. È infedele. E tuttavia cerca senza tregua. La meraviglia vive nella pancia, prende al petto e spalanca la bocca per divorare. La curiosità fa lo stesso, ma si finge di testa e si trincera nello sguardo, che per vedere è costretto alla distanza.

Vincenzo ha condensato questa differenza nella installazione/cabinet de curiosités creata a Roma, negli spazi insoliti della Pelanda – l’antico Mattatoio, così sovraccarico del ricordo di carne, durante l’appropriato Hic sunt leones, terza edizione del Festival delle periferie curato da Giorgio de Finis  https://iperfestival.it/.

Secondo me, che di sue ne ho viste molte, questa è una delle costruzioni più belle del Vincenzo Padiglione irrimediabilmente artista/antropologo. Un’accozzaglia di ‘cose’ in cerca di senso ma mai concluse in un senso. Frammenti che stridono tra loro e sembrano muoversi verso agglomerazioni instabili, costringendo l’incauto ‘spettatore’ a ridefinire ogni volta trame che non riescono ad essere griglie. Ci si aggira spaesati ma non dispersi. Si torna e ritorna intorno e dentro a questo quasi-sistema di oggetti, ogni volta con punti di vista leggermente diversi che però vengono vissuti come molto diversi, nuovi anche se di testa si sa che non sono nuovi.

Ci sono tutti i topoi dell’immaginario di Vincenzo, lontani e recenti. Le gabbie. Gli uccelli. Le maschere. Le bambole. Le valigie consumeate da molti nomadi. I corpi spiaggiati. Le mani amputate. I peluche. I micro-automi. Un televisore come occhio-specchio della realtà. Le pietre. Le ossa. Le stoffe improbabili. Un orecchio gigante. Cavallini di legno e altri giocattoli che cercano di essere solo giocattoli. Statue ‘esotiche’. Miriadi di micro-cose accostate e accumulate senza ordine evidente, salvo appunto il piacere coesivo di accumularle. E dietro si indovina il resto, quello che in garage, case e spazi di ogni genere l’autore ha accumulato, e che eccede quanto qualsiasi spazio possa contenere. Con per ogni frammento – perché di frammenti e di retorica dei frammenti e del non-finito si tratta spesso – la stessa domanda: ma dove li ha trovati, dove va cercando, da quanto tempo, perché.

E sempre questa presenza della morte come vocazione intima del collezionismo. Trasformare la realtà in still life, in tante nature morte.

Cosa ha visto? Uno specchio di noi

La presentazione pubblica della sua installazione che Vincenzo ha fatto al mattino di giovedì era congrua al suo oggetto. L’antropologo-accademico Padiglione sa essere logico, strutturato, cogente nelle argomentazioni. Qui Vincenzo Padiglione è stato invece rapsodico. Frammenti di pensiero. Frasi che venivano associandosi l’una all’altra senza gli allora… dunque … perciò… forse… ma… ecc ecc. Come una fatica spaesata del pensiero, il rifiuto a chiudere e concludere e dimostrare. Alcune parole-chiave. La più importante: il singolare, l’irriducibilità dell’individuale di fronte alle categorie, ai tipi, alle classi e alle ripetizioni. Al centro della ragione illuminista, il suo cuore nero, il bisogno del non classificabile, la speranza del disordine e la costruzione del monstrum.

Aspettavo la dialettica dell’illuminismo, ed è puntualmente arrivata. Ma è meglio dirla con le parole sue, più leggere delle mie: “È arrivato uno stabilimento colmo di Stranezze, Estrosità, Stravaganze, Capricci, Stramberie, Singolarità, Eccentricità”. Le mie sono più seriose e pesanti: è arrivato la Narrenschiff, la Nave dei Folli, e scende lungo il fiume mentre noi invidiosi la guardiamo passare dalla riva.

Non è giusto prendersela con l’Illuminismo. Altre epoche dominate da canoni forti hanno inventato i loro cabinets de curiosité. Il Rinascimento ha generato – dovuto generare – il suo Antirinascimento, le torsioni irregolari del Manierismo e le esplosioni immaginarie delle grottesche. Mi sono davanti e dentro gli occhi così spesso in un luogo che Vincenzo conosce bene, dove il rigore ascetico delle architetture ha richiesto in contrappunto la loro immaginazione sregolata e i loro accostamenti improbabili di forme spesso impossibili o ‘esotiche’. Ne ha scritto bene e a lungo Philippe Morel, in un libro che se ne avessi il tempo vorrei tanto tradurre: Les grotesques: Les figures de l’imaginaire dans la peinture italienne de la fin de la Renaissance…..

Ecco. Suggerisco a Vincenzo Padiglione un’altra parola per il suo elenco: grotesque, grottesca&grottesco, che vive di grotte…

Un’ultima notazione, questa volta sull’evento-contenitore. Lo Hic sunt leones ha come sottotitolo Dove abita l’immaginazione. Giorgio de Finis postula da tempo la tesi che  le smagliature della realtà, in questo caso l’immaginazione, siano appannaggio delle periferie. O dei detriti, resti, frammenti ecc. Cioè di spazi separati e per questo ‘liberi’. Visione povera, predialettica. “La ragione è presso di sé nella non-ragione come non-ragione” (Marx, Manoscritti del ’44). La smagliatura vive nel centro e del centro, non ai margini. La camera delle curiosità di Vincenzo Padiglione sta in uno spazio che si chiama Acquario. Il vertice della trasparenza con, come ineludibile parte di sé, una gentile Nave dei Folli a sua intrinseca sostanza e negazione. Tant’è. [enrico pozzi]

 

 

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