di Enrico Pozzi –
– 16 Luglio 2024

ANTONELLA SALOMONI, Lenin a pezzi. Distruggere e trasformare il passato, Bologna, Il Mulino, 2024

Les statues meurent aussi. Così Chris Marker e Alain Resnais titolavano all’inizio degli anni 50 il loro documentario anticoloniale sull’arte africana, bloccato dalla censura per quasi un decennio.

Anche le statue di Lenin muoiono, racconta la storica Antonella Salomoni. Il punto di partenza è la frattura politica, simbolica e immaginaria introdotta dalla sua morte. Gravemente invalido da anni, ormai isolato nella sua dacia a Gorki, Lenin rimaneva ancora il padre fondatore dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il fil rouge fantasmatico che ancorava il nuovo stato socialista alla élite prerivoluzionaria poi bolscevica. La sua scomparsa rischiava di far esplodere le tensioni e i conflitti già evidenti all’interno del gruppo dirigente del PCR(b) poi PCU(b). Il vuoto aperto nell’immaginario collettivo di una società appena uscita da una guerra civile e lacerata da mille fattori diversi riapriva spinte disgregative che la prudenza della NEP non bastava a mitigare.

Così Lenin morto non poteva morire. Salomoni ricostruisce il con testo, le matrici prerivoluzionarie e i tentativi bolscevichi di inventare memoria, persistenza ed ‘eroi’ esemplari alla liquefazione sociale introdotta dalla rivoluzione. Lo stesso Lenin aveva proposto una strategia di “propaganda con i monumenti” per introdurre in gran fretta forme di persistenza nella ‘catastrofe’ (come da teoria delle catastrofi) rivoluzionaria. Questa stessa ‘propaganda’ investe ora il suo propugnatore. Lenin deve diventare monumento.

Un doppio monumento. Il corpo morto deve trascendere la morte diventando reliquia integrale e dinamica.

di massimo fusillo –
– 5 Luglio 2024

Iniziamo da un brano che esprime, con notevole potenza espressiva e con ricchezza di dettagli, lo statuto ambiguo della pelle: confine labile e perturbante fra interno ed esterno del corpo. È un brano tratto dalla sontuosa epopea biblica di Thomas Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, e si riferisce al protagonista nella sua fase di adolescente, altra posizione liminale:

Creature come te sono un inganno fugacemente splendente sull’orrore che si nasconde sotto la superficie di ogni carne. Ma nemmeno la pelle, questo involucro (Haut und Hülle), con le esalazioni dei suoi pori, con il sudore dei suoi peli, è cosa davvero molto appetitosa: basta che tu la scalfisca un poco, e subito ne schizza fuori la broda salata, di un rosso provocante, e più si penetra nell’interno e più cresce il disgusto e non c’è altro che budellame e puzza (Gekröse und Gestank). Ciò che è bello e leggiadro dovrebbe essere bello e leggiadro anche all’interno, e solido e di nobile materia, non ripieno di viscidume e sozzura (…). Allora ti devi contentare di immagini…O la vita è un inganno, o lo è la bellezza. Tutt’e due unite non le puoi trovare nella realtà.

Risuona in questo brano la visione apollinea che vuole mantenere il più possibile integro e incontaminato il confine della pelle; è l’estetica neoclassica di Winckelmann che prediligeva infatti i corpi di efebi e an- drogini, e che impronta un celebre capolavoro di Mann, La morte a Venezia. Questa visione ha numerose rifrazioni nel costume e nella moda contemporanei, se si pensa alla pratica sempre più diffusa della depi- lazione maschile, o, nell’ambito dell’immaginario gay, alla figura molto amata del twink, dal corpo glabro e adolescenziale, anche se non manca una corrente opposta, che valorizza all’estremo il pelo, quella degli orsi. Thomas Mann era profondamente attratto dal mondo di Dioniso, che prevede nei suoi riti lo smembramento dell’unità del corpo (lo sparag- mos), e quindi anche la violazione del confine della pelle. Questo è mol- to chiaro nel sogno di Gustav von Aschenbach ne La morte a Venezia, in cui l’orgia e il rito dionisiaco annullano tutti i confini fra io e gruppo, gioventù e vecchiaia, individuale e sociale; la pelle viene forata e leccata prima che la violenza della lacerazione si sposti sul mondo animale:

Erano fuori di sé, avevano la schiuma alle labbra, si eccitavano a vicenda toccandosi con gesti erotici, fra risa e gemiti; si conficcavano a vicenda i pungoli nella carne, e leccavano il sangue dalle membra (stießen die Sta- chelstäbe einanander ins Fleisch und leckten das Blut von den Gliedern). Ma ormai il sognatore era con loro, in loro, e apparteneva al dio straniero. Sì, erano lui stesso quando si scagliarono sugli animali per dilaniarli e ucciderli, e ne divorarono pezzi fumanti; e quando sul suolo muschioso e scompigliato iniziò, come offerta al dio, un’unione sessuale priva di limiti. E la sua anima assaporò il piacere e il furore del decadimento.

Anche in Giuseppe e i suoi fratelli compare il momento distruttivo: Giu-seppe viene violentemente aggredito dai suoi fratelli, e la sua pelle splen- dida e sgargiante viene violata, tagliata, ricoperta di sangue:

Giaceva sulle braccia legate, la nuca affondata nell’erba, le ginocchia sol- levate, le costole che si alzavano e abbassavano rapidamente, tutto pesto e contuso. Sul corpo, che la rabbia dei fratelli aveva coperto di bava e su cui si appiccicavano musco e polvere, scorreva in rivoli serpeggianti il rosso succo che sgorga dalla bellezza quando se ne ferisce la superficie (der rote Saft, der der Schönheit entquillt, wenn man ihre Oberfläche verletztz). L’occhio non ammaccato cercava pieno di terrore i suoi assassini, e ogni tanto si chiudeva convulsamente.

Thomas Mann ci permette dunque di individuare due modelli opposti con cui viene tematizzata la pelle, che hanno come paradigma mitico l’ambivalenza di Dioniso fra creazione e distruzione:

di andrea-pagnes –
– 3 Luglio 2024

    Etimi in prossimità

La pelle è il rivestimento più esterno del corpo di un vertebrato. Nei mammiferi e in particolare nell’essere umano, è l’organo più esteso. Per- ché si chiama così? La derivazione etimologica da termini latini e panromanzi quali pellis, pèllem, della Grecia antica quali epipoles e pelós, il corso pèlmà, e l’analogia con l’irlandese e basso tedesco pell, ci ricon-ducono all’azione dello stendere/si, ai sostantivi argilla, suola, pianta del piede, superficie. Pelwe in lituano è la pellicola dell’uovo. In indi, la radice Pal- sta per copertura.

Per indicare la pelle si usa anche la parola ‘cute’, dal latino cutis, a sua volta dal greco antico kytos, ovvero la membrana-involucro continuo che riveste tutto il corpo con funzione prevalentemente protettiva, di secrezione, tattile e sensitiva, in corrispondenza delle sue cavità e aperture naturali comunicanti con l’esterno. Dal latino cutis deriva anche il rumeno cute= ruga, piega.

Le definizioni anatomiche della pelle, come quella del vocabolario Treccani alla voce ‘cute’, indicano che la pelle risulta costituita di due di- verse strutture fondamentali: «una esterna (epidermide), di natura epiteliale, il cui strato superficiale, più o meno spesso, è formato da sostanza cheratinizzata (strato corneo); e una profonda (derma o corion), di natura connettivale, contenente, a seconda delle regioni del corpo, follicoli piliferi (con annesse ghiandole sebacee) e numerose strutture sedi della sensibilità tattile, pressoria, termica e dolorifica.» (TRECCANI, s.d.).

Negli intrecci semantici tra le varie lingue, se togliessimo dal termine latino cutis le ultime due lettere ‘i’ e ‘s’, avremmo la parola inglese cut, che in italiano vuol dire ‘taglio’, generatasi dall’antico termine norvegese kytja, assai vicino al greco kytos (pelle) e skytos (pelle lavorata, cuoio).

La questione linguistica intorno alla parola pelle si fa interessante, poiché, in inglese, pelle viene tradotto con skin, termine anch’esso derivato dall’antico norvegese skinn (pelle animale, pelliccia), a sua volta dalla radice proto-indoeuropea sek, che significa appunto ‘tagliare’, probabilmente per il fatto che la pelle animale veniva comunemente tagliata per essere poi utilizzata come indumento a copertura del corpo, o stesa su una superficie dove distendersi e coricarsi.

    Arte della pelle

L’arte della pelle è probabilmente antica quanto i primi Sapiens. Sottende il desiderio dell’essere umano di manipolare la superficie del proprio corpo per definire se stesso agli altri, determinando così un senso di appartenenza a un gruppo, a una casta, a una famiglia, a una tribù. Alterare la pelle sottende la tensione di modificare il proprio aspetto per attualizzare un’immagine ideale di se stessi e comunicarla agli altri per riabitare il mondo, oppure concretizzare su di sé astrazioni immaginarie. Le pratiche ritualistiche (un tempo sovente a carattere iniziatico) esercitate direttamente sulla pelle, la condizionano e ne assumono il co trollo per riformarla. Tatuaggi, piercing (forare), branding (marchiare), scarificazioni, ancoraggi dermici, tagli, inserzioni sottocutanee, dipinture del corpo, sono trattamenti che hanno origini assai lontane e come scopo quello di riqualificare l’identità del soggetto che si sottopone a tali pratiche per decretare il separarsi da uno stato precedente e aggregarsi a nuove appartenenze.

Dal 1960 in poi, questo tipo di interventi sulla pelle viene classificato come Body art, un insieme di operazioni performative radicali che assumono la pelle come materia prima del fare artistico. (Vergine, 1974).

Le donne, per le quali l’immagine corporea nella contemporaneità è così sessualmente oggettivata che si carica di ansie e paure, iniziano a usare la propria pelle come tele tridimensionali. La imbrattano di visco- sità, vernici, sangue, viscere e feci in eventi performatici dal vivo e opera- zioni artistiche video e fotografiche. La Body Art sembra quasi diventare

di Mirko Lino –
– 2 Luglio 2024

Zombie Boy Skin

Il video promozionale del fondotinta Dermablend della Vichy si apre con il modello canadese Rick Genest1 che mostra alla telecamera il proprio petto nudo. Mantenendo lo sguardo fisso in macchina il modello applica una crema su un dischetto struccante e inizia a strofinare con decisione la propria pelle all’altezza dello sterno; l’incarnato viene cancellato lasciando intravedere al suo posto uno strano colorito grigiastro. Poco dopo, guardando sempre in macchina, Genest prende un piccolo asciugamano, applica nuovamente la crema e massaggia il proprio viso. Tolto l’asciugamano, il suo volto appare trasformato in quello di un te- schio, con gli occhi scavati, il cranio aperto, i due emisferi cerebrali ben in evidenza, la mandibola scarnificata che disegna un lungo ghigno magnetico quanto inquietante. Da questo momento in poi, il video mostra in fast motion il processo di make-up a cui è stato sottoposto il modello. Una equipe di truccatori applica copiosamente il Dermablend sul corpo di Genest; ma le immagini accelerate e montate all’inverso restituiscono piuttosto una suggestiva spoliazione epidermica: la pelle rosea viene scorticata lasciando emergere un’altra pelle totalmente tatuata raffigurante le sembianze di uno zombie. I dettagli anatomici di ossa, mem- bra, vene, arterie, intervallate da simboli (il “biohazard” nello sterno) e parole (“zombie” nel bicipite sinistro), lasciano affiorare l’effigie di un cadavere ossuto con la pelle a brandelli in più parti. Basta conoscere il reale aspetto di Genest (fig. 1) per comprendere il gioco illusionista a cui punta il video e comprendere il senso ironico del claim “Dermablend può cambiarti la vita” che appare in chiusura. Infatti, per via dei tatuaggi cadaverici che gli coprivano interamente il corpo, Genest era conosciuto nel mondo dello spettacolo e della moda con il soprannome “Zombie Boy”.

Quello che il video del Dermablend mostra in apertura – il petto nudo e uniformemente roseo di Genest – appare allora il risultato finale di una lunga a pervasiva applicazione cosmetica, la cui efficacia normalizza temporaneamente l’aspetto di “Zombie Boy”. La pubblicità insiste molto sulla spettacolarità del suo tatuaggio, esibendolo attraverso uno smascheramento ambiguo, il cui risultato è la rivelazione finale delle corrispondenza tra la pelle cadaverica e la pella “autentica”. L’oscillazione tra l’umano e lo zombie mostrato nel video illustra la capacità della pelle di divenire una superficie di proiezione   

di Massimo Canevacci –
– 15 Maggio 2024

Breve premessa indicativa

ll mio transitare su immagini-corpi attraversa esposizioni di
diverse tipologie, anche perché penso che il concetto classificatorio di
 tipologia sia entrato in crisi da tempo, per cui mi sembra opportuno 
mescolare frammenti iconici sulla base di un incerto o fragile indicatore: l’attrattore. Con questo concetto scivoloso e appiccicaticcio individuo la capacità attrattiva dell’occhio verso codici a forte o latente contenuto feticista che, nella mia previsione, possono anticipare tendenze
liberatorie del pensiero dicotomico fondato sulle repliche di soggetto-oggetto in direzione di un meta-feticismo oltrepassante le stanche repliche binarie o dualiste. Il colpo d’occhio, così caro all’estetica, diventa
 in antropologia corpo d’occhio . A tal fine seleziono una decina di immagini, tratte da un campionario variegato composto di arte, pubblicità,
cinema, merci, inserendole nelle mie fantasie antropologico-visuali.

1. OCCHIO LECCATO

All’inizio, Janine Antoni sull’occhio.

Il motivo è vedente e evidente:
la mia è un’ antropologia ottica che si plasma instancabilmente sulla potenza erotica e cognitiva dell’occhio. La pupilla deve esser umettata, o meglio, leccata da una lingua che non resiste alla forza dell’attrattore-occhio. Una lingua che, di conseguenza o necessità, si fa a sua volta attrattore che si insinua tra palpebre e ciglia per arrivare all’iride, centro mobile identificativo del soggetto e della sua estesa corporalità concentrata nella tenerezza molle della pupilla gustativa. La fissità dello sguardo che ne deriva è affine a quella dell’uscire-da-sé nel corso della relazione sessuale, con questa variazione: il sesso è genitale e l’eros è polimorfo. In questo senso, baciare l’interno dell’occhio si offre come una estensione illimitata dell’erotica possibile. Non solo. Si afferma nella visione dell’artista che il centro, o meglio, uno dei centri più sensibili e accesi, fissati , dell’umano si colloca nel flusso dell’ottica emanato dalla pupilla e baciato/leccato nell’iride.
L’opera di Janine Antoni si affaccia su alcuni autori che intorno al 1930 stavano – separati eppur connessi – affrontando con ‘ottiche’ diverse le storie dell’occhio . Qui ovviamente George Bataille è citato o evocato nel suo romanzo in cui il vero e ultimativo sacrificio sacrale dirige e affonda la pupilla nelle estreme cavità del corpo femminile, un tunnel non riproduttivo e proprio per questo generativo dell’estremo piacere; ed è noto come l’artista dadaista Hans Bellmer sia stato influenzato da questi eccessi e abbia a sua volta rappresentato nelle variazioni più corporalmente polimorfe di un’o ttica scatenata tra le pieghe di corpi dismembrati e riassemblati.
L’altro autore vicinissimo a Bataille eppure lontanissimo da lui è Walter Benjamin, che delinea un concetto esplosivo e contiguo alla storia dell’occhio: l’ incosciente ottico . Nel suo celebre saggio sull’aura, il berlinese scava nelle storie immaginate dal parigino, pur senza conoscerle, credo. Influenzato da Freud, egli “vede” che la riproducibilità tecnica di cinema e fotografia (e ora potremmo dire del digitale) espande lo spazio nel primo piano e il tempo col rallenti. In tal modo mostra tratti del corpo umano concentrati nel viso o nel movimento che prima erano inimmaginabili nell’arte auratica.
Si svela qualcosa di segreto per la prima volta nella storia sia dell’occhio che dell’umanità: le relazioni anzidette tra cervello e sguardo non sono e non saranno mai più del tutto simmetriche. Le capacità sessuali,

di andrea-pagnes –
– 9 Settembre 2023

Nei territori della tecnologia come in quelli della performance, si tentano letture di senso su futuri che non possediamo ancora perché devono ancora arrivare, o che forse sono già qui, ma non sono distribuiti in modo uniforme. Quando il discorso tecnologico confluisce nel pensiero pratico, le distinzioni tra realtà e performance si dissolvono. I concetti costitutivi per comprendere come l’innovazione tecnologica influenzi i soggetti e gli approcci alla performance vengono rinegoziati.

Performer come ORLAN, avvalendosi dell’implantologia e della chirurgia plastica, e Stelarc, con applicazioni prostetiche, nanotecnologie, incursioni nella robotica e scienza computazionale, danno un nuovo impulso alla performance art negli ultimi due decenni del XX secolo. Il medium non è più solo il messaggio (McLuhan). Diventa l’opera stessa nel momento in cui la tecnologia s’impossessa della carne per ritrasmetterla dal mondo esperienziale dell’artista a quello della realtà condivisa.

ORLAN, ovvero la reincarnazione

All’inizio degli anni 90, l’artista francese ORLAN compie un potente atto radicale sul proprio corpo per cambiare il suo aspetto fisico in modo permanente. Si sottopone a una serie di nove interventi di chirurgia estetica, trasmessi via satellite come una live-streaming performance, La Réincarnation de Sainte ORLAN (1990-1993).

Le reincarnazioni vanno lette come performance metamorfiche per ricreare il sé attraverso atti deliberati di alienazione e riposizionamento politico. L’artista usa il viso e il corpo come strumenti duttili per attivare un processo trasformativo di identità diasporica. Questo processo scuote le certezze comuni e contrasta una società repressiva che etichetta il comportamento dell’artista come controverso e trasgressivo nei confronti della normatività.

Trasmettendo telematicamente in tempo reale le sue operazioni chirurgiche, il viso di ORLAN risulta perturbante. Suscita ansia e disagio, ma anche sentimenti di empatia e alleanza. L’artista mette in atto un’operazione che confonde apparenza, presenza e manifestazione con l’abisso dell’esistenza umana. Lo esorcizza per consentire riflessioni più confortanti: l’atto artistico radicale è voltarsi e tornare con insistenza al bivio di partenza, per non ossificarsi in luoghi dove l’unica soluzione possibile è la progressiva auto-disintegrazione.

Ogni intervento chirurgico dell’artista francese sul suo viso 

di Enrico Pozzi –
– 3 Settembre 2023

Fernanda ALFIERI, Veronica e il diavolo. Storia di un esorcismo a Roma, Torino, Einaudi, 2021

Nel 1834 una giovane ragazza romana, Veronica Hamerani, di famiglia legata alla Chiesa, manifesta i sintomi di una possessione diabolica.

Per accidente, cercando altro, nell’Archivum Romanum So- cietatis Iesu, Fernanda Alfieri capita sul fascicolo ffsorcisazione di Maria Antonina [in realtà Veronica] Hamerani, ritenuta ossessa (1834-1835). Il fascicolo raccoglie alcuni mesi di protocolli dell’os- servazione partecipante degli esorcisti seduta dopo seduta, descri- ve il comportamento di Veronica, corpo, gesti, parole. Racconta le azioni di chi deve liberarla dal diavolo. Registra i diversi pareri e strategie, le risonanze esterne, i dubbi (è posseduta? sta recitando? è malata?), l’impotenza di fronte alla sua sofferenza, l’inefficacia delle procedure codificate messe in atto.

Di archivio in archivio, troverà poco dopo (Biblioteca Naziona- le di Roma) i quaderni manoscritti del gesuita Francesco Manera, il suo diario dei primi mesi della vicenda di Veronica.

Da queste due fonti Fernanda Alfieri costruisce la microstoria di una possessione.

di vincenzo padiglione –
– 11 Luglio 2023

Luigi Lineri (Ronco all’Adige 1937) vive a Zevio in provincia di Verona. Nel fienile adiacente alla sua casa ha allestito in modo stupefacente una collezione originale: ciottoli di fiume a migliaia, diversamente esposti. Al centro, impilati in cumuli e torri dal precario equilibrio ma dalla suggestiva messa in scena. Ai lati e sulle pareti, presentati in modo comparativo su tavole didattiche approntate artigianalmente.

Da oltre 30 anni Lineri ispeziona il greto del vicino Adige e lo sorveglia con cura. Soprattutto nelle stagioni di bassa, ricerca in dettaglio evidenze e valori plastici che i sassi ad un tempo mostrano e celano. Con sguardo di prossimità, postura manipolativa e attenzione figurativa, Luigi Lineri interroga quella marea di pietre

di Enrico Pozzi –
– 11 Luglio 2023

L’ultima lettera di Bucharin a Stalin

delirare contro la morte personale, storica (enrico pozzi)

La rivoluzione è affare di logici folli, di Wallace Stevens

Ideologia vs dolore. Un gioco suicida, un nonno, un adolescente, il (n)PCI e uno sterminio di classe (a cura di enrico pozzi)

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L’ultima lettera di Bucharin a Stalin

Strettamente riservato  Personale Chiedo che nessuno legga questa lettera senza l´autorizzazione di I. V. Stalin.

a   I. V. Stalin Josif Vissarionovic!

Ti scrivo questa lettera, che è sicuramente la mia ultima lettera. Ti chiedo il permesso di scriverla, benché mi trovi in stato di arresto, senza formalismi, tanto più che la scrivo solo per te e la sua esistenza o non esistenza dipende solo da te…

Oggi si chiude l’ultima pagina della mia tragedia e, forse, della mia vita. Ho esitato a lungo prima di scrivere, tremo per l´emozione, migliaia di sentimenti diversi mi travolgono e mi controllo a fatica. Ma proprio perché mi trovo sull´orlo dell´abisso voglio scriverti questa lettera di addio, finché sono ancora in tempo, finché riesco a scrivere, finché i miei occhi sono ancora aperti e finché il mio cervello funziona.

Perché non vi siano malintesi, voglio dirti subito che per il mondo esterno (la società):

  1. Non ritratterò pubblicamente niente   […]

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delirare contro la morte personale, storica (enrico pozzi)

Il 13 marzo 1938, Nikolaj Ivanovic Bucharin viene giustiziato nel carcere della Lubjanka. Era stato uno dei vertici della rivoluzione bolscevica. Nella sua Lettera al Congresso del 24 dicembre 1922 – il cosiddetto Testamento – Lenin lo aveva definito « il prediletto di tutto il partito ». Nella stessa pagina Lenin chiedeva l’allontanamento di Stalin dalla carica di Segretario generale del Pcus. 16 anni dopo, Stalin trionfante elimi- na fisicamente l’allora rivale.

Bucharin era stato arrestato il 27 febbraio 1937 durante il Plenum del Comitato Centrale. Il 2 marzo 1938 inizia il processo. Insieme ad altri 20 imputati Bucharin è accusato di essere uno dei leader del cosiddetto Blocco Trotskista di Destra, colpevole di una serie fantasiosa di crimini, tra cui il progetto di assassinare Stalin, il rovesciamento del regime sovietico e lo smembramento dell’URSS, la restaurazione del capitalismo, lo spionaggio, il sabotaggio di settori industriali chiave ecc. 18 dei 21 vengono condannati a morte, e in 24 ore la sentenza viene eseguita.

Con questo Terzo processo di Mosca si conclude l’eliminazione fisica di tutti i vertici del Partito e della rivoluzione bolscevica non incorporati nel nuovo gruppo di potere staliniano. Gli altri – il livello immediatamente inferiore – vengono annientati in modo discreto, senza vistose rappresentazioni pubbliche. Oltre il 70% dei 139 membri titolari o supplenti del Comitato Centrale eletto al XVII Congresso del Pcus (1934) sono arrestati e giustiziati. Stessa sorte per 1.108 dei 1.966 delegati.1 Quasi un’intera generazione politica viene spazzata via, lasciando lo spazio libero agli ‘uomini nuovi’ e al potere assoluto di Stalin.

Come la Rivoluzione francese durante il Terrore, anche la Rivoluzione bolscevica divora i suoi figli, con metodo e rigore     […..]

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La rivoluzione è affare di logici folli, di Wallace Stevens

da Esthétique du mal (1944) XIV

Victor Serge said, “I followed his argument
With the blank uneasiness which one might feel
In the presence of a logical lunatic.”
He said it of Kostantinov. Revolution
Is the affair of logical lunatics,
The politics of emotion must appear
To be an intellectual structure. The cause
Creates a logic not to be distinguished
From lunacy … One wants to be able to walk
By the lake at Geneva and consider logic:
To think of the logicians in their graves
And of the works of logic in their great tombs.

[…..]  [traduzione]

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Ideologia vs dolore. Un gioco suicida, un nonno, un adolescente,
il (n)PCI e uno sterminio di classe (a cura di enrico pozzi)

Il 6 settembre 2018 Igor Maj, 14anni, viene trovato impiccato a casa, nella semiperiferia di Milano. Si pensa al suicidio. Emerge via via un’altra ipotesi: il ‘gioco’ del blackout – soffocarsi fino a al limite estremo dello svenimento – lanciato da centinaia di siti sul web. Il ragazzo lo tenta in solitaria e viene ucciso dalla corda alla quale si è appeso

Igor era un giovanissimo rocciatore, con i Ragni di Lecco, con il padre, spesso in arrampicata libera. La corda che lo ha ucciso è la corda usata in falesia, quella dalla quale dipende la sicurezza propria e altrui. Quella dalla quale ogni arrampicatore libero fan- tastica di potersi liberare, senza più ancoraggi, senza quasi peso, viaggiatore senza bagagli nell’onnipotenza del volo euforico.

Qualche giorno dopo ricevo nella mia casella di posta universi- taria una lunga mail. Viene ufficialmente dal (n)PCI, un irrilevante gruppo politico che si vuole erede puro e solo legittimo del Pcus rivoluzionario e stalinista. È fatta di tre parti.    [……]

di Enrico Pozzi –
– 6 Luglio 2023

Francesco Dimitri, Never the wind, Londra 2022, Titan Books, 319 pp., £ 8.99

Non è vero che i ciechi vedono di più.

A quasi 13 anni Luca Saracino diventa progressivamente cieco. Questo evento catastrofico catalizza nei suoi genitori una svolta radicale. Decidono di andare alla ricerca di un nuovo inizio. Lo vedono là dove inizia ogni possibilità di vedere. Con l’ingenuità cieca di chi vede, si dirigono verso l’origine, il punctum dal quale ogni realtà si dirama e la realtà sembra poter essere riscritta. Tornano in Puglia, nella masseria di famiglia, vicino al mare. Sono portatori superficiali della razionalità metropolitana

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