V. Padiglione. L’etnocentrismo critico come hybris tragica. Una installazione

di vincenzo padiglione –
1 Giugno 2015

L’installazione. Tre frammenti.

In primo piano un corpo-feticcio composto da centinaia di oggettini vari, che rimandano tutti all’etnico: bamboline multicolori di ogni continente, boccette, amuleti, borse esotiche, calebasse, pannocchie, manioc, braccialetti e collane, ecc. Il corpo è abbandonato a terra, morto e/o esposto, totalmente vulnerabile, senza pelle dunque senza più interno o esterno, illimitatamente trasparente allo sguardo predatorio o acquisitivo (è la stessa cosa) del turista.  Al vertice del corpo una testa-maschera ovvia – di quelle che si vedono di più in giro e subito si dice: è una maschera africana. Ma anche una testa ‘colta’, le Demoiselles d’Avignon di Picasso, il primitivismo delle avanguardie, la complicità tra turisti che si credono viaggiatori.

In secondo piano, il corpo-storia, il Leib tramortito dalle vicende del sociale, il Körper della geopolitica. La stessa vulnerabilità, ma senza la redenzione del sublime estetico o almeno il variegato sorridente dell’esotismo. Stracci, plastica, cartoni, colori senza colore dei resti di supermercato, legacci che tengono precariamente insieme le disjecta membra. Cadavere del tutto opaco allo sguardo, sola superfice, esterno privo del diritto ad avere un interno. Corpo ready made cubista. Residuo di consumi poveri, surrogato artificiale della carne, detrito, non valore.  Oggetto abbandonato al suolo ma in realtà leggero, fatto di ciò che il mare fa galleggiare e abbandona sulle spiagge. Forma priva della possibilità di una identità, volto di individuo-genere, astratto, che forse un tempo ebbe un nome.

In terzo piano, un frammento di barcone improbabile e naufrago, il punctum della installazione. Da un lato, il punto d’arrivo della narrazione, il suo – letteralmente – esito. Dall’altro, il contenitore che serve da frame di senso per l’insieme dei tre oggetti: dice la ragione della loro coesistenza e contiguità, esprime il loro percorso abortito, li costringe ad essere parte di una stessa rappresentazione cognitiva ed emotiva, si propone come stenogramma di una storia. Esprime lo strumento e l’atto del migrante, e in questo modo ci spiega che appunto col migrante, col suo corpo e con il suo immaginario ci stiamo rispecchiando.

Sul barcone spezzato c’è l’unica presenza di corpo vero in questa installazione di corpi: il sangue. Astorico, universalistico, agisce da ponte tra i due soggetti che si stanno incontrando nella rappresentazione: il Turista e il Migrante, il consumatore di etnicità e il viaggiatore autentico. Solo e sempre rosso, il sangue consente meno la messa a distanza dello straniero, apre la possibilità fragile del mirroring e dell’empatia, crea un campo di esperienza condivisibile dell’umano. O almeno ci fa credere che questo sia possibile.

Fin qui efficace, ‘bello’ e conforme al politicamente corretto. Ma Padiglione per fortuna va oltre

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