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di Enrico Pozzi –
– 28 Giugno 2015

Non lo dimenticherò finché vivo.

1967, nel più improbabile dei luoghi, il Teatro Parioli, Roma, al cuore del quartiere piccolo-borghese che si pretendeva medioborghese. 21 anni. Con quella che poco dopo sarebbe diventata la mia prima moglie.

Nessuna scena, solo fondali grezzi, travi, corde penzolanti, uno spazio senza vie d’uscita, Carceri piranesiani, luci senza grazia o pietà.

In programma l’Antigone di Brecht, via il Living Theater. Mai amato Brecht, al massimo sopportato, tutto quel didascalico pedagogico greve di realtà. Ma c’era il Living. Dal 1966 la mia famiglia aveva affittato per Julian Beck e Judith Malina un appartamentino dietro Santa Maria in Trastevere. Era per 4, ci vivevano in 15. Ogni settimana qualche telefonata del Commissariato di zona, per impicci d’ogni genere. Ma adesso stavano per andarsene quasi tutti al Castello di Rocca sinibalda, ospiti, a far laboratorio, e lì ci sarebbe stato tanto spazio.

Si parlava di loro nella Facoltà di Lettere e Filosofia occupata. Ero curioso, avido. A Berlino, Herbert Marcuse aveva già sancito la «fine dell’Utopia», game over. In qualche modo l’enorme fiume di parole ‘alte’ e ideologiche che avvolgeva i più vivi di una generazione cominciava a sapere di morte, pensiero paranoico senza confini. Cercavo qualcosa, parole non consumate, forse gesti, di sicuro segni primitivi, corpi.

Il pubblico era quasi tutto in giacca, educato, nel buio. Lo ‘spettacolo’ non inizia. 15 minuti, 20, 30, 40. Poi inizia l’urlo.

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