Il BOBI di Roberto Calasso, maschera di cera

BOBI. Ovvero Roberto Calasso morente si conferisce il proprio mito delle origini e ne fa la propria maschera di cera.

Il suo Bobi Bazlen è un sistema di frammenti e aforismi, ovvero ciò che rende senza tempo una logica di rovine e di lapidi.

Molto del Bobi Bazlen reale non c’è. Il dramma di una lingua sempre più impossibile – il tedesco – che sempre più poteva solo leggere o tradurre o contaminare in altre lingue, mai scrivere. Il dandysmo. L’attrazione negata ma quanto sistematica verso le famiglie aristocratiche, a Trieste come a Roma. Le donne di cui NON ha parlato, ma che gli sono state di fronte come specchio insopportabile, una tra tutte, Ingeborg Bachmann.

Non so se, sedotto dalla mitografia di Calasso, qualcuno andrà a leggere Il Capitano di lungo corso, o La lotta con la macchina da scrivere. Se lo farà, incontrerà non il mito ma la limitata realtà della parola stampata sulla pagina.

Bobi Bazlen non era fatto per scrivere, ma per narrare. Questo era, uno straordinario narratore capace di trascinare via con sé di frase in frase tramite il suono della sua voce, con gli altri trasformati in fanciulli arresi ad una favola e ad una fantasmagoria.

Questo è rimasto nel ricordo intenso di chi lo ha ascoltato a lungo quando Bobi Bazlen era liberato dalla scrittura/lettura, la sua gabbia.

Di questo nel BOBI di Calasso non c’è traccia, perché Calasso – per farsi editore – aveva bisogno propria di una mitologia della scrittura/lettura, e non della potenza della voce. Così BOBI tradisce Bobi (Bazlen) traducendolo in testo.

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