Antonella MOSCATI, Ellen West. Una vita indegna di essere vissuta, Quodlibet, Macerata 2021

Dopo oltre  100 anni Ellen West non riesce ancora a morire. Come tanti altri prima di lei, ora tocca ad Antonella Moscati costringerla a vivere.

Ha scritto per la certezza di una ingiustizia, e per il desiderio di ripararla. L’esistenza di questa giovane anoressica, almeno per la parte finale fino al suicidio, è stata «profondamente segnata da un torto». Per 150 pagine l’autrice insegue con metodo questo torto, e noi con lei, con una differenza: lo abbiamo atteso pagina dopo pagina, e non siamo riusciti a trovarlo.

Ad un primo livello la vicenda di Ellen West «è la storia di un fallimento psichiatrico, psicoterapeutico, affettivo e umano che termina con la liceità di un suicidio» (p. 10). Aggiungiamo, anche se l’autrice non lo dice esplicitamente: un fallimento di maschi di fronte alla incomprensibilità di una giovane donna di insolita cultura, intelligenza, scrittura, domanda di indipendenza e di vita. Maschi gli ‘psicoanalisti’ dei suoi due brevi tentativi di psicoterapia con von Gebsattel e con Hattingberg: più incisivo il secondo, il primo più consolatorio, e di un terapeuta finito presto a disperdersi nell’Io oceanico di una quasi-setta. Maschi gli psico-qualcosa di prestigio coinvolti nei consulti. Maschio Ludwig Binswanger, che gestì/non gestì gli ultimi mesi della vita di Ellen West a Kreuzlingen. Maschio il marito/cugino Karl, accompagnatore e facilitatore sia psicologico che concreto (il veleno) della morte della giovane. E «fosca» diade maschile la coppia Binswanger/Karl West, unita dal violoncello e da una complicità durata ben oltre la fine di Ellen. Dunque in qualche modo uomini a decidere di un destino di donna. (continua)

Libro prestato e mai restituito, uno dei molti pegni di un rapporto finito.

L’ho inseguito per anni su ebay, Abebooks ecc. Non la brutta riedizione Sellerio, ma la prima, quella Laterza. Alla fine l’ho trovato, ingiallito quanto basta.

Cercavo le foto. Avevo paura di un ricordo idealizzato. Invece ho provato lo stesso piacere di allora, con in più la nostalgia di un mondo e di un pezzo di vita perduti.

Avevo conosciuto Annabella Rossi per caso. Mi aveva cercato al mio ritorno dalla prima volta negli Usa. Non so chi le avesse dato i miei contatti. Voleva incontrarmi per un progetto di “indagine politica”. Ci vediamo a casa sua, in via della Lungaretta. Grandi occhi neri, vestita di scuro, presenza fisica invadente, occupava lo spazio, tono tra l’appassionato e l’aggressivo. Mi presenta il compagno, il documentarista Michele Gandin. Ha sentito parlare bene di me (da chi?). (continua)

Partiamo dal racconto di Pierre Déléage, La folie arctique.

Émile Petitot, francese, Oblata di Maria Immacolata, parte come missionario in Canada nel 1862. La sua destinazione finale è la piccola missione cattolica di Nostra Signora della Buona Speranza, in terra Dene, annessa al Fort Good Hope, sul fiume MacKenzie, area del Great Bear Lake. Qui trascorre 12 anni. Frequenta assiduamente le tribù locali. Prova all’inizio una forte repulsione fisica. Presto è attratto sempre più intensamente. Le giovani lo corteggiano con audacia insolente. Ma il missionario è sedotto dai ragazzi. Li spia da lontano, li segue nella foresta, si masturba di continuo in cerca di pace. Gli piacciono i loro corpi, e anche il loro modo di vivere, nomade su territori immensi e vergini, in apparenza senza confini, lo spazio giusto per il suo bisogno di perdere gabbie, vincoli e limiti.(continua)

Vittorio LINGIARDI, Diagnosi e destino, Torino, 2018, Einaudi, pp. 130

Un pastrocchio di libro. Avevo cominciato a leggerlo, e dopo poche pagine l’avevo lasciato cadere. Poca tensione concettuale, l’approssimazione, le banalità sul rapporto medico-paziente. Andato su Wikipedia a vedere chi fosse l’autore: enfatico, “un gigione” pensai. Poi la SPI ha deciso di assegnargli il Premio Cesare Musatti. Mi sono detto: sei stato un lettore superficiale. Riprendo il libro, e decido che lo finirò.

Sì, un pastrocchio di libro. Mi aveva attratto il titolo, se e quanto una diagnosi proponga o imponga un destino. Una domanda carica di pathos cognitivo e emozionale che sta al cuore di ogni rapporto terapeutico consapevole. 

Di pathos non ce n’è molto. Qualche bella citazione, tra i molto troppi ipse dixit disseminati nei capitoli per legittimare magicamente contenuti incerti, e qualche poesia dell’autore da cancellare in fretta. Per es. le Devozioni di John Donne, un paio di frasi di Kafka, una elegante pagina di Proust. Virginia Woolf menzionata per gestirla in fretta. Una lunga inutile discussione intorno a Susan Sontag e al suo così sopravvalutato pamphlet Illness as a Metaphor. La pedante descrizione classificatoria dei meccanismi di difesa  del paziente e del medico rispetto alla malattia a partire da Anna Freud. Le pagine sull’ipocondria, utili se fossero state collocate sullo sfondo della coazione sociale all’ipocondria nelle nostre società. Le riflessioni sulla sequenza dei DSM e di altri repertori diagnostici, abbastanza interessanti ma prive di una lettura sociologica, antropologica, politica ed economico-corporativa del background di questi strumenti (meglio spendere tempo su Frances e dintorni). La difesa del diritto/dovere alla diagnosi per il medico come per il paziente. La diagnosi come ‘relazione’ sullo sfondo di Goody e della coppia illness/disease. Le allusioni rapide alla ‘medicina narrativa’, con la solita Rita Charon, pioniera malamente invecchiata, imprigionata nella letteratura, con il tormentone di Ivan Illich e simili. Come Lingiardi.  Fa strano se penso a quanto esteso e denso è intorno a noi il discorso sociale sulla malattia, a volerlo ascoltare invece che leggerlo.

Manca nel libro una riflessione seria su alcuni dei suoi concetti portanti. Il primo è proprio ‘diagnosi’, il suo statuto. Una diagnosi è un atto conoscitivo, un enunciato nell’ambito di una interazione, l’acme del potere e della funzione sociale di una corporazione, una fase di una procedura burocratica all’interno di una organizzazione complessa, un’area semantica estesa nella conversazione sociale, una valutazione che si colloca in un circuito economico e produce ricadute economiche molteplici, un elemento di valutazione attuariale, una casistica assicurativa, un oggetto di controllo sociale. Altrettanti fattori, nessuno escluso, di un ‘destino’ per un individuo e per il suo microcontesto.

Ben poco di tutto questo nel libro. Sulle difficoltà e paradossi euristici della diagnosi  esiste una letteratura importante: l’abduzione che si nasconde come induzione o peggio deduzione, il rapporto tra sintomo segnale e segno, il problema dello ‘indovinare’, il rapporto tra caso e categoria oppure evento e classe di eventi (almeno questo Lingiardi lo sfiora nelle righe sul nomotetico e l’ideografico), tanto per fermarci qui. La diagnosi come interazione ovvero piena di sociale e di funzioni latenti, plasmata dalle rappresentazioni sociali del corpo che rendono lo sguardo medico cieco o troppo attento ( lo sa bene chi – pochi – si occupa di epidemiologia sincronica e diacronica delle diagnosi), le mode cliniche, le distorsioni culturali e di genere (per es. la relativa invisibilità dell’infarto femminile). La diagnosi come copione interattivo e teatro in atto, indagata dagli etnometodologi e semiologi nelle sue trame stabili e negoziali.

E ancora la diagnosi come atto linguistico: enunciato performativo per eccellenza che produce ciò che ‘scopre’. Sempre sul terreno del linguaggio, sarebbe stato utile far percepire al lettore che l’area semantica della parola ‘diagnosi’ va ben oltre la diagnosi medica e ne modifica la percezione e l’impatto a partire dai suoi altri usi nel discorso sociale: originata dalla medicina, la ‘diagnosi’ le si riverbera addosso dall’esterno e ne costruisce parte delle modalità, del linguaggio, della credibilità e del contenuto emozionale. Oltre al medico, molti altri soggetti sociali individuali e collettivi ‘diagnosticano’ nei settori più diversi della realtà (si fanno ‘diagnosi’ in economia, in politica, nel marketing, dal meccanico ….), e una densa ‘diagnosi di senso comune’ avvolge la diagnosi scientifica in un rapporto né lineare né semplice. Che dire poi dell’immaginario della diagnosi, della sua fantasmatica, delle matrici inconsce in cui non può non radicarsi e che c’entrano poco con i listati di meccanismi di difesa. Dato il mestiere dell’autore e la sua formazione psicoanalitica, mi sarei aspettato molta più sensibilità complessa su questo aspetto.

Con la ‘malattia’ le cose non vanno meglio. Le malattie si situano su un continuum di percezione di gravità in parte ‘oggettivo’ in parte culturalmente e socialmente condizionato e variabile nel tempo. Per riprendere un esempio dell’autore, attualmente una diagnosi di morbillo o di depressione attacca i “territori dell’Io” (Goffman) a livelli ben diversi. Se una diagnosi è sempre in qualche modo una attribuzione o ingiunzione di identità, col morbillo l’identità viene appena sfiorata non plasmata. Diventa ‘destino’ per un attimo, e non investe il Sé. Va in tutt’altro modo per la ‘depressione’ (ovvio) ma anche per una lunga serie di altre malattie ‘solo’ organiche, ma portatrici di ipotesi esplicite i implicite sull’identità. Di quale ‘malattia’ parla Lingiardi? Per gran parte del suo libro si fa le cose facili prendendo ad esempio malattie incontrovertibilmente organiche, e risolvendo con le spallucce la chiacchiera psicosomatica.  Ma la ‘malattia’ è fatto più complesso: è in misura crescente non solo lo star fisicamente male ma il non riuscire a star bene, il degrado diffuso, la cronicità strisciante, un insieme di malesseri che va ben oltre la loro somma. Quale è in questo caso la ‘diagnosi’ o sistema di diagnosi? Poiché invade senza scampo i “territori dell’Io”,  in che modo riflette o produce destino? Ancora più significativo il problema della diagnosi psicologica o psichiatrica. Lingiardi si butta in una rapido confronto tra strumenti diagnostici. Ma quale che sia lo strumento e la sua logica, qualunque diagnosi – e comunque la si comunichi – è in questo caso una attribuzione di identità. Posso usare tutte le cautele del mondo e il massimo dell’empatia critica, ma io sto dicendo all’altro almeno una ipotesi su chi è in realtà. L’altro può mobilitare tutti i meccanismi di difesa che vuole, ma non potrà mai ridurre quella identità a semplice ‘persona’, maschera e non pelle.

 

Qui tutto si complica ulteriormente. Nella Iconographie photographique de la Salpêtrière, Augustine e le altre pazienti di Charcot sono fotografate con i sintomi forti della “Grande hystérie” di Charcot: l’arco, l’aura ecc. Le loro immagini esprimono la diagnosi e confermano la categoria nosografica. Problema: le caratteristiche tecniche delle apparecchiature fotografiche di quegli anni non consentivano foto con tempi rapidi. Occorreva mettersi in posa. Le ‘isteriche’ si mettevano in posa da isteriche, e da isteriche di Charcot. La diagnosi si presentava come una co-costruzione, una costruzione à plusieurs, il risultato di una cooperazione euristica implicita – di rado esplicita – tra paziente e clinico. Questo è il tipo ideale (Max Weber) di ogni diagnosi: una complicità conoscitiva mediata spesso inconsapevolmente da una narrazione a due o a molti. Quanto di ciò sopravviva nelle condizioni normali dell’atto diagnostico, quanto e come la ‘macchina’ (le analisi, la Tac, i test psicologici ecc) modifichi la situazione e l’interazione della diagnosi, quanto il ‘paziente’ e il ‘medico’ consentiranno alla ‘narrazione’ di esistere consapevolmente oppure la costringeranno a nascondersi nell’inconscio dietro le velature dei reciproci meccanismi di difesa individuali e istituzionali: questo è altra storia. Ma per quanto l’uno e/o l’altro si rifiutino alla cooperazione euristica, la diagnosi rimane lì, nucleo irriducibile anche se opaco. Il paziente con una diagnosi di tumore terminale o di grave disturbo bipolare può mobilitare le più drastiche strategie difensive, può scindere, negare, proiettare ecc ecc, ma sa la sua diagnosi perché la ha costruita. Il clinico ricorrerà a procedure simmetrie per incistare altrove dalla sua vita il male, ma sa della cisti.

Torniamo al problema posto dal titolo. Diagnosi e destino. Manca in Lingiardi una qualche definizione operativa di ‘destino’, quasi fosse parola ovvia. Lo statuto epistemologico, etico ed emozionale del destino si è profondamente modificato nella storia dell’occidente, passando da fatto esterno a coazione interna. Sullo sfondo una presunzione crescente di onnipotenza dell’azione umana respinge sempre più lontano da noi il limite del destino. Ma il destino rimane con il suo nucleo essenziale: ciò che non può non essere o avvenire, qualche che sia la consapevolezza o la determinazione contraria di un agente umano. Si annida nel corpo e nell’Io, come procedura biologica o identità. Quando la diagnosi lo ‘scopre’ nel primo e lo ‘iscrive’ nel secondo, essa diventa a vario titolo forma, figura, discorso del destino. L’atto o narrazione performativa della diagnosi finisce col ‘produrre’ un esito che, per tutti gli agenti coinvolti, viene vissuto come qualcosa che non poteva non essere. E’ il paradosso della “profezia che si autorealizza”: centrale al tema del suo libro, ma Lingiardi gli dedica esattamente quattro parole, ignorando l’ampia letteratura delle scienze sociali sul tema già a partire dagli anni 30 del secolo scorso (tanto per dire, da R. K. Merton in poi). Oppure il paradosso simmetrico del «diventa ciò che sei»di Nietzsche. O il paradosso eracliteo «il carattere è il destino dell’uomo» confrontato con il «conosci te stesso», dove il conoscere il proprio ‘carattere’ non ne riduce la funzione di ‘destino’.

C’è un vuoto interessante nel libro: nessun caso clinico, a parte qualche modestissima ‘vignetta’. Il caso clinico inteso come narrazione di una malattia qui è sostituito dalla letteratura, fiction o esercitazione nel racconto di se stessi in quanto malati. Peccato. La scrittura di un caso clinico – la «thick description» cara a buona parte dell’antropologia contemporanea – costringe (dovrebbe costringere) a capire quanto ciò che si sta scrivendo è in realtà una co-scrittura, il presunto ‘autore’ è un sistema di co-autori, l’Io narrante o interpretante o diagnosticante è un Noi che finge di non esserlo. Il caso può tentar di ridurre il co-narratore a paziente, e mero esempio di una categoria nosografica. Ma la narrazione insiste nel far vivere ostinatamente l’altro come individuo, infiltra l’ideografico tra le maglie strette del nomotetico, restituisce incertezza e probabilità al destino condensato nella classe diagnostica (E. Pozzi, «Il rischio del caso», http://www.ilcorpo.com/it/rivista/gennaio-2002_27.htm ).

Contro la necessità diagnostica si delinea una strategia marginale di resistenza. In L’evaso, Charlot è inseguito dalle polizie di due Stati, gli Usa e il Messico. La sua unica salvezza consiste nel camminare sulla linea di confine, i piedi da una parte e dell’altra, giocando un’identità contro l’altra. Lingiardi si avvicina a questa strategia nel capitolo più bello del suo pamphlet:  «Il guaritore ferito» (pp. 32-35), con una citazione di Jung che riassume bene: «solo il medico ferito guarisce». Sarebbe stato utile tradurla e percorrerla anche da punto di vista del paziente: avrebbe portato in territori apparentemente senza mappa, ma la nascondono nella loro trama. Dunque non la diagnosi come destino, o la sciocca lotta contro la diagnosi come battaglia contro il destino, ma lo scarto, la béance come possibilità dialettica nella necessità del destino. (enrico pozzi)

Il 6 settembre 2018 Igor Maj, 14anni, viene trovato impiccato a casa, nella semiperiferia di Milano. Si pensa al suicidio. Emerge via via un’altra ipotesi: il ‘gioco’ del blackout, soffocarsi fino a al limite estremo dello svenimento, lanciato da centinaia di siti sul web. Il ragazzo lo ha tentato in solitaria ed è rimasto ucciso dalla corda alla quale si era appeso.

Igor era un giovanissimo rocciatore, con i Ragni di Lecco, con il padre, spesso in arrampicata libera. La corda che lo ha ucciso è la corda usata in falesia, quella dalla quale dipende la sicurezza propria e altrui. Quella dalla quale ogni arrampicatore libero fantastica di potersi liberare, senza più ancoraggi, senza quasi peso, viaggiatore senza bagagli nell’onnipotenza del volo euforico.

Qualche giorno dopo ricevo nella mia casella di posta universitaria una lunga mail. Viene ufficialmente dal (n)PCI, un irrilevante gruppo politico che si vuole erede puro e solo legittimo del PCUS rivoluzionario e stalinista. E’ fatta di tre parti. Nella prima il Partito introduce la lettera del nonno del ragazzo, Giuseppe Maj, dirigente del (n)PCI, e presenta la morte del ragazzo come un episodio “della guerra di sterminio non dichiarata che la borghesia imperialista conduce in tutto il mondo contro le masse popolari“. (continua)

 Nuovo Cinema Palazzo, San Lorenzo, Roma.

Sala buia. Un grande schermo. Davanti, su quello che sembra un supporto, la silhouette di un corpo di donna.  Sul ‘palcoscenico’, in accappatoio, il corpo di cui quel corpo è la silhouette. Francesca Fini si toglie l’accappatoio e, nuda, va a collocarsi dietro la sua silhouette. Una assistente adatta leggermente – è un gesto fondamentale – i contorni del tratteggio per farlo coincidere più o meno con il corpo retrostante. Il corpo ‘vero’ è cadaverico, compreso nel suo marmoreo rigor mortis. I segni della individualità sono quasi cancellati: il volto coperto di cerone bianco, i capelli tirati indietro a scomparsa e anch’essi bianchi, una mortuaria maschera di cera.  Solo i peli del pube sono neri, ma il pube è della silhouette o di Francesca Fini? 

BODY QUAKE

(continua)

Johann CHAPOUTOT, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti, Torino, Einaudi, 2016, pp. 463, € 32

Nulla di ciò che si legge in questo libro è nuovo. Eppure via via il nazismo – il pensare da nazisti – diventa in qualche modo una scoperta.

Non sono nuove le articolazioni della visione del mondo nazista: la Natura come origine e legittimazione inderogabile, la Razza in quanto sua espressione storico-biologica specifica, il Popolo/Gemeinschaft come forma sociale della Razza, la Terra come sua localizzazione spaziale necessitante, il Sangue come traduzione della Razza e del Popolo in essenza vitale di corpi, la Lotta come prassi e destino, il darwinismo. E neanche sono nuove, prese una per una, le conseguenze coerenti di questa prima Gestalt su tutte le articolazioni di un sistema sociale: la trasformazione del diritto, l’attacco all’astrazione e all’universalismo,(continua)

A. CAMPI, L. VARASANO (a cura di), Congiure e complotti. Da Machiavelli a Beppe Grillo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2016, €16

Un presentimento: toccherà occuparsi sempre più della paranoia come modello ordinatore del sociale, e del discorso paranoico come forma princeps del discorso pubblico.  L’era delle ideologie nascondeva l’organizzazione paranoidea del pensiero dietro la nuvola dei sistemi di valori e delle filosofie della storia. La fine delle ideologie toglie questi orpelli. Ora la paranoia, messa a nudo, vive apertamente la sua gloria euristica e la sua potenza emozionale.

Ben venga tutto ciò che aiuta a capire la Bestia. (continua)

Eugenio BORGNA, L’indicibile tenerezza. In cammino con Simone Weil, Milano,  Feltrinelli, 2016, 18€

Generoso, questo libro di Eugenio Borgna su Simone Weil. Disperatamente empatico. Eppure inutile. Borgna (ma avevo scritto Sbornia – potenza interpretativa dell’inconscio…) si disperde nel suo oggetto, e in questo modo perde l’oggetto. Dopo 218 pagine verbosamente appassionate, Simone Weil rimane lontana, incomprensibile, e non per eccesso di senso, ma per difetto di distanza critica.

Lo psichiatra Borgna rivendica da sempre la matrice fenomenologica della sua psichiatria. Questa grande scuola filosofico-psichiatrica gli serve per proporre e difendere la comprensione della sofferenza psichica, che ha sempre un senso. Su questo Borgna innesta un afflato religioso potente, fatto di misericordia e di riconoscimento della dignità assoluta della persona sofferente, del suo discorso verbale e del suo comportamento. L’esito sperato è una strategia spontanea della immedesimazione come accesso al mondo dell’altro, e come breccia terapeutica. L’esito possibile è una relazione quasi mistica con la persona sofferente, relazione che acceca lo sguardo.

Questo libro su Simone Weil è esemplare della trappola confusiva – per di più desiderata, e considerata conoscenza – che attende Borgna al varco. (continua)

M. BETTONI POJAGHI, L. CAPOCACCIA, A. CIOCCA, F. M. FERRO, M. RIZZO, “Un’altra volta, ancora”. Nuove riflessioni su Ellen West, Roma, Giovanni Fioriti Editore, 2013, 18 €

Pochi ma potenti fantasmi carsici di donna scandiscono la storia della psicoanalisi e dintorni. Anna O., Emmy von M., Lucy R., Elizabeth von R., Dora, l’Aimée. Acronimi zavorrati progressivamente con nomi anagrafici e biografie: Bertha Pappenheim, Fanny Louise von Sulzer-Wart, Ilona Weiss, Ida Bauer, giù fino a Marguerite Anzieu.

   Ellen West sembra avere un nome e un cognome, ma sono falsi. Li ha inventati L. Binswanger nel 1944 per produrre la sua narrazione di questa giovane tedesca, sua paziente per meno di 3 mesi a Kreuzlingen, suicida nel 1921 a 34 anni. (continua)

 

L’installazione. Tre frammenti.

Vincenzo PADIGLIONE, Soggetti disorientati, Castello di Rocca Sinibalda (2014)

 

In primo piano un corpo-feticcio composto da centinaia di oggettini vari, che rimandano tutti all’etnico: bamboline multicolori di ogni continente, boccette, amuleti, borse esotiche, calebasse, pannocchie, manioc, braccialetti e collane, ecc. Il corpo è abbandonato a terra, morto e/o esposto, totalmente vulnerabile, senza pelle dunque senza più interno o esterno, illimitatamente trasparente allo sguardo predatorio o acquisitivo (è la stessa cosa) del turista.  Al vertice del corpo una testa-maschera ovvia – di quelle che si vedono di più in giro e subito si dice: è una maschera africana. Ma anche una testa ‘colta’, le Demoiselles d’Avignon di Picasso, il primitivismo delle avanguardie, la complicità tra turisti che si credono viaggiatori.

 

Vincenzo PADIGLIONE, Soggetti disorientati. Il primo corpo (2013)

 

In secondo piano, il corpo-storia, il Leib tramortito dalle vicende del sociale, il Körper della geopolitica. La stessa vulnerabilità, ma senza la redenzione del sublime estetico o almeno il variegato sorridente dell’esotismo. Stracci, plastica, cartoni, colori senza colore dei resti di supermercato, legacci che tengono precariamente insieme le disjecta membra. Cadavere del tutto opaco allo sguardo, sola superfice, esterno privo del diritto ad avere un interno. Corpo ready made cubista. Residuo di consumi poveri, surrogato artificiale della carne, detrito, non valore.  Oggetto abbandonato al suolo ma in realtà leggero, fatto di ciò che il mare fa galleggiare e abbandona sulle spiagge. Forma priva della possibilità di una identità, volto di individuo-genere, astratto, che forse un tempo ebbe un nome.

 

V. Padiglione, Soggetti disorientati. il secondo corpo (2013)

In terzo piano, un frammento di barcone improbabile e naufrago, il punctum della installazione. Da un lato, il punto d’arrivo della narrazione, il suo – letteralmente – esito. Dall’altro, il contenitore che serve da frame di senso per l’insieme dei tre oggetti: dice la ragione della loro coesistenza e contiguità, esprime il loro percorso abortito, li costringe ad essere parte di una stessa rappresentazione cognitiva ed emotiva, si propone come stenogramma di una storia. Esprime lo strumento e l’atto del migrante, e in questo modo ci spiega che appunto col migrante, col suo corpo e con il suo immaginario ci stiamo rispecchiando.

 

V. Padiglione, Soggetti disorientati. Il barcone (2013)

 

Sul barcone spezzato c’è l’unica presenza di corpo vero in questa installazione di corpi: il sangue. Astorico, universalistico, agisce da ponte tra i due soggetti che si stanno incontrando nella rappresentazione: il Turista e il Migrante, il consumatore di etnicità e il viaggiatore autentico. Solo e sempre rosso, il sangue consente meno la messa a distanza dello straniero, apre la possibilità fragile del mirroring e dell’empatia, crea un campo di esperienza condivisibile dell’umano. O almeno ci fa credere che questo sia possibile.

Fin qui efficace, ‘bello’ e conforme al politicamente corretto. Ma Padiglione per fortuna va oltre.

Partiamo dal primo dei due corpi. Ironica rappresentazione dello sguardo del turista che permea di etnicità ed esotismo le nostre percezioni del migrante. Ma anche e soprattutto messa in scena della fatalità cognitiva e esperienziale dell’etnocentrismo. Per quanto faccia e voglia, il più illuminato, ‘buono’  e universale degli osservatori non può uscire dal suo punto d’osservazione, dalle categorie, dalle rappresentazioni profonde, dall’immaginario sociale e individuale che il suo stare-nel-mondo gli costruisce dentro. Non si evade dalla matrice che la socializzazione e la storia ci hanno costruito nella carne e nella mente. I quadri sociali della conoscenza e delle emozioni non sono territori transitabili a volontà, o vestiti che si può scegliere di indossare o meno. Sono la mappa senza la quale non c’è territorio. Solo con dolorosi sforzi, rischi e metodologie feroci di spaesamento possiamo accedere in modo intermittente a marginali scarti rispetto a questo nostro esser fatti di un sociale localizzato e storicamente vincolante. Possiamo intuire a tratti, con ampie aree di errore, frammenti del mondo dello straniero. Credere che lo capiamo – meglio, che lo comprendiamo – appartiene al delirio onnipotente dell’universalismo, la fantasia di poter abbracciare nel proprio Io la molteplicità delle esperienze del mondo non come fondamentale rispetto formale ma come immedesimazione sostanziale. Non si è l’umanità, si è ciò dove si è diventati zoon politikon. Da lì, dal riconoscimento umile di questo limite e della parzialità di questo confine, ci si può avventurare verso frammenti di altri universi, a noi sempre per gran parte estranei nella carne. Il regard éloigné è un sussulto dello sguardo, non una sua condizione strutturale. Ancora più spesso, è una illusione, come gran parte dell’antropologia e dell’etnologia dimostra, e come la psichiatria/psicoterapia transculturale non può riconoscere se non a condizione di riconoscersi per larga parte impotente. Homo sum, humani nihil a me alienum puto. Davvero?

Lo sguardo del viaggiatore è sempre crudele. Il Turista-antropologo di Padiglione vorrebbe vedere l’Altro in quanto altro. Vede solo la paccottiglia che vedono tutti, le bambolette, le collanine, i vetrini multicolori. Ma almeno lo sa, accetta di saperlo. Così, quando poi guarda il corpo ‘vero’ dell’altro, il secondo corpo, ne vede l’impenetrabile superfice, vera quanto la paccottiglia, un poco più vera proprio perché deve ammettere che è opaca, non conoscibile se non a tratti radi e con la mediazione del sangue.

L’installazione di Vincenzo Padiglione ci restituisce l’etnocentrismo non come difetto della ragione o come stortura etica ed emozionale, ma come fatalità e tragedia. In La morte della tragedia, George Steiner coglie nel Macbeth, atto V, 8, il momento definitivo di svolta nella percezione occidentale – sottolineiamolo con ironia: occidentale –  del tragico. Macbeth si trova davanti Macduff. Già – profezia delle streghe – il bosco di Birnam ha camminato verso il castello. Già Macbeth è diventato effettivamente Re. Ora scopre che Macduff è il non nato di donna che lo sconfiggerà. Due profezie si sono avverate, la terza non può non avverarsi. Malgrado la certezza della sconfitta, Macbeth si lancia in un duello inutile: And damn’d be him that first cries, ‘Hold, enough!’. La stessa inutilità tragica eppure irrinunciabile sta al cuore dell’etnocentrismo critico. Non possiamo pensare senza classificazioni, ovvero senza stereotipi. Allo stesso modo non possiamo uscire da noi stessi. Je est un autre è un progetto solo estatico e poetico. Possiamo assumere però come progetto etico e necessità storica, emozionale, la vana tensione estatica fuori da noi stessi, oltre il limite, tollerando di sapere che è vana, e che oltre il limite si incontra quasi sempre solo lo specchio del limite, non il presunto Altro, con quella patetica A maiuscola.

Joseph Losey è un regista da tempo quasi dimenticato. Aveva rappresentato con sottigliezza i modi in cui il nostro contesto di vita è il confine praticamente insuperabile della nostra vita perché produce ciò che per noi è la realtà. Un suo film del 1970 – Caccia sadica (Figures in a landscape) – racconta la fuga senza fine di due individui inseguiti da un elicottero mentre cercano di raggiungere un misterioso confine sui monti tra la neve. Ci riescono, ma coloro che li accolgono dall’altra parte hanno esattamente le stesse facce e modi e vestiti e occhiali neri di coloro che li inseguivano. Così il Turista-antropologo fugge senza fine via dal corpo-paccottiglia del Migrante verso il suo corpo ‘vero’, ma quello che trova è ancora e sempre quel corpo-paccottiglia costruito dalla sua propria realtà e fatto di avanzi di rappresentazioni dell’altro prodotte appunto da questa realtà. Rimane a salvarlo l’atto della fuga in avanti verso quella ‘cosa’ irraggiungibile che è  la realtà come è per l’altro. Qui sta la torsione critica dell’etnocentrismo, il suo scandalo politicamente scorretto, la béance che lo richiama continuamente alla sua vocazione tragica. Così forte in Ernesto de Martino, così smorta nei suoi commentatori. 

Padiglione ci mostra anche un’altra via d’uscita: i piaceri della coscienza infelice hegeliana di questa tragicità. La traduzione estetica dell’etnocentrismo critico demartiniano comporta la tentazione del sentirsi anima bella, ancorché tragica, appunto perché tragica. Una  Schadenfreude esaltata dalla nobiltà rassicurante della colpa per quella paccottiglia e per quel sangue: colpa epistemologica, storica, disciplinare. Roba da anime belle. Ma di questo la bellezza della sua installazione non ha colpa. Anzi,  proprio questa sua forza estetica ci sospinge per qualche attimo fuori dal solipsismo tragico (cognitivo, vissuto) del nostro stare-nel-mondo, e ci restituisce, sempre per qualche attimo, all’altra tragedia, quella della carne e della nuda vita, il punto di vista del barcone e del sangue.

Stefano PIVATO, I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, Bologna, Il Mulino, 2013,  pp. 184

 In un articolo del 1898, tradotto da Durkheim per la propria rivista, Georg Simmel si è chiesto  Comment les formes sociales se maintiennent («L’Année sociologique»,  Première année, 1896-97, ma 1898, pp. 71-109).  Prima ancora che le possibili risposte, conta la domanda. Il sociale non è ovvio. Lo si può anche vedere come una ‘cosa’ indipendente dagli individui che la costituiscono. Resta il fatto che il sociale è aggrappato ai corpi che lo compongono. Senza questi corpi nessuna società concreta esiste. I corpi hanno però la pessima abitudine di morire. Ogni individuo che muore minaccia di morte la società di cui è componente irriducibile. Di qui il problema: come fanno le società a garantirsi una qualche  immortalità a partire dalla mortalità dei loro membri? Come sopravvivono al loro ricambio biologico, al passaggio delle generazioni? Come continuano?

Simmetricamente, ecco il problema della discontinuità. Come fa una società a non morire quando vive una catastrofe, ovvero un cambiamento radicale del proprio stato? Come si impadronisce della continuità sociale chi mette in atto soluzioni di continuità tra il passato, il presente e il futuro di una società? Il rivoluzionario che fa crollare un sistema politico e sociale sa bene che quel sistema aveva già costruito e sedimentato la propria sopravvivenza nella generazione successiva. Per durare, il rivoluzionario deve scardinare le modalità e i contenuti di quella sopravvivenza, e sostituirvi i propri. Deve afferrare a sé la generazione che segue la sua, la prima generazione dopo la sua e dopo il cambiamento catastrofico. Lì si gioca la partita autentica della rivoluzione.

Nella continuità come nella discontinuità, il problema è il processo di socializzazione. La costruzione sociale dell’infante come membro di una determinata società  le permette di mantenere  in qualche modo le proprie forme sociali con procedure e strumenti relativamente consolidati. Chi vuole spezzare quelle forme sociali deve invece disintegrare queste procedure, strumenti e contenuti per sostituirvene altri spesso estranei, privi di legittimità, inadatti a usufruire dei percorsi già consolidati. Per di più ha poco tempo: le generazioni durano poco, i cambiamenti radicali si vanificano in fretta se non riescono  a organizzare la propria riproduzione sociale rapida. Quale che sia la natura della sua ‘rivoluzione’, il rivoluzionario è in corsa contro la morte della propria generazione. Se perde la corsa  – così almeno lui lo vive – la rivoluzione è fallita, cioè finita.

Politiche, sociali, economiche, tecnologiche, religiose, scientifiche, erotiche: tutte le catastrofi-rivoluzioni producono in fretta – con disperazione – le strategie della loro discontinua continuità. Alla fin fine fanno tutte più o meno le stesse cose: trasformare la rivoluzione in conflitto generazionale  (giovinezza giovinezza, i giovani contro i vecchi in tutte le innumerevoli varianti del gioco), occupare le strutture della socializzazione primaria e secondaria (scuole, ruoli sessuali, famiglie, i media, la comunicazione sociale, i simboli, i riti), plasmare consapevolmente l’immaginario collettivo.

Questo il livello dell’azione razionale. I fantasmi giocano una partita più radicale. La modalità più primitiva per impadronirsi totalmente di qualcosa è il divoramento. Quando inghiotto l’oggetto, esso viene introiettato, diventa me, mi compone e lo compongo in una simbiosi senza confini. La soluzione di continuità introdotta dalla ‘catastrofe’ si traduce nella più assoluta delle continuità, l’essere tutt’uno. I rivoluzionari e i loro avversari chiamano in gioco la matrice fantasmatica più primitiva, mangiare ciò che va ‘assimilato’ nel nuovo. Per questo nelle narrazioni del cambiamento catastrofico è così ossessivamente presente il “mangiare i bambini” come traduzione delirante della lotta intorno alla socializzazione e risocializzazione.

Per questo i comunisti mangiano i bambini, ovviamente.

Stefano Pivato non ha nessuna consapevolezza della posta in gioco dietro quella che chiama una “leggenda”, e per la verità neanche si pone troppe domande sullo statuto storiografico, sociologico e psicologico-sociale delle cosiddette leggende (non basta certo il solito Bloch). Raccoglie materiali vari, alcuni divertenti, altri significativi, altri ancora piuttosto inutili o ripetitivi. Restituisce la sensazione di una qualche guerra intorno all’infanzia nell’immaginario politico-sociale italiano, condensata dal tema dei comunisti che mangiano i bambini, ma lì si ferma. La specificità del divoramento, il carattere primitivo dei fantasmi che sottende, le logiche complesse della introiezione, il lessico delle narrazioni ‘alimentari’, la traduzione ‘orale’ della politica: tutti aspetti ai quali rimane indifferente.

Da tutto ciò vengono forzature descrittive e errori di metodo. Ad es. Pivato fa rientrare nella propria ricostruzione anche un tema parallelo: l’uso dell’infanzia nella propaganda bellica (combattere per salvare i propri bambini dal nemico ecc: tutto il capitolo III).  Ma qui il ‘divoramento’ si perde per strada e il cannibalismo non c’entra più nulla.  Goffo poi, nel cap. II, il collegamento tra le leggende cannibaliche intorno all’URSS bolscevica e le realtà cannibaliche collegate alla guerra civile, alla collettivizzazione agricola, al Gulag, alle carestie. Pivato evidentemente non legge il russo, lavora su pochissime fonti (soprattutto Figes), ignora le moltissime altre disponibili anche non in russo, e soprattutto sembra pensare ad un qualche legame tra eventuali cannibalismi effettivi – talvolta su bambini – e la nascita della leggenda in Italia. Come se le leggende fossero traduzioni immaginarie della realtà e non obbedissero invece a logiche proprie, intrinseche ai loro copioni strutturali e alle loro funzioni nelle matrici immaginarie della politica.

Un libro ‘leggero’, rapido e senza complessità, e neanche di uno studioso alle sue prime prove (ammesso che questo giustifichi alcunché). Un libro interessante soprattutto come sintomo di quanto per la grande maggioranza degli storici italiani rimanga difficile integrare nel proprio lavoro prospettive, quadri concettuali e modelli ibridi, ‘sporcati’ da altre discipline, anche solo da altre scienze sociali: la sociologia, la psicologia sociale, l’antropologia, la semiotica, l’etnologia.  Ma anche per la striminzita storia praticata dai nostri storici, un intero volume su una leggenda antropofagica senza nessun uso della letteratura enorme sull’antropofagia è impresa non banale.  (enrico pozzi)

251.514.208:  sono i risultati di Instagram se si cerca il tag selfie.

Se ne parla ovunque, con interpretazioni discordanti: nuovo narcisismo per alcuni, democratizzazione del ritratto per altri, nuova variante del lamento collettivo sulla gioventù dannata o occasione di glorificazione dei nuovi media. Per sfuggire sia all’iconoclastia digitale che all’autoidolatria iconica, abbiamo pensato che forse il modo migliore per capire i selfie è quello più ovvio: studiarli. Ma come? In qualche giorno uno spider sofisticato potrebbe riuscire a scaricare i milioni di selfie e con software di analisi delle immagini e linguistici, si riuscirebbe forse ad ottenere qualche prima indicazione. A noi però non interessano i selfie come maschera defunta, ci interessano come elemento vitale e dinamico di identità e relazione, perché così sono usati. Il selfie racconta qualcosa a chi lo scatta e a coloro con cui viene condiviso, questo gli dà vita e senso. Allora perché non raccogliere i selfie con la loro storia?(continua)

Vasilij GROSSMAN, L’inferno di Treblinka, Milano, Adelphi, 2010 (1944), 79 pp., €6

Nicolas WERTH, L’île aux cannibales. 1933. Une déportation-abandon en Sibérie, Paris, Perrin, 2006, 245 pp.

 

Due diversi massacri di massa. Due diverse procedure di morte. Due diverse torsioni di una stessa dialettica dell’illuminismo.

Grossman racconta con potenza visionaria Treblinka II, il campo di sterminio attivo in Polonia tra il luglio 1942 e l’agosto 1943. Qui vennero gassate e ridotte in cenere quasi 1 milione di persone, prevalentemente ebrei polacchi, nell’ambito della cosiddetta Operazione Reinhard. Ogni giorno i treni scaricavano dai vagoni piombati circa 30mila deportati – solo 8-10mila nei ‘giorni di magra’ . Nel giro di poche ore, in genere 4, il ‘carico’ di un singolo convoglio (in media 6mila esseri umani) passava dalla vita alla cenere. All’avvicinarsi dell’Armata Rossa, Treblinka venne raso al suolo, e i nazisti cercarono di camuffare in ogni modo quanto vi era avvenuto.

Werth racconta un episodio minore: la deportazione-abbandono di migliaia di «declassati» su un’isola sabbiosa del fiume Ob, nella Siberia occidentale, con le morti di massa e le ondate di cannibalismo che caratterizzarono la vicenda. Nazino – questo il nome dell’isola – è però solo una microstoria esemplare consentita dalla sopravvivenza casuale di una dettagliata documentazione proveniente da varie fonti ufficiali e da archivi locali. Il focus vero dell’indagine di Werth è il grande progetto di «purificazione sociale» (continua)

Barbara BRACCO, La Patria ferita. I corpi dei soldati italiani e la Grande Guerra, Firenze, Giunti, 2012, pp. 237, €16 

Nel 1914, a 22 anni il giovane aspirante pittore Otto Dix si arruola volontario nell’esercito del Kaiser. Ferito ripetutamente, sopravvive. Negli anni successivi elaborerà la più potente rappresentazione visiva della Grande Guerra e del suo lascito corporeo: Skat, Via Praga, il Venditore di fiammiferi, le straordinarie incisioni di Der Krieg, la passeggiata sinistra dei Mutilati di guerra, il pannello destro e sinistro di Metropoli (1927-28), il volto maciullato del Veterano ferito: pezzi incompleti di corpi vagano nella trincea, nella metropoli, nel tempo e negli spazi della vita quotidiana. (continua)

Eda KALMRE, The Human Sausage Factory. A Study of Post-War Rumour in Tartu, Amsterdam, Rodopi B.V., 2013, 180 p.

Il racconto ha l’evidenza archetipica del mito cannibalico e la struttura narrativa della leggenda metropolitana. Io non c’ero e dunque non ho visto direttamente. Ma una persona di cui mi fido totalmente mi ha riferito che…

In questo caso il narratore è un anziano signore che vive a Tartu, capitale dell’Estonia. Legge sul giornale locale, il Tartu Postimees,  l’intervista ad una giovane ricercatrice. Riordinando gli archivi del Museo del Folklore Estone, Eda Kalmre ha trovato svariate tracce di una voce su una fabbrica di Tartu che produceva salsicce con carne umana. Interrogata da un giornalista, ha classificato questa voce come una tipica horror story, un racconto dell’orrore. Il lettore insorge: la storia è vera, gliela ha raccontata il padre, di cui ovviamente si fida e che ne è stato testimone diretto.

Ecco il canovaccio. Poco dopo la fine della guerra, 1947. Il padre sta al mercato di Tartu. Arriva una donna urlante e ferita. Grida che stanno ammazzando delle persone in un edificio in rovina a qualche centinaio di metri. Una dozzina di passanti, tra cui il padre del narratore, corrono verso il luogo, penetrano tra il filo spinato e le brecce nelle mura, trovano pezzi di corpi, capelli, quaderni di scuola, mucchi di vestiti. La donna – una lattaia – racconta di essere stata avvicinata al mercato da un Russo (continua)

Hugh TREVOR-ROPER, The Invention of Scotland. Myth and History, New Haven, Yale University Press, 2008

Da un lato le poche nazioni per bene: non hanno miti e non ne hanno bisogno per essere nazione. Dall’altro le molte nazioni ‘voyou’: esigono miti per esistere e sono condannate a produrli senza fine. L’Inghilterra anglosassone, il meno mitopoietico dei popoli. I Celti e la Scozia, con la loro infinita produzione di miti, alla quale i poveri anglosassoni si devono aggrappare quando hanno bisogno di mito. L’Inghilterra, condannata allo spirito critico, alla realtà, alla luce, alla verità e al pragmatismo. La Scozia, vincolata all’immaginario, alla fantasia, alle nebbie, alla falsificazione, all’illusione e alla narrazione. La prima diventa l’identità che è. La seconda inventa l’identità che altrimenti non ha, e diventa questa invenzione.

Hugh Trevor-Roper organizza intorno a questa trama cognitiva la sua invenzione di come la Scozia ha inventato se stessa. (continua)

Luca MASTRANTONIO, Intellettuali del piffero. Come rompere l’incantesimo dei professionisti dell’impegno, Venezia, Marsilio, 2013, 270 pp., 18€

Una delle occupazioni preferite dei chierici è scrivere pamphlet sul tradimento dei chierici. Luca Mastrantonio ha pensato bene di non fare eccezione. Ma per lo meno ha saputo trovare un equilibrio tra il divertente e l’agghiacciante.

Un conto è il contatto quotidiano, casuale e frammentario, con quanto giorni dopo giorno i nostri chierici vanno dichiarando, scrivendo, proclamando, insinuando, interpretando, canticchiando e zufolando. Altro conto è trovarsi un po’ di tutto questo raccolto insieme, da una pagina all’altra, senza respiro, in una sorta di cacofonia o cantilena che non dà tregua.

Si soffoca. Si cerca di ritradurre tutto in pettegolezzo colto, ma non ci si riesce. Quello che emerge è un ethos trasversale privo di etica, un uso perverso e improprio del saper dire, una ipertrofia incongrua di Ego spesso microscopici.

(continua)

Si torna spesso sul luogo del delitto, spesso per completarlo o migliorarlo, o per salvarsi la faccia. È il caso di Giorello sul tradimento. Anni fa – nel 2007, per la precisione – aveva curato un Almanacco Guanda sul complotto (Il complotto. Teoria, pratica, invenzione, Parma): uno stanco volumetto senza idee (http://www.ilcorpo.com/ilcorpo/diario-paranoico-critico/paranoia-1-immaginiamo-complotti-per-colpa-della-morte-di-dio/). Ora ha pensato bene di dedicarsi al metalivello che condiziona la pensabilità, la desiderabilità e la concretizzazione del complotto, ovvero il tradimento.

Non disponendo di un tipo ideale o di una qualche modello concettuale del tradimento – tutta roba che costa fatica –, Giorello la butta in caciara.(continua)

Giuliana PAROTTO, Sacra officina. La simbolica religiosa di Silvio Berlusconi, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 107, 15€

Il problema è sopravvivere all’incipit: « L’ascesa politica di Silvio Berlusconi non è certo passata inosservata e ha sollevato numerosi interrogativi e questioni ». Ohibò… Se si riesce ad andare oltre una così desolante piattezza, quello che viene dopo è uno dei pochissimi libri interessanti e utili sul berlusconismo usciti in Italia. Mi dispiace di essermi accorto della sua esistenza per caso, 6 anni dopo la sua pubblicazione nel 2007.

Il libro si divide in due parti. Nella prima, Giuliana Parotto insegue la presenza di simboli religiosi espliciti e impliciti nella comunicazione e nella autorappresentazione di Berlusconi. Anticipo che si tratta della parte concettualmente più debole del volume, anche se qua e là incuriosisce, diverte e preoccupa. La seconda parte invece – sul corpo di S.B. – è di gran lunga più compatta e stimolante. Si dissente spesso, ma ci si sente trasportati in un territorio che vale la pena attraversare, magari litigando sulla mappa. (continua)

FRANCESCO DIMITRI. Precipitare nella realtà. Storie del*dal Necronomicon / Collapsing into reality. Stories about*from the Necronomicon. / Sombrer dans le réel. Histoires du*à partir du Necronomicon

Il Necronomicon è un libro di magia inventato dallo scrittore pulp H. P. Lovecraft. Molti lettori credettero che fosse un vero libro, e con il tempo lo è diventato. Ecco la storia dettagliata di come è successo: un episodio che mette in luce alcuni meccanismi di interscambio tra immaginario e realtà, tra il mondo delle idee e il mondo delle cose.

Il Necronomicon è un libro di magia inventato dallo scrittore pulp H. P. Lovecraft. Molti lettori credettero che fosse un vero libro, e con il tempo lo è diventato. Ecco la storia dettagliata di come è successo: un episodio che mette in luce alcuni meccanismi di interscambio tra immaginario e realtà, tra il mondo delle idee e il mondo delle cose.

The Necronomicon is a book of magic, brainchild of the pulp writer H. P. Lovecraft. Many readers believed it was an actual book, and in time it has become real. This is the detailed story of how the construction of this delusion happened: an episode that sheds some light on the regulatory mechanisms at the crossroads between reality and imagination, between the world of ideas and the world of things.

Le Necronomicon est un livre de magie, enfanté par l’écrivain pulp H. P. Lovecraft. De nombreux lecteurs (continua)

For some years, the often intertwined images of Che Guevara and Mussolini by nyte walka have been invading the classical spaces of street art in Manhattan and Brooklyn: Wooster Street, the Bowery, Williamsburg, Green Point …

ILCORPOgallery  presents a set of photos of those images shot by both authors, together with the authors’ selected resonances in the US social imaginery.(continua)

Da alcuni anni, le immagini spesso intrecciate di Che Guevara e Mussolini hanno invaso gli spazi classici della street art a Manhattan e a Brooklyn: Wooster Street, la Bowery, Williamsburg, Green Point …

ILCORPOgallery presenta una serie di foto di queste immagini. I due autori delle foto hanno aggiunto alla gallery alcune risonanze iconiche prelevate dall’immaginario sociale nord-americano.(continua)

Marco REVELLI, I demoni del potere, Roma, Laterza, 2012, 97 pp., 14€

Per decenni tutto di Marco Revelli è stato prevedibile: contenuti, visione del mondo, linguaggio, metafore, struttura del discorso, il complotto sempre appena sotto pelle, la cultura del risentimento un tempo tratto psicosociale della piccola borghesia, e ora che tutto è piccolo  borghese e dunque la categoria sociologica è priva di senso, appannaggio del suo ultimo rifugio, il lumpen-intellettuale.(continua)

A ritual to undo time  

 “I was found and contacted by many of my ex-schoolmates, but apart from exchanging news about our everyday lives, nothing much came of it. But then, a few weeks later, a dear old friend of mine with whom, for several reasons, I had had a falling out eight years ago, found the courage through Facebook to apologize for what she had done and re-connect with me. I would say that’s quite an achievement for a “simple” internet site. My friend and I have started seeing each other again, have cleared up our misunderstandings, and now confide in one another just like we used to eight years ago. Thanks Facebook!”

Thousands of similar stories could be told by Facebook users. This reminds me of the behaviour of an obsessive-compulsive patient described in a book many years ago by Elvio Fachinelli called The frozen arrow and three attempts to undo  time.(continua)

Nicola PORRO, Corpi e immaginario. Memoria, seduzione e potere dal Milite Ignoto al Grande Fratello, Acireale-Roma, Bonanno, 2010, pp. 239.

 Tra molto ciarpame, finalmente un contributo della sociologia italiana che rende giustizia alla eccedenza del corpo rispetto alle categorie che pretendono di inglobarlo e risolverlo. Sociologia del corpo? Giriamo il problema ai guardiani delle discipline. Per noi semplicemente un libro bello da leggere, intellettualmente avventuroso, e naturalmente anche criticabile.(continua)

V. CALLIERI   Lupus in lectore. Archeologia di Luciano Liboni come anti-eroe
Lupus in lectore. An archeological inquiry into the killer Luciano Liboni as an antihero
Lupus in lectore. Archéologie du meurtrier Luciano Liboni en tant qu’anti-héros.

Il 22 luglio 2004 Luciano Liboni, un piccolo criminale di provincia, sceglie di diventare un anti-eroe uccidendo inutilmente un carabiniere nelle Marche. 9 giorni dopo viene ucciso da un altro carabiniere a Roma. Tra queste due date si sviluppa la costruzione sociale e mediatica di Liboni come folk hero negativo. L’autore la indaga utilizzando il percorso, le fasi e i topoi della invenzione dell’eroe mitico sulla base del modello proposto da Joseph Campbell. In questo caso l’eroe – chiamato il Lupo nei media e nel discorso sociale – si configura come mostro sul confine tra natura e cultura, belva anomica che oppone il zoon al politikon, contenitore in cui il sociale colloca ciô che rimuove e nega dentro di sé.(continua)

Ian KERSHAW, The End: Hitler’s Germany 1944-45, London, Allen Lane,  2011, 596 pp.

Il 1 maggio 1945, le truppe russe raggiungono Demmin, una cittadina di 15mila abitanti nell’ovest della Pomerania. Seguono i consueti saccheggi, gli incendi delle case, il “Frau komm” degli stupri di massa. Niente di più e niente di meno di quanto stava accadendo su tutto il fronte Est della guerra.

Ma a Demmin nei tre giorni successivi oltre 900 abitanti si suicidano, talvolta dopo aver ucciso i familiari. Un uomo uccide la moglie e i tre figli, lancia un panzerfaust contro i sovietici e si  impicca. Una famiglia di 13 persone si uccide. Seguita da un ragazzino in bicicletta, una madre spinge una carrozzina con due bambini verso una quercia al confine del borgo, avvelena i tre figli e tenta di impiccarsi a un ramo dell’albero. Altri si annegano nei due fiumi locali, oppure si sparano, si buttano dai tetti.(continua)

Io credo che l’immaginazione umana non abbia inventato nulla che non sia vero, in questo mondo o negli altri –

Gérard de Nerval, Aurelia

Non c’è niente fuori che non cominci dentro. Non c’è niente di reale che prima non venga sognato – Clive Barker, Apocalypse

Cthulhu fhtagn  (richiamo di Cthulhu)

 La Vendetta di Finnegan

Per che cosa paghi, quando acquisti un libro? Dal punto di vista fisico non fai un grande affare: porti a casa una robetta fragile che prende fuoco facilmente, si rovina con l’acqua, si inzacchera con la terra.Tre elementi su quattro la detestano, e anche il quarto, l’aria, non gli vuole bene (provate a leggere su una spiaggia piena di vento e ne riparliamo). D’ora in poi la sua vita sarà in costante pericolo. (continua)