Albrecht Dürer, Le Quattro Streghe (1497)

La Strega è nuda.

Nella Villa dei Misteri a Pompei è rappresentata l’iniziazione di una fanciulla in un culto misterico. A iniziazione avvenuta, dopo essere morta e risorta, la fanciulla danza felice, divina – e nuda.

Nei rituali iniziatici accadeva spesso di spogliarsi. Il più importante storico della stregoneria in attività, Ronald Hutton, ha osservato che, al di là di questi riti, la nudità è rara nella pratica religiosa, ma è comune in quella magica – e, possiamo aggiungere, un’iniziazione misterica unisce le due.

Un incantesimo di folk magic inglese richiede che una donna che non riesce ad avere figli vada nel suo orto nuda la vigilia di Mezza Estate. O, se una donna volesse avere una visione del suo futuro marito, potrebbe fare di peggio: andare a correre nuda(continua)

Milioni di video e foto online alimentano la riproduzione digitale permanente e quotidiana dei nostri corpi. Al lavoro, al sole, in palestra, occhi, piedi, nasi, gambe, corpi sani, corpi malati. Non sfugge nulla o quasi.  C’è infatti una zona d’ombra in questa ossessione iconica che ci racconta ogni giorno: manca quasi del tutto ciò che siamo sotto la pelle.

Ma siamo qualcosa sotto la pelle? C’è ancora un’identità nelle viscere? La ricerca scientifica ci dice che il nostro intestino è un secondo cervello, però non ci viene in mente di condividerne l’immagine. Fa eccezione l’utero nell’ecografia delle gravidanze. Dal dentro portiamo fuori in pratica quasi solo il cuore, che rappresentiamo in tutte le forme. Difficile incontrare qualcuno con un ciondolo a forma di stomaco.

Dal 24 marzo al 17 luglio, la Fondazione Prada a Milano propone la mostra Cere anatomiche. La Specola di Firenze / David Cronenberg, rivelando un modo molto diverso di rappresentare identità, seduzione e organi interni.

(continua)

Un film gradevolmente falso. ALL THE BEAUTY AND THE BLOODSHED di Laura Poitras. Leone d’oro a Venezia.

Su Nan Goldin.

Le solite mitografie su un’artista (mezza) maledetta. Sesso ad ampio spettro (sì, spettro fatto di spettri), droga, povertà (tempo fa), una community di altri maledetti (veri, e prevalentemente morti – overdose e AIDS). Famiglia perbenista di merda. Sorella suicida. Relazioni distruttive (e distruggenti). La lotta vittoriosa ed eroica contro il Male (l’OxyContin, gli oppioidi, la famiglia Sackler) e per liberare l’Arte dal Male (fuori i Sackler dai musei del Mondo).

(continua)

Via Orti d’Alibert, a Roma, pochi metri da Regina Coeli. Il vecchio Filmstudio, ma ora si chiama SCENA, e dentro è proprio diverso. Evento-cinema FUORINORMA, l’associazione di Adriano Aprà, da anni in lotta appassionata per un cinema ‘altro’.

Qui, tra la fine degli anni 60 e gli anni 70, il mio personale incontro con cose che solo in questo luogo a Roma si vedevano. Stan Brakhage e l’avanguardia sperimentale nord americana. I fratelli Mekas. Cassavetes. Markopoulos. Godard. Solanas e Getino. Glauber Rocha. Alain Resnais. Miklos Jancso. Joseph Losey. Il Rossellini televisivo. I primi Antonioni. Tutto quello che girava sulla bellissima prima serie di Ombre Rosse (l’abbiamo riprodotta qui).

Ci sono tornato per la prima volta da allora domenica sera, il 5 dicembre, per FUORINORMA e per nostalgia. Pioggia, tutto chiuso intorno. La presenza del carcere.(continua)

 

PIÙ LIBRI PIÙ LIBERI. 400 editori piccoli e medi a raccolta sotto la plasticosa Nuvola di Fuksas, all’EUR. Tanta gente malgrado la pioggia.

Una delusione. Chissà perché, da ‘piccoli e ‘medi’ mi aspettavo avanguardia editoriale, ricerca estetica, audacie tipografiche e grafiche, magari libri d’artista, botte di vita. No. Da uno stand all’altro – e pure gli stand sono banali – il trionfo del conformismo visivo, il paperback all’americana come modulo generalizzato, i soliti formati. Migliaia di copertine tutte eguali – una immagine ‘fantasiosa’ irrimediabilmente banale e così colorata, un titolo con tipografia logora, l’omologazione.

Gran fatica e noia a girare tra così tante identità indistinte, con l’occhio che cerca una differenza vera. Nemmeno l’ideologia aiuta. Il sindacato di sinistra o gli anarchici stampano come gli altri e pure peggio. Le università, non ne parliamo. Le editrici ‘colte’ hanno perso cultura specifica. Laterza non si può guardare. Adelphi si contempla l’ombelico e ‘innova’ con alcune collane sciatte. Cortina sobriamente noiosa.(continua)

Donatella DI CESARE, Il complotto al potere, Torino, 2021, Einaudi

Ben venga questo breve saggio della filosofa Donatella Di Cesare sul complotto e sul complottismo. Il tema del complotto è stato ed è un protagonista delle nostre vicende politiche, sociali, economiche, e ora anche biomediche, eppure i contributi teorici italiani di un qualche peso sono pochissimi, marginali e in alcuni casi anche viziati da accuse di plagio.

Al centro del pamphlet sta il rapporto tra complotto e democrazia. Qui il complotto non conta come possibile evento reale, ma come narrazione sociale diffusa. Nei nostri paesi a regime politico democratico, aree crescenti (continua)

Francesca Fini / Cyborg Fatale (2011 – 2021), a cura di Bruno Di Marino, Milano 2021

Questo libro è la presa d’atto di una compulsione alla metamorfosi e all’anamorfosi tramite una creatività artistica avida di ogni mezzo possibile.

L’artista è Francesca Fini, 51 anni, romana. Cyborg Fatale copre gli ultimi 10 anni della sua attività. Viene da dire: della sua vita, tanto è totale e senza resti il percorso che viene raccontato.

La prima cosa che colpisce è la quantità di lavoro svolto. Chi abbia avuto a che fare con Francesca ha sentito la tonalità ascetica del suo modo di fare arte, la devozione a creare senza soste né stanchezze, letteralmente giorno e notte, con una attenzione ossessiva a ogni dettaglio anche minimo, sotto il segno di una autarchia che vuole gestire da sola tutta la scena. Anche quando altri vengono coinvolti, sembrano marginali, semplici protesi (continua)

Fernanda ALFIERI, Veronica e il diavolo. Storia di un esorcismo a Roma, Torino, Einaudi, 2021

Nel 1834 una giovane ragazza romana, Veronica Hamerani, di famiglia legata alla Chiesa, manifesta i sintomi di una possessione diabolica.

Per accidente, cercando altro, nell’Archivum Romanum Societatis Iesu, Fernanda Alfieri capita sul fascicolo Esorcisazione di Maria Antonina [in realtà Veronica] Hamerani, ritenuta ossessa (1834-1835). Il fascicolo raccoglie alcuni mesi di protocolli dell’osservazione partecipante degli esorcisti seduta dopo seduta, descrive il comportamento di Veronica, corpo, gesti, parole. Racconta le azioni di chi deve liberarla dal diavolo. (continua)

BOBI. Ovvero Roberto Calasso morente si conferisce il proprio mito delle origini e ne fa la propria maschera di cera.

Il suo Bobi Bazlen è un sistema di frammenti e aforismi, ovvero ciò che rende senza tempo una logica di rovine e di lapidi.

Molto del Bobi Bazlen reale non c’è. Il dramma di una lingua sempre più impossibile – il tedesco – che sempre più poteva solo leggere o tradurre o contaminare in altre lingue, mai scrivere. Il dandysmo. L’attrazione negata ma quanto sistematica verso le famiglie aristocratiche, a Trieste come a Roma. Le donne di cui NON ha parlato, ma che gli sono state di fronte come specchio insopportabile, una tra tutte, Ingeborg Bachmann.

Non so se, sedotto dalla mitografia di Calasso, qualcuno andrà a leggere Il Capitano di lungo corso, o La lotta con la macchina da scrivere. Se lo farà, incontrerà non il mito ma la limitata realtà della parola stampata sulla pagina.

Bobi Bazlen non era fatto per scrivere, ma per narrare. Questo era, uno straordinario narratore capace di trascinare via con sé di frase in frase tramite il suono della sua voce, con gli altri trasformati in fanciulli arresi ad una favola e ad una fantasmagoria.

Questo è rimasto nel ricordo intenso di chi lo ha ascoltato a lungo quando Bobi Bazlen era liberato dalla scrittura/lettura, la sua gabbia.

Di questo nel BOBI di Calasso non c’è traccia, perché Calasso – per farsi editore – aveva bisogno propria di una mitologia della scrittura/lettura, e non della potenza della voce. Così BOBI tradisce Bobi (Bazlen) traducendolo in testo.

Morto l’altro ieri Daniele Del Giudice, a 72 anni, di Alzheimer.

L’avevo conosciuto una vita fa, letteralmente. Stava come me in un collettivo del Manifesto, il Collettivo Tor de’ Cenci. Occhialetti metallici, sguardo diafano. Esprimeva in qualche modo una altrimenti inesprimibile tensione che lo mangiava dentro.

Scriveva recensioni per Paese Sera. Brevemente amici. Vivevo una svolta della mia vita, e ancora non avevo capito quanto era una svolta senza ritorno. Con lui se ne parlava senza dirne mezza parola.

Poi ognuno se ne andò per la sua strada.

Lessi anni dopo Lo Stadio di Wimbledon. Riguardava Bobi Bazlen. Bello. Pensai per un momento di ricontattarlo ma ero ‘altrove’.

Non era il grande scrittore che adesso un classe intellettuale in cerca di eroi morti gli sta cucendo addosso. Era un bravo scrittore, appassionato e seriamente intenso.

Non parlo mai qui di cose personali, ma a quel Daniele e a quel momento della mia vita ho sentito di doverlo.

Adesso sicuramente Einaudi ripubblicherà un po’ di cose sue, e forse ne leggerò qualcuna. Un atto dovuto da molto tempo e da lontano.