Imitare stanca. Il De Chirico copiatore

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna

 

De Chirico che copia: Raffaello, Tiziano, Michelangelo, Duerer, Fragonard, Reni, Van Dyck, Delacroix, Ingres, Veronese, Velasquez, e se stesso. Poteva essere una occasione buona per riprendere il problema della imitazione e dell’Autore, un ritorno intelligente alla Querelle des Anciens et des Modernes. Niente di tutto questo. La presentazione visiva della mostra è sciatta. Foglietti alle pareti che non dicono nulla. Un criterio organizzativo delle opere che non si capisce e non sale mai dalla confusione al problema. Le opere copiate ridotte a francobollini rasoterra: forse che metterle a fianco dell’imitazione avrebbe leso la Maestà del Pictor? Un relativismo estetico che non si azzarda a distinguere e a giudicare.

In questo modo opere piene della tensione paradossale di ogni imitazione – identificarsi transitoriamente con l’altro per diventare Io – coesistono con cosette indegne e esercitazioni da primo anno di Accademia di provincia. Ma la conseguenza più grave della ignavia del curatore è un’altra: rende difficile riflettere sulla imitazione fallita. Non riuscire a ‘copiare’ contiene la nascita dell’Io, o il suo disfarsi. La stanza delle copiature da Rubens ne è l’esempio perfetto. Di fronte a Rubens de Chirico non ce la fa, e produce cose miserande,

 che a volte cercano la soluzione comoda del far finta di essere ironiche. Ma perché non ce la fa? Se non una ipotesi di risposta, si poteva almeno porre la domanda.

Ancora più prudente è il Curator Optimus Ursino di fronte al de Chirico copiatore di se stesso. Cerca di cavarsela prendendo per buona la ragione che il pittore ormai sterile dava a sé e agli altri: “sono solo un artigiano” e gli artigiani fanno quello che i clienti chiedono… Ma le opere “neometafisiche” danno un disagio doloroso, le neo-Muse, le neo-Piazze e i neo-Gladiatori cacciano via lo sguardo verso una non neo-metafisica Metafisica degli anni 20, che sta in un angolo. Viene voglia di rimanere in quell’angolo a misurare la distanza tra l’imitazione e la potenza creativa della identificazione. E ad augurarsi che i grandi pittori non abbiano vedove.

Di tutto ciò si salvano poche tele qua e là, la leggerezza ariostea di cavalli sospesi nell’aria, le citazioni di se stesso che portano alla memoria il de Chirico dei Modernes e non lo scolastico degli Anciens. Si lascia perdere il catalogo inutile, si torna a casa a cercare negli scaffali il ben più utile Fumaroli. Nella mente e negli occhi rimane poco. Forse soprattutto la fresca brutalità dei giudizi sul Museo degli Orrori della Galleria Nazionale inizio secolo scorso, a ricordarci come si potrebbe  scrivere di arte: avendo opinioni…

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