Realismi finti e gulag veri. Pittura URSS e Rodčenko a Roma.

Palazzo delle Esposizioni, 7 gennaio. Sole stupendo fuori.

Dentro, due mostre sull’URSS in contemporanea: Realismi socialisti. Grande pittura sovietica 1920-1970, e Aleksandr Rodčenko.

Bel contrappunto: ottima mostra di prevalente ciarpame artistico, la prima; e pessima ambigua mostra di alcune belle cose, la seconda.

Realismi socialisti è la storia estetica di un disastro storico-politico: in questo senso, autentico realismo suo malgrado. Non ho capito quel “grande” nel titolo. Presumo non si tratti di una valutazione, ma di una misurazione da geometri:  non quadri, ma metri quadri. Come in ogni aspirante art pompier, molte delle opere presentate sono giganteschi padelloni figurativi sbattuti su lenzuolate di tela a parete quasi intera. Si guardano le prime opere degli anni 20, si segue il caos dei gruppetti che riescono a sopravvivere nel magma iniziale della rivoluzione, si ammirano gli sforzi altalenanti di Lunacharski per mantenere spazi aperti alla sperimentazione f0rmale, al futurismo russo e al costruttivismo. Difficile ma erano tempi di rivoluzione pragmatica e di NEP, e qualcosa si salvava.

Poi le acque dello stagno si chiudono. A proposito dell’amico Majakovskij, Roman Jakobson parlerà della “generazione che ha dissipato i suoi poeti”. A giudicare da questa mostra, non si può dire che quella generazione abbia dissipato i suoi pittori. Al di là dei primi costruttivisti e dei loro sopravvissuti, cosa c’era da dissipare? Il resto, il seguito, è l’affermarsi di una pittura filistea, intreccio di conformismo dei contenuti, accademia di belle arti nelle forme e nelle tecniche, pedagogismo burocratico, realismo senza realtà, peggio: il realismo come falsificazione sistematica della realtà. Qualche variante, certo – nell’arco di 50 anni qualche differenza dovrà pur emergere, e così i curatori possono compiacersi di così interessante pluralità; non realismo, ma realismi… Al di là della chiacchiera ideologica su cosa debba e possa essere l’arte rivoluzionaria, un solo filo conduttore: la mimesis piccolo-borghese dell’apparatchiko, forte delle sue recite da Servire il popolo. 

E poi rivoluzione? Quale? In quale delirio psicotico? Rivoluzione quella immensa costruzione paranoica costata decine di milioni di vite? Stalin? Il Khruscev che dà i numeri e invoca i figurativismo Epinal-politico quando vede la robetta tipo Geologi di Nikolov? O il peggio -possibile? sì – venuto poi dopo con Breznev? 

Qualcosa si salva, ovviamente. Non tanto il sopravvalutato Deineka  quanto la serie Bruciati dal fuoco della guerra di Korzev (1967). O, forse, Il lavoro è finito di Popkov (1970), Sul Caspio di Salachov (1966), la ieratica e metastorica Famiglia 1945 di Ivanov. Ma si salvano storicamente, per differenza rispetto ciò che hanno intorno, perché di per sé non esprimono nessuna novità di linguaggio e nessuna originalità formale rispetto a quello che altrove era già stato fatti decenni prima.

Lettera dal fronte

A. Laktionov, Il capitano Judin, eroe dell'Unione sovietica, in visita ai carristi del kolmosol, 1938

Andreij Myl'nikov, Sui campi di pace, 1950

 

 

V. Jakovlev, Ritratto del Maresciallo Georgij Zukov, 1946

Alexandr Rodčenko

Esco dallo pseudo- realismo che sarebbero realismi, e spero di rifarmi gli occhi con Rodcenko. L’Introduzione di Ol’ga Sviblova, direttore della Casa della fotografia di Mosca, gronda magniloquenza e promette male. Ma Rodcenko è Rodcenko, ho visto altre mostre sue e passo oltre. Per andare dove? Senza struttura, senza logica evidente, con numerazioni delle foto non in sequenza, senza una riconoscibilità delle sale e senza un percorso, inseguo inutilmente un filo conduttore, una griglia cognitiva: perché questo in fondo dovrebbe essere una mostra. Trovo solo, sulle pareti qua e là, frasette del nostro eroe che confermano una certezza: quando un artista ragiona su quello che fa, nella maggior parte dei casi se ne esce con roba di sconsolante banalità. Mi chiedo perché ce le hanno messe, e cerco le immagini. 

C’è di tutto. Il meglio, i suoi stilemi favoriti, i tagli estremi diagonali o  basso-alto, la forza dei corpi, la potenza dei dettagli delle macchine, i fotomontaggi e i collage, la potenza piranesiana restituita alle architetture, alcune sperimentazioni banali altrove ma dirompenti nella palude URSS (la serie degli acrobati e dei balletti tra il 1938 e il 1940), le copertine che intrecciano l’eredità tipografica costruttivista, la fotografia e l’influenza di Tschichold. Il realismo di Rodcenko, quello vero, quello che non crede di riprodurre la realtà ma la dice perché la interpreta dalla rivendicazione di punto di vista pienamente soggettivo, e per di più tramite lo strumento pseudo-mimetico per eccellenza nella mente dei filistei, la fotografia. 

E  c’è tutto il resto. Le foto fatte per campare, le immagini della propaganda senza anima per un regime di burocrati del terrore, le illustrazioni delle sorti magnifiche e progressive di una tragedia storica, il mascheramento della realtà, la complicità nella messa in scena.

Il punto più osceno di questa degradazione sta nella serie delle foto sulla costruzione del Canale mar Bianco-mar Baltico, un canale artificiale di 227 km. Il nome completo era “Canale mar Bianco-Mar Baltico intitolato a Stalin”, più brevemente fino al 1956 Canale Stalin. Fu costruito in 20 mesi, e prevalentemente con lavoro manuale,  tra il 1931 e il 1933, e fu presentato come uno dei grandi successi del primo piano quinquennale stalinista. Piccolo particolare: i gulag fornirono al cantiere circa 150mila prigionieri condannati alla rieducazione tramite il lavoro forzato. Condizioni di vita brutali: anche se i gulag successivi fecero di molto peggio, quel gulag fu una sorta di prova generale, il primo test su larga scala delle soluzioni organizzative che avrebbero amministrato la vita di milioni di persone negli anni successivi. Morirono oltre 25mila detenuti, più altri 5-7mila morti subito dopo la chiusura del cantiere nell’agosto del 1933, e dunque dispersi su altri archivi. Per una sintesi di tutto questo, compresa la descrizione dello stato attuale di questo canale troppo basso per poter essere usato effettivamente, c’è il capitolo “The White Sea Canal”, in Anne Applebaum, Gulag. A history, New York, Doubleday 2003.

La mostra presenta molte foto di Rodcenko al Canale e ai detenuti che vi lavoravano. Non poteva non vedere e non sapere. Ad un certo punto il regime organizzò una scampagnata di scrittori sull’ameno cantiere messo a festa: ci andarono Gorkij, Sklovskij, Aleksej Tolstoij ecc ecc e poi scrissero un bel volumetto apologetico sul grande progetto e sul compagno Stalin. Ma andarono per poco tempo, tanto poco da poter/voler essere ingannati. Rodcenko ci rimase settimane, e ci tornò. Si guardano le sue foto e si cerca speranzosamente una traccia anche discreta di quelli che stava accadendo lì: le foto hanno tanti modi per dire… Qualche barlume qua e là: una immobile assemblea in cui i cartelli chiedono “Date acqua” e le facce logore  e sporche parlano una rabbia che non può essere detta, un uomo a torso nudo che spinge una carriola (“Al lavoro in una fossa di fondazione”, 1933), la crudele ironia di “Al lavoro con l’orchestra, 1933”: un’orchestrina ripresa dall’altro suona ‘intrattenendo’ un gruppetto di prigionieri-schiavi  che giù in basso, molto sotto all’orchestra, lavorano (si vede che Gorkij e compagni erano nei dintorni). Tutto qui.

Possiamo anche capire che Rodcenko non abbia potuto dire di più e meglio. Ma i curatori del catalogo? E i responsabili italiani della mostra? Perché non si sono degnati di spiegare cos’è stato il Canale? Perché la parola gulag non c’è mai? Perché non ci viene spiegato chi è quella gente che a mani nude scava la terra, trasporta i sassi ecc? Una sola sbavatura in tanto silenzio: dell’uomo di “Al lavoro in una fossa…” ci si spiega che era “Stepan Dudnik, futuro pittore e artista emerito della federazione russa”. Tutto qui. Capisca chi vuole. I realismi socialisti continuano. 

Il catalogo è imbarazzante. Quello della mostra Realismi socialisti è articolato, ricco di analisi e di informazioni utili, spiega, consente di capire, e magari – per fortuna di rado – cerca di colmare con parole il vuoto estetico della roba stanca di cui ricostruisce le vicissitudini. Rodcenko invece ha diritto solo al pensiero di Alemanno, ex-fascista, sindaco di Roma; di Emanuele Emanuele, Presidente dell’Azienda PalaExpo; della già citata Ol’ga Sviblova; oltre che a qualche ricordo della figlia di Rodcenko e a qualche magra inutile citazione (mezza pagina) dell’artista stesso. Ricostruzione, analisi critica, letture plurime? Andatele a cercare nel bellissimo Rodtchenko et le Groupe Octobre, di Aleksandr Laurentiev, Paris 2006. Persino la qualità delle immagini, buona nel volume sui Realismi socialisti, qui si perde, tra neri che non riescono mai ad esserlo, grigi impastati, piattume, volumi senza forza.

Per fortuna rimangono i vari Majakovskij, Lilija Brik, Osip Brik, a guardarci dritto negli occhi, e a ricordarci gli artisti dissipati. Anche dalle mostre.

 

A. Rodčenko, Majakovskij

A. Rodčenko, Osip Brik

 

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