#Myselfiestory: antropologia del selfie

251.514.208:  sono i risultati di Instagram se si cerca il tag selfie.

Se ne parla ovunque, con interpretazioni discordanti: nuovo narcisismo per alcuni, democratizzazione del ritratto per altri, nuova variante del lamento collettivo sulla gioventù dannata o occasione di glorificazione dei nuovi media. Per sfuggire sia all’iconoclastia digitale che all’autoidolatria iconica, abbiamo pensato che forse il modo migliore per capire i selfie è quello più ovvio: studiarli. Ma come? In qualche giorno uno spider sofisticato potrebbe riuscire a scaricare i milioni di selfie e con software di analisi delle immagini e linguistici, si riuscirebbe forse ad ottenere qualche prima indicazione. A noi però non interessano i selfie come maschera defunta, ci interessano come elemento vitale e dinamico di identità e relazione, perché così sono usati. Il selfie racconta qualcosa a chi lo scatta e a coloro con cui viene condiviso, questo gli dà vita e senso. Allora perché non raccogliere i selfie con la loro storia?

Da qui è nata l’iniziativa con il Tempo delle donne: #myselfiestory, la mia storia in 3 selfie e 3 tweet che ha consentito di raccogliere centinaia di selfie  (qualitative small data vs big data) così come erano stati archiviati nel proprio smartphone, uniti alla storia che per ognuno raccontavano.

Uno degli elementi più importanti che è emerso dall’analisi è l’invenzione di un nuovo concetto di pubblico.

Nel tentativo di interpretare i selfie, l’autoritratto artistico può portarci su una strada fuorviante. Più utile seguire invece la storia sociale del ritratto: chi, in quale occasione, per quale uso e da chi aveva accesso al ritratto? Chi era senza volto era senza storia. Chi era senza volto, era gruppo, categoria, classe e non individuo. Il ritratto negozia il confine tra individuo e gruppo, tra la legittimità ad essere individuo irripetibile e la chiamata ad essere icona di un gruppo e di una collettività. Il ritratto socialmente legittimato ad essere pubblico era il ritratto icona, il ritratto idolo, di un potente, di una star, di un criminale. Le foto individuali accompagnavano la ritualità familiare ma restavano private. La comunicazione digitale fa saltare i confini tra pubblico e privato, espone l’individuo alla tracciatura e al controllo ma, al tempo stesso, occupa la scena del pubblico, del visibile, con una schiera di volti individuali, che non diventano icona, che raccontano solo se stessi, una schiera di anonimi che acquistano vita in reti di condivisioni più o meno ampie, fluide e sfuggenti. Il selfie è il volto del crowdhero, dell’individuo immaginato e inverato dalle fandom,  cioè dal reticolo comunitario online che riconosce l’io come HERO, come protagonista della sua storia. 

Questo fenomeno è totalmente nuovo, inquieta, viene ridotto a narcisismo e vanità, segna invece un fenomeno storico di portata molto più ampia di un semplice autoscatto, diventa un autoriscatto, soprattutto per il femminile. Il selfie inverte infatti il segno della costruzione sociale del volto: non sono gli sguardi degli altri a ‘costituirmi’, è il mio sguardo su me stessa che mi connette agli altri. Dal tag all’autotag: una rivoluzione.

Qui l’intera ricerca.

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