251.514.208: sono i risultati di Instagram se si cerca il tag selfie.
Se ne parla ovunque, con interpretazioni discordanti: nuovo narcisismo per alcuni, democratizzazione del ritratto per altri, nuova variante del lamento collettivo sulla gioventù dannata o occasione di glorificazione dei nuovi media. Per sfuggire sia all’iconoclastia digitale che all’autoidolatria iconica, abbiamo pensato che forse il modo migliore per capire i selfie è quello più ovvio: studiarli. Ma come? In qualche giorno uno spider sofisticato potrebbe riuscire a scaricare i milioni di selfie e con software di analisi delle immagini e linguistici, si riuscirebbe forse ad ottenere qualche prima indicazione. A noi però non interessano i selfie come maschera defunta, ci interessano come elemento vitale e dinamico di identità e relazione, perché così sono usati. Il selfie racconta qualcosa a chi lo scatta e a coloro con cui viene condiviso, questo gli dà vita e senso. Allora perché non raccogliere i selfie con la loro storia?
La fotografia nell’era degli smartphone sfida la memoria
L’autoscatto del presente. Fenomenologia e ubiquità del “selfie”. Vincono (forse) vanità e banalità che però colgono lo spirito del tempo [di Gianluigi Colin, La Lettura, p. 2]
L’autoscatto con lo smartphone: specchio permanente e puntiforme di un’identità che altrimenti sfugge nella fluidità delle relazioni e degli schemi corporei. Come sono veramente me lo dice l’autoscatto. L’autoscato è un simulacro che dice un’assenza come nel Ritratto dell’amante. Oppure è il tentativo di vedere l’invisibile che siamo, come nel Fotografare l’inconscio.
Urs Fischer per il Corriere della Sera [La Lettura, Copertina]
In tech we trust [di Simon Kuper, Financial Times, 7 settembre]
Il 7 settembre mi era sfuggito (non era domenica….). Un tweet perfetto: “Instead of developing a policy to solve a problem, people now develop an app“.