Manhattan Transfer. NO!art a Chelsea

New York, 4 dicembre 2011- 3 dicembre 2012, Chelsea

 In fondo alla 22a lo Chelsea Art Museum. Anni fa una mostra di Cristòbal Gabarron, The Body Image. Valeva poco, ma nel negozio all’ingresso vendevano cose insolite, tipo un manualetto ciclostilato per sopravvivere in carcere: come farsi un coltello con un cucchiaio, come evitare gli stupri. Oppure cataloghi e libri che non aveva nessuno.

Ci torniamo. Sono le 5 del pomeriggio. Odore di hamburger e  patatine. Un tizio – un custode? – mangia seduto tra i volumi. Alla cassa sta una ragazza – 25 anni? acne: indifferente, parla al cellulare. Il museo è deserto. Mostra di un tale che non so chi sia – Sam Goodman, Reality and Abstraction. Paintings 1945-1959. Le immagini su un opuscoletto vanno passar la voglia di saperne di più.

Giriamo nello shop. Robe insolite in lingue insolite per un museo d New York: cinese, coreano, tedesco. Sullo scaffale in svendita, un volumetto in tedesco, NO!ART, di tali Boris Lurie e Seymour Krim. Bianco e nero, titolo in rosso. Sensazione immediata di familiarità, qualcosa lì mi appartiene, nel passato quando è anche futuro. È Seymour Krim che fa l’aggancio. Lo collego all’articolo che per primo raccontò la strage di My Lai in Vietnam, nel 1968. Astuzia del mio bisogno di utopia. Qualche ora dopo realizzo tra me e me che quella serie di articoli era stata scritta sì da un Seymour, ma Hersh, ma io volevo ritrovare il suono profondo di quegli “Hey Hey LBJ how many kids you killed today” delle manifestazioni sul campus della mia università in quel 1969, quando il nemico era chiaro, il mondo aveva un ordine e il futuro una linea retta.

Seymour Krim alias Hersh mi fa aprire il volumetto. Immagini in bianco e nero, depurate dalla stupidità del colore. Montaggi, collages, foto di opere dove la foto è l’opera, ready made iconici e non, la libertà dell’associazionismo surrealista tradotta nelle forme della cosiddetta street art, il poster povero da strada come modello visivo e media, il tabloid calpestato sul marciapiede come stilema materico, la cacca come scultura, la pin up sfatta come star, la vagina come tunnel verso il nulla, il cadavere mutilato come kaloskagathos, il mucchio dei cadaveri come orgia [sensualità] del sociale, auschwitz come contrazione aoristica di una civiltà.

Boris Lurie, Stanley Fisher, Sam Goodman. Mai sentiti, ma mi pare di conoscerli da sempre. Tutti e tre morti da tempo. All’inizio degli anni ’60 avevano creato a New York appunto NO!ART. Qualche prudentissimo compagno di strada presto scappato via, una gallerista prima partecipe poi furbetta (Gertrude Stein, com’è ovvio “una rosa è una rosa è una rosa” non c’entra nulla), qualche mostra in giro, un paio anche in Italia (da Schwarz). Ma in realtà solo loro tre, ognuno con le sue ossessioni personali e visive declinate con ferocia, contro la guerra, lo sterminio di massa, il consumismo straccione, il culto dei corpi, il sesso, le cose nobili e alte, il politicamente corretto. Sul vagone dei cadaveri di Auschwitz la pinup vistosa di Lurie – ebreo e sopravvissuto – si cala le mutande  e mostra il sedere.

 

 

Di loro rimane poco.

C’è la Fondazione Boris Lurie, che organizza mostre dove può compreso lo Chelsea Art Museum, con un inutile Goodman prima dell’incontro con Lurie – il nulla -, o con Aldo Tabellini, tanta buona volontà e poco più. Ma questa Fondazione è una strana cosa: l’ha creata la gallerista Gertrude Stein insieme al titolare di una fiduciaria svizzera di Chiasso e a un operatore economico del Liechtenstein. L’anarchico sovversivo Boris Lurie finito nei quasi-paradisi fiscali?! La Fondazione ha poi registrato il marchio NO!art come se si trattasse  di un marchio commerciale qualsiasi e si accanisce legalmente contro chi vuole usare questo nome-simbolo. In sostanza cercano di fare soldi sfruttando post-mortem nomi e opere di artisti libertari e violentemente antisistema. 

Poi c’è il sito NO!ART (http://www.no-art.info), organizzato da Dietmar Kierves e Clayton Patterson. Mentre il sito della Fondazione è una scatola vuota, NO!ART contiene una grande quantità di informazioni e materiali sui tre fondatori. Ma soprattutto è un fertile punto di raccolta per i materiali di artisti americani e tedeschi che si ritrovano nel progetto di Lurie, Fischer e Goodman: fare arte che sia anche fare azione politica. 

E ci sono un paio di volumi. Boris Lurie, Seymour Krim, NO!ART. Pinup excrement protest Jew-art, pubblicato a Colonia nel 1988, è la più completa raccolta esistente di immagini delle opere della NO!ART. Qualità delle foto pessima, volume trasandato che perde le pagine appena lo si apre, confusa introduzione tedesca a molte mani con traduzioni inglesi fantasiose. Un libro perfetto perché platealmente imperfetto, congruo a ciò di cui parla, violento, costringe ad avvicinarsi alla pagine per capirci qualcosa. Libro di contatto e di presa.

L’altro è NO!art, Berlino 1996, il catalogo di due mostre del 1995, qualche saggio interessante. La copertina è finto povera-riciclata, scelte tipografiche senza coraggio, layout banale, il colore e la pretesa di fare un libro riescono quasi a compromettere la forza di ciò che viene mostrato. 

Guardo le immagini. Cerco di capire cosa mi ha spinto subito dopo Chelsea a cercare alla 57a la galleria della Gertrude Stein, magari sperando che ci fosse ancora qualcosa nei depositi – quale urgenza -, salvo scoprire che la galleria non sta più a quell’indirizzo indicato sul sito web e il portiere scoglionato commenta: “non hanno lasciato un altro indirizzo”. NO!ART aveva a che fare con il potere. In modi diversi, i suoi corpi, le sue figure e le sue cose  portano scritti i segni brutali dei poteri sociali. Bodies of power, evidenze del potere di cui cerco inutilmente la presenza nelle gallerie di Chelsea, come le cercavo altrettanto inutilmente nelle gigionerie di Warhol quando NO!ART mutilava in silenzio i corpi e le forme.

Più sullo sfondo, nostalgia. Di un momento in cui si seppe – per una stagione breve – dare corpo al potere, riconoscerlo, e leggerlo nei corpi. E dunque fu possibile praticare marginalmente arte che non fosse arte per l’arte, e neanche arte al servizio di qualcosa, ma arte specchio tranciato e slogato di quel potere che trancia le carni e sloga le vite con i suoi corpi di acciaio. Valeva per l’arte, valeva per le vite. Mi accorgo che, quasi inconsapevolmente, è in quel periodo che Il Corpo cerca le sue origini, il suo senso,  i suoi materiali di partenza, il suo progetto. 

3 dicembre 2012

Torniamo al Chelsea Art Museum. Non lo troviamo. Ci mettiamo un po’ a capire. Ha chiuso. La Fondazione Miotte che lo aveva creato ha venduto l’edificio il 31 dicembre 2011 e cerca una nuova sede per la sua collezione. Poco male per le opere di Jean Miotte, da dimenticare. Ma è senza luogo tutto ciò che restava della No!art e che la gallerista Gertrude Stein non è riuscita a far proprio. Un pezzo di qualcosa se ne va, con intorno il blob delle innumerevoli gallerie di Chelsea che ingloba ogni forma senza restituire senso. Rimpiango la puzza di hamburger e l’indifferenza dei custodi dell’anno prima. Scrivo queste righe. 

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