Strategie per gestire (in)felicemente la catastrofe. (1) Colpa collettiva e capro espiatorio nel terremoto d’Abruzzo

La Repubblica, 10 aprile 2009

 

La catastrofe naturale ci ricorda quanto è arbitrario pensare che l’ordine abituale della realtà sia certo. Non è logicamente necessario che domani sorga il sole, ma è psicologicamente intollerabile andare a dormire con questa ipotesi in testa. Ci aggrappiamo ad una rappresentazione metafisica e magica delle ‘leggi di natura’, e ci sforziamo di definire ‘eccezioni’ i comportamenti delle cose che sono conformi a leggi ma non sono conformi alle nostre abitudini cognitive e di vita.

Quando la presunta eccezione avviene, essa implica sempre in qualche modo che il sole potrebbe non sorgere domattina, ovvero la fine del mondo, lo sgretolarsi del cosmos nel caos, il marasma cognitivo, l’impossibilità dell’azione razionale: come si può agire in una realtà imprevedibile?

Il risultato dell’eccezione è necessariamente un terrore sottile e inesprimibile. Se però la presunta eccezione, ad esempio il terremoto, ci colpisce con dolore e morte, allora possiamo pensare che la paura della catastrofe sia solo paura del dolore e della morte, e tutto diventa stranamente più semplice e ovvio.

Rimane il problema di ridare ordine al mondo disordinato. Qui i sistemi sociali non danno prova di grande creatività. La prima via d’uscita è la colpa. La seconda è la ricomposizione della coerenza della realtà nel corpo di un individuo esemplare.

La Repubblica del 10 aprile titola a prima pagina intera: « Napolitano: “Nessuno è senza colpa” ».  Il Capo dello Stato dice che noi, tutti noi, siamo colpevoli. Sul piano razionale, è una affermazione delirante. La stragrandissima maggioranza di noi non è colpevole proprio di nulla rispetto al terremoto abruzzese, né direttamente né indirettamente. Ma sul piano dell’immaginario, è un’altra storia. Il più alto rappresentante ufficiale del Noi colloca la catastrofe nello spazio etico, semantico, emozionale e simbolico della colpa.

Colpa di che? Tutti colpevoli allo stesso modo? Non importa. Conta un’altra cosa: la colpa implica un rapporto razionale e accertato tra una causa e un effetto. Sono colpevole perché ho fatto a che ha provocato b. Il terremoto non è più una eccezione e un disordine della realtà, è una conseguenza di una azione. Corollario: se l’azione viene evitata, si evita anche la conseguenza. Il sussulto della crosta terreste lungo una linea di faglia non appartiene più all’imponderabile disordine della realtà, al caos che preme sotto la sottile crosta del cosmos. Esso rientra in un ordine, e diventa accessibile al controllo umano.

Peggio. Se il terremoto d’Abruzzo è colpa del Noi, allora esso è una punizione. Se avessimo rispettato le leggi e le regole, se fossimo stati buoni e bravi e onesti cittadini, se fossimo stati meno avidi e avessimo costruito, comprato, controllato come si deve, ecc., allora forse il terremoto ci sarebbe stato, ma non la catastrofe, il terrore e la morte. La catastrofe è la forma concreta e naturalizzata del male anomico che disgrega la polis.

Nel titolone il glorified tabloid La Repubblica ci invita ad una elaborazione depressiva del lutto (“è colpa nostra”) che nasconde in realtà, come sempre fa la depressione, una onnipotenza magica: avremmo potuto evitare la catastrofe e la morte. In questo modo, regala ai suoi lettori i piaceri della coscienza infelice hegeliana, con una catartica aggiunta di Schadenfreude. Contrariamente alla vulgata, la colpa è il contrario della responsabilità. È la sua parodia narcisistica e autoerotica. Non implica un comportamento attivo per modificare la realtà, ma basta a se stessa, e si nutre di grande e sofferto piacere. Chi si sente in colpa non cambia, si installa nella colpa.

La Repubblica è però un tabloid sofisticato. La semi-intellighentzia piccolo borghese che costituisce lo zoccolo duro della sua audience ha bisogno di una più ampia costellazione paranoica di riferimento. Così, sempre nella prima pagina, il Male della colpa esce dall’ingroup, dal Noi, e si incarna in un Nemico esterno: i rapaci costruttori che hanno usato sabbia e tondini risparmiosi nelle abitazioni e negli edifici crollati. Una convincente razionalità economica e un set plausibile di valori e affetti danno coerenza alla colpa e segnalano un colpevole rassicurante: lui, il pescecane, l’eternamente rapace Shylock pronto a nutrirsi di carne umana viva e morta, lo straniero interno animato solo dalla auri sacra fames, l’essere anti-natura che ha tradito il genius loci e le radici del Noi locale portando il mare in montagna, la sabbia del mare nel cemento armato terrigno di cui corrode la struttura: anticipatore e catalizzatore del caos a venire.

Rispetto alla presentazione delirante della frase del Capo dello Stato, qui tutto sembra più concreto e meno immaginario. C’è il cemento che non sarebbe cemento, ci sono le motivazioni, ci sono i pilastri sgretolati ecc. Poi si leggono gli articoli, e tutto ritorna nell’immaginario: ancora nessuna prova certa, molti edifici dei paesi più colpiti erano di pietra e malta, e non con intelaiature di cemento. gli esperti devono ancora arrivare, i campioni per le analisi devono ancora essere raccolti, ci sono solo parole, dichiarazioni, indagini a venire.

C’è però ordine. La Provvidenza derisa da Voltaire in Candide e nel poema sul terremoto di Lisbona. Una Provvidenza laica, che svolge tutte le funzioni della vecchia Provvidenza, ma senza dio, solo con la coerenza delle procedure paranoiche e depressive del sociale, capaci di dare senso compatto ad ogni smagliatura inquietante della realtà.

Un libro da leggere:      

E il poema di Voltaire: non è certo grande poesia, ma è sempre meglio di quanto abbiamo letto e sentito in queste settimane da capi di stato, capi di governo, giornalisti e preti vari. Più accettabile in francese. Una traduzione italiana in http://www.aetnanet.org/modules.php?name=News&file=article&sid=15059.

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