Divorare il mondo. Ellen West anoressica vittima di un «torto»?

Antonella MOSCATI, Ellen West. Una vita indegna di essere vissuta, Quodlibet, Macerata 2021

Dopo oltre  100 anni Ellen West non riesce ancora a morire. Come tanti altri prima di lei, ora tocca ad Antonella Moscati costringerla a vivere.

Ha scritto per la certezza di una ingiustizia, e per il desiderio di ripararla. L’esistenza di questa giovane anoressica, almeno per la parte finale fino al suicidio, è stata «profondamente segnata da un torto». Per 150 pagine l’autrice insegue con metodo questo torto, e noi con lei, con una differenza: lo abbiamo atteso pagina dopo pagina, e non siamo riusciti a trovarlo.

Ad un primo livello la vicenda di Ellen West «è la storia di un fallimento psichiatrico, psicoterapeutico, affettivo e umano che termina con la liceità di un suicidio» (p. 10). Aggiungiamo, anche se l’autrice non lo dice esplicitamente: un fallimento di maschi di fronte alla incomprensibilità di una giovane donna di insolita cultura, intelligenza, scrittura, domanda di indipendenza e di vita. Maschi gli ‘psicoanalisti’ dei suoi due brevi tentativi di psicoterapia con von Gebsattel e con Hattingberg: più incisivo il secondo, il primo più consolatorio, e di un terapeuta finito presto a disperdersi nell’Io oceanico di una quasi-setta. Maschi gli psico-qualcosa di prestigio coinvolti nei consulti. Maschio Ludwig Binswanger, che gestì/non gestì gli ultimi mesi della vita di Ellen West a Kreuzlingen. Maschio il marito/cugino Karl, accompagnatore e facilitatore sia psicologico che concreto (il veleno) della morte della giovane. E «fosca» diade maschile la coppia Binswanger/Karl West, unita dal violoncello e da una complicità durata ben oltre la fine di Ellen. Dunque in qualche modo uomini a decidere di un destino di donna.

A un secondo livello, il caso Ellen West esprime secondo la Moscati un fallimento diagnostico. Tutti questi maschi avvolti in un confuso cincischio intorno alla schizofrenia e dintorni. Se avessero correttamente identificato la sofferenza della ‘paziente’ come anoressia, avrebbero potuto disporre di casistiche, percorsi evolutivi, strumenti di intervento efficaci in grado di capire meglio quello che stava accadendo, e Ellen West forse si sarebbe salvata. La categoria dell’anoressia esisteva già (molto marginalmente, aggiungiamo noi), ma è stata ignorata. Per cecità, la giovane anoressica è stata respinta in una dimensione incurabile e condannata psichiatricamente a morte, ignorando la parte di lei che parlava di voler morire ma in realtà esprimeva un famelico desiderio di vita. E qui di nuovo il più cieco è Binswanger, con il suo frasario heideggeriano, quando rinuncia a qualsiasi intervento attivo nella sua clinica e accetta il suicidio di Ellen come finale atto autentico della sua esistenza.

Questa la catena dei “torti”, e il mio fastidio rispetto a questi “torti”. Non mi importa granché dello statuto diagnostico della vicenda di Ellen West. Quello che so è che al cuore dei comportamenti anoressici sta una fame illimitata, il bisogno di divorare il mondo appropriandoselo per introiezione. La persona anoressica vuole impadronirsi del tutto inghiottendolo, e contro questo erge la difesa disperata della rinuncia radicale a divorare alcunché. Il suo tentativo di proteggere la realtà dalla distruzione del suo divoramento. Sullo sfondo, nella mia esperienza clinica, è sempre presente la fantasia della propria morte come dissolvimento di sé e insieme di quel mondo intorno a sé che mai potrà essere integralmente proprio. Divorare distrugge l’oggetto desiderato nel mentre se lo appropria. In questo senso l’anoressico si misura costantemente con la morte parallela propria e della realtà. La sua parte viva combatte a fatica su questo crinale dove protagonista è la dissoluzione di sé e del mondo tramite la tangibile e misurata vanificazione del proprio corpo.

La fatica può diventare insostenibile. Il desiderio residuo di vita non trova più dove aggrapparsi sullo specchio di sé. Ci si sente diventare un buco nero al centro dell’universo, luogo geometrico di una catastrofe in senso stretto cosmica. A quel punto anche il terapeuta deve tollerare di ritrarsi, lasciando che si compia in qualche modo un progetto di morte, per autoconsunzione o per suicidio più o meno assistito. In alcuni questa morte si presenta come un atto salvifico e di apparente amore – proteggere il mondo dalla propria smisurata capacità di distruzione. In altri la morte è puro desiderio distruttivo di vanificazione del mondo tramite la vanificazione di sé stessi.

Di fronte a questa aporia anoressica, Antonella Moscati ha preferito una soluzione più semplice: trovare un nemico almeno parzialmente colpevole del “torto”, ovvero i dilemmi psichiatrico-terapeutici di alcuni maschi a cavallo del secolo scorso rispetto a un profilo di donna così simile al profilo della maggior parte delle anoressiche, e ora degli anoressici. Oppure, darsi una spiegazione cosmico-storica: l’anoressia del divoramento impossibile come forma psichica della minaccia di un avvelenamento e fine del cibo sul pianeta, espressione individuale ormai epidemica di una fame universale in arrivo e del cibo come pienezza avvelenata, mancanza e pericolo: pharmakon puro.

Questa ‘spiegazione’ non spiega. Il profilo socio-psicologico degli individui anoressici nelle diverse società e culture mostra che sono ammalate di fame totale proprio le persone meno esposte alla fame di pancia ma alla mercé di una illimitata fame di testa. Tuttavia il pensiero associativo di Antonella Moscati coglie nel giusto: la partita disperata che la persona anoressica gioca dentro di sé è cosmica e riguarda il tutto, l’esistenza e la sopravvivenza della totalità, sul confine di una dissoluzione propria che non è solo dissipatio humani generis ma fine della realtà intera per divoramento famelico. Con questo combatteva la senza-nome Ellen West, e a questo ha messo fine il suo suicidio assistito. Lasciamola morire. [enrico pozzi]

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