Precipitare sulla Realtà. Storie del/dal Necronomicon

Io credo che l’immaginazione umana non abbia inventato nulla che non sia vero, in questo mondo o negli altri –

Gérard de Nerval, Aurelia

Non c’è niente fuori che non cominci dentro. Non c’è niente di reale che prima non venga sognato – Clive Barker, Apocalypse

Cthulhu fhtagn  (richiamo di Cthulhu)

 La Vendetta di Finnegan

Per che cosa paghi, quando acquisti un libro? Dal punto di vista fisico non fai un grande affare: porti a casa una robetta fragile che prende fuoco facilmente, si rovina con l’acqua, si inzacchera con la terra.Tre elementi su quattro la detestano, e anche il quarto, l’aria, non gli vuole bene (provate a leggere su una spiaggia piena di vento e ne riparliamo). D’ora in poi la sua vita sarà in costante pericolo. Ma non è questo che ti interessa. Quello che desideri è il mondo alternativo, il panorama mentale (o il piano astrale) in cui quel libro ti porta. Tutti i libri disegnano mondi: allargano il tuo panorama personale, inseriscono personaggi e luoghi nuovi in quella continua recita a soggetto che è la mente umana. La Storia non è mai disgiunta dal Mito, e i libri, siano essi fiction o saggistica, giocano con entrambe.

Poniamo che io abbia deciso di scrivere Finnegans Wake II: la Vendetta di Finnegan. Dopo essermi annoiato a morte con Joyce, butto giù un mattoncino di quattrocento pagine che racconta di come Finnegan ritrovi se stesso in un casinò di Montecarlo, vada a letto con un vampiro e scopra che Gesù e la Maddalena erano non solo amanti, ma anche fratello e sorella.

Quello che ho scritto è un ‘falso’ seguito di Finnegans Wake?

Ma il libro esiste davvero, e parla davvero di Finnegan, davvero racconta le sue nuove avventure. La sua vita è un po’ cambiata, ma se non lo fosse, non ci sarebbe stato bisogno di scrivere un seguito.

Qualcuno potrebbe obiettare che il mio sequel è ‘falso’ perchè solo l’autore di un’opera ha diritto a proseguirla. Ma a questo punto anche Alien 2 non sarebbe un ‘vero’ sequel di Alien, e i fumetti di Conan non sarebbero ‘veri’ fumetti di Conan. Una posizione che è, al meglio, euristicamente inutile, al peggio, demenziale.

Il mio La Vendetta di Finnegan sarà anche un libro mediocre, ma di certo non sarà meno ‘vero’ del libro di Joyce. Quand’anche io provassi ad attribuirlo a lui, sarebbe un falso libro di Joyce, ma non un falso libro tout court, né un falso sequel.

Per ora però siamo nel campo della fiction, che per sua natura confonde le acque. La condizione ontologica di un’operazione del genere è diversissima da quella, poniamo, dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion. In questo caso non è falsa solo l’attribuzione, è falsa ogni cosa: quelli non sono neanche veri protocolli, mentre il mio romanzo è un vero romanzo a tutti gli effetti (o lo sarebbe se mai lo scrivessi). Il che mette in luce una differenza sostanziale tra fiction e saggistica, tra Storia e Mito… e quindi contraddice quanto detto finora. Giusto? Un po’ di pazienza; le cose sono più complesse di così.

La lettura di un libro funziona in modo simile all’assunzione di una dose di lsd: alteri la tua coscienza e ti immergi in un mondo alternativo, che forse esiste solo nella tua mente, forse no. In ogni caso la realtà consensuale si disgrega attorno a te, l’Universo intero collassa ai tuoi piedi, e a quel punto non ha più senso parlare di realtà e falsità, perché sei nel regno della mente, nel piano astrale, in un mondo di possibilità infinite.

Detto questo, esistono dei falsi libri, i cosiddetti pseudobiblia.

Qualcuno ci sarà arrivato: per essere falso un libro deve non-esistere, non essere mai stato scritto. E qualcuno deve credere che, invece, sia stato scritto davvero. Io non ho mai scritto Finnegans Wake II, ma se convincessi voi lettori di averlo fatto, ecco allora che starei creando uno pseudobiblium, un libro-che-non-c’è. È falso perché non esiste.

E arriviamo al Necronomicon[slider title=’1′]1 D’ora in poi in tondo.[/slider].

Il Necronomicon è il più aborrito testo di magia nera mai comparso. Chiunque lo legga mette in pericolo non solo la propria sanità mentale, ma il mondo stesso. È pericoloso trattarlo con leggerezza: il Necronomicon non è un gioco. E chi crede che lo sia, di rado fa una bella fine.

Tutto questo servirebbe almeno a scrivere una interessante pagina di storia del folklore se non fosse che, per sventura o per fortuna, il Necronomicon è (era) uno pseudobiblium. Fu nominato (nominato, non scritto) per la prima volta dallo scrittore horror H.P. Lovecraft nel racconto del 1922 The Hound.

L’idea dovette piacergli, perché sarebbe poi tornato più volte negli anni successivi a parlare di questo terribile grimorio[slider title=’2′]2 Un grimorio è un testo di magia che contiene piccoli incantesimi, utili avvertimenti, grandi evocazioni e quant’altro: una specie di Artusi per occultisti.[/slider], giungendo addirittura (orrore!) a citarne dei pezzi.

Il Necronomicon non esiste, dunque.

Eppure…

…eppure il Necronomicon esiste. E non di un’esistenza solo intellettuale, costruita da un gioco di rimandi intertestuali: esiste il Necronomicon come testo, prodotto, libro a sé stante, come insieme materiale di lettere, carta e inchiostro. Viene stampato, venduto, comprato e usato in tutto il mondo.

E non ne esiste neppure una versione soltanto. Come per tutti i classici, sono in giro parecchie diverse versioni, e stabilire quale sia l’originale è duro.

Anche perché, in questo caso, l’originale non esiste.

 

Della Vita e le Opere di un Artista Solitario

H. P. Lovecraft nacque il 20 Agosto 1890 a Providence, Rhode Island, in una di quelle famiglie borghesi in cui cominciano le biografie di tanti scrittori. Tranne che per un breve soggiorno a New York, passò praticamente tutta la vita nel paese natìo, senza uscire granché di casa e senza fare niente di notevole se non scrivere.

Ai viaggi del corpo Lovecraft preferiva di gran lunga quelli della mente. Solitario, insoddisfatto di sé e della vita, intratteneva con l’esterno rapporti soprattutto epistolari: molti suoi amici erano amici di penna, e fu attivo in alcune mailing list pre-informatiche come il Transatlantic Circulator, un gruppo di amici che si scambiavano per posta articoli, racconti e commenti. Non che fosse un tipo particolarmente cupo, anzi, dal suo epistolario e da parecchie testimonianze emerge un carattere non privo di humour. Semplicemente, era timido e insicuro, oltre che geniale. Oggi qualcuno lo definirebbe un nerd.

Vissuto a cavallo tra due secoli, Lovecraft ebbe la sventura di incarnarne molte contraddizioni, cosa che rese formidabile la sua scrittura e tremenda la sua vita privata. Convinto materialista, avvertiva la nostalgia di un tempo in cui l’uomo non riduceva il suo sapere a misurazioni esatte, ma era in grado di sognare un potere sul Cosmo molto più sostanziale.  In un suo saggio afferma:

[…] uno dei miei più forti e durevoli desideri è di ottenere, temporaneamente, l’illusione di una misteriosa sospensione o violazione degli irritanti limiti di tempo, spazio e leggi naturali che da sempre ci imprigionano, frustrando la nostra curiosità riguardo gli infiniti spazi cosmici al di là del campo di ciò che possiamo vedere e analizzare[slider title=’3′]3 Howard Phillips Lovecraft, “Note su come scrivere racconti fantastici”, in Idem, Teoria dell’Orrore. Tutti gli scritti critici, Roma, Castelvecchi, 2001, p. 120.[/slider].

Lovecraft viveva insomma una profonda spaccatura tra la sua concezione della realtà, basata su un nuovo materialismo, e il suo immaginario, impregnato di mitologia e letteratura fantastica. Aveva fatto le prime, disordinate, letture, nell’ampia biblioteca del nonno materno, un gentiluomo ottocentesco che amava raccogliere tanto testi scientifici quanto repertori folkloristici.

Lovecraft si poneva come una sorta di gnostico industriale: il mondo è un posto spaventoso, non perché l’abbia creato un Demiurgo malvagio, ma perché non l’ha creato proprio nessuno. Tutto quel che esiste è carne, e la carne, si sa, va a male in fretta. Di questo Lovecraft era convinto.

D’altro canto c’era in lui una seconda tendenza, altrettanto forte, che lo portava a desiderare, se non a sentire l’esistenza di, qualcosa in più. Ecco cosa scriveva in una lettera:

 Quando avevo circa sette o otto anni, ero un genuino pagano, così intossicato dalla bellezza della Grecia che avevo acquisito una fede quasi sincera nei vecchi dèi e negli spiriti della natura. Ho costruito, letteralmente, altari a Pan, Apollo, Diana e Atena, e ho cercato driadi e fate nelle foreste e nei campi al tramonto. Una volta ho davvero creduto di scorgere un qualche tipo di creatura silvana che danzava sotto le querce autunnali; una sorta di ‘esperienza religiosa’ vera a suo modo quanto le estasi soggettive di un cristiano […] io ero, e ancora sono, pagano nel cuore[slider title=’4′]4 Cit. in Daniel Harms, John Wisdom Gonce III, The Necronomicon Files. The truth behind the legend, Boston, Weiser Books, 2003, p. 91.[/slider].

 Lovecraft non ebbe mai più esperienze del genere, se non in sogno. Da adulto viveva il suo « paganesimo » come una posizione estetica e non religiosa, una in cui non c’era spazio per anime immortali e divinità, se non come nostalgia di illusioni ormai perse.

Questa contraddizione è una prima chiave di lettura per comprendere l’enorme successo postumo che porterà la nascita del Necronomicon. Una simile contraddizione tra, da una parte, un desiderio pagano di totalità, e dall’altra il cosmo cieco ed estraneo del pensiero scientifico, ha percorso buona parte della cultura occidentale novecentesca.

L’industria culturale, il sistema che ai nostri tempi produce libri e giochi e mitologie, è cresciuta proprio su questa contraddizione. Laddove le vecchie certezze delle religioni tradizionali sono state messe in crisi, la cultura di massa ha creato quella che il sociologo Edgar Morin definisce senza mezzi termini « una religione della salvezza terrena ». Una religione che ha tuttavia un grave limite: « I valori individuali che essa esalta – amore, felicità, compimento di sé – sono precari e caduchi; l’individuo terrestre e mortale, fondamento della cultura di massa, è a sua volta quanto di più precario e di più caduco possa esserci »[slider title=’5′]5 Edgar Morin, Lo spirito dei tempi, Roma, Meltemi, 2002, p. 206.[/slider].

Non una religione che promette l’immortalità, dunque, ma una religione che deve fare giorno dopo giorno i conti con la morte. In una fase in cui i meccanismi dell’industria culturale si stavano ancora mettendo in moto, Lovecraft ne aveva già individuato i gangli nervosi e li aveva esplorati con una consapevolezza che pochi autori successivi, anche più rinomati e studiati, hanno espresso.

Non finisce qui. C’era una seconda, dolorosa contraddizione in Lovecraft, legata alla sua percezione di se stesso in quanto intellettuale. Nel suo disgusto per il mondo moderno, nella prosa arcaizzante e in molte osservazioni, incarnava la figura di un decadente un po’ in ritardo, capace di scrivere: « È una crudele verità, peraltro, che nessuna storia di questo tipo, dotata di autentiche qualità artistiche, scritta con onestà, sincerità e anticonformismo, potrà mai avere serie chance di essere accettata da editori professionisti dello squallido giro dei pulp »[slider title=’6′]6 H. P. Lovecraft, “Alcuni appunti sulla letteratura interplanetaria”, in Idem, Teoria dell’orrore, cit., p. 137.[/slider].

Eppure era proprio lo squallido giro dei pulp a dar da mangiare (e neanche tanto) a Lovecraft, che sopravviveva vendendo racconti alla rivista « Weird Tales » e revisionando, o riscrivendo, i racconti di altri autori.

Lovecraft lavorava nell’industria come aveva fatto Edgar Allan Poe, uno dei suoi autori preferiti, e anche lui come il suo idolo ne venne schiacciato[slider title=’7′]7 Ai giorni nostri Edgar Allan Poe è riuscito a entrare nei ‘circoli bene’, dopo essere morto solo e senza un soldo. Lovecraft è morto di cancro (e senza un soldo), ma nonostante questo i circoli lo tengono ancora fuori in giardino. Tutto ciò va a onore di uno dei due.[/slider]. Per tutta la vita sentì quasi come una vergogna il dover sguazzare nel fango del pulp, anche se molti amici e scrittori che stimava, come Algernon Blackwood e Robert Ervin Howard, si aggiravano nelle stesse paludi.

Il suo rifiuto per la letteratura di consumo era almeno in parte una posa: quando « Weird Tales » gli rifiutò il racconto At the Mountains of Madness (1931), sprofondò in uno dei periodi di depressione che costellarono la sua breve vita, dimostrando di non tenere poi in così poco conto il parere degli editori pulp.

Lovecraft fu in grado di comprendere e anticipare molti elementi della nascente industria culturale, a volte in modo totalmente istintivo, altre con una formidabile cognizione di causa. In un periodo in cui si andava ancora formando il sistema dei generi letterari, lui aveva già iniziato a lavorare alla loro fusione. Creò un nuovo tipo di sensazione orrorifica, il cosiddetto « orrore cosmico », in cui scrittori e sceneggiatori di oggi continuano a pescare senza ritegno. E fu in grado di intuire, se non di comprendere coscientemente, la strada neo-animista che avrebbe preso di lì a poco un certo tipo di pensiero scientifico.

La scienza nelle sue punte più esoteriche, come gli studi del cosmo profondo, della psiche, o delle geometrie non euclidee, sembra non differire poi tanto dalla magia. Allo stesso modo la narrativa del geniale nerd, partita da una base più o meno riconducibile al gotico, divenne col tempo una sorta di oscura fantascienza. I demoni e gli dèi che popolano i suoi racconti sono extraterrestri, o creature che hanno popolato la Terra in un lontano passato, ma questo non li rende meno terrificanti di un diavolo. Se il potere di una strega manipola geometrie piuttosto che indefinite forze magiche, lo stesso funziona, e spaventa.

Di tutte queste considerazioni, queste paure e questi meccanismi sociali il Necronomicon si è nutrito, atroce parassita in attesa di diventare abbastanza forte da uscire allo scoperto.

 

Della Nascita Moderna di Un Classico Antico

L’« arabo pazzo » Abdul Alhazred, autore dell’aborrito Necronomicon, fa la sua prima comparsa nel 1921, in un racconto significativamente intitolato The Nameless City. È un punto di svolta per la produzione di Lovecraft, che inizierà d’ora in poi ad abbandonare i classici tòpoi del gotico, preferendo dar vita a una nuova, oscura, mitologia cosmica.

Il nome del racconto è significativo perché per comprendere l’industria culturale e il sistema dei generi, all’interno del quale il Necronomicon ha preso vita, bisogna tener conto dello sviluppo delle metropoli. Nelle grandi città le strutture sociali e le forme artistiche sono bruciate e riprodotte con aspetti sempre nuovi, in un’ininterrotta opera alchemica. Non è casuale che uno pseudo-grimorio meno famoso del Necronomicon, Megapolisomancy: a new science of cities (inventato da Fritz Leiber nel romanzo Our Lady of Darkness) fondi la sua efficacia su un nuovo tipo di magia, una teurgia metropolitana che invoca i poteri della città e dei suoi edifici.

Anche Lovecraft fece esperienza della metropoli, in un soggiorno di due anni a New York. Abituato com’era ad esser coccolato in un piccolo paese silenzioso e tranquillo, la città fu per lui un’esperienza talmente atroce da spingerlo, dopo esser tornato a Providence, a trasfigurarla narrativamente nella terribile R’lyeh, sede dell’oscuro dio Cthulhu.

Il nome dell’arabo pazzo Abdul Alhazred è del tutto inventato. In una lettera Lovecraft scrive che l’avrebbe immaginato all’età di cinque anni, periodo in cui si era innamorato delle storie de Le mille e una notte.

Nel 1922 è la volta della première del Necronomicon, attribuito ad Abdul Alhazred nel racconto The Hound. Il grimorio non svolge un ruolo centrale; è solo citato di sfuggita per legittimare la funzione dell’amuleto al centro della storia. I toni del racconto, macabri e a tratti spiccatamente necrofili, lo inseriscono subito nel brodo di coltura che lo porterà a nascere.

A partire da The Festival, del 1923, Lovecraft si diverte a mescolare ulteriormente le carte. Inserisce infatti le sempre più frequenti citazioni del Necronomicon in contesti in cui appaiono reali libri di magia. A questi aggiunge, oltre al Necronomicon, altri pseudobiblia inventati da lui (come i manoscritti pnakotici), da autori suoi amici (come gli Unaussprechlichen Kulten, creazione di Robert Howard), e libri il cui statuto di esistenza è ancor più ambiguo, come Le Stanze di Dzyan[slider title=’8′]8 Testo fondamentale per la Società Teosofica, Le Stanze di Dzyan non è mai esistito, ma ne esiste una lunga esegesi: La dottrina segreta, scritta da Helena Petrovna Blavatskij. Per essere precisi, lei ha sempre affermato di non aver scritto di persona La dottrina segreta, ma di esser stata un semplice canale per intelligenze misteriose.[/slider]. Il Necronomicon è il peggiore di tutti: permette di entrare in comunicazione con i Grandi Antichi, le divinità aliene che un tempo governavano la Terra, e che prima o poi ne riprenderanno il possesso.

Ma se Lovecraft cita pseudobiblia altrui, gli altri autori gli ricambiano il favore, iniziando a inserire il Necronomicon nelle proprie mitologie. È un importante punto di svolta per il processo che porterà alla nascita del ‘reale’ Necronomicon. Mentre altri pseudobiblia smetteranno ben presto di esser nominati, il Necronomicon raggiunge in fretta una massa critica di citazioni sufficiente a farlo sopravvivere fino ad oggi. Tra quelli che ne hanno parlato ci sono classici come Clark Ashton Smith, amico di vecchia data di Lovecraft, Ramsey Campbell, Stephen King. Ovviamente non è possibile dimenticare il ciclo cinematografico Evil Dead, di Sam Raimi, che sul Necronomicon è interamente incentrato[slider title=’9′]9 Tra l’altro Raimi, nel terzo film del ciclo (Army of Darkness, 1993), unì il Necronomicon ad un’oscura formula magica: « Klaatu, barada, nikto », che altro non è che un ordine in linguaggio alieno citato nel classico film di fantascienza The Day the Earth Stood Still (1951). In questo modo Raimi cortocircuitò in modo raffinato l’immaginario fantastico e fantascientifico di tre generazioni.[/slider]. Dal 1981 poi il gioco di ruolo Il Richiamo di Cthulhu ha permesso a migliaia di persone in tutto il mondo di calarsi nell’universo di Lovecraft, andando a caccia di Necronomicon vari e mettendo a rischio, tra un pacco di patatine e un bicchiere di Coca, la sanità mentale dei loro personaggi.

Nel 1927 Lovecraft scrisse la ‘vera storia’ del Necronomicon, in una lettera indirizzata a Clark Ashton Smith. Scopriamo così che il nome originale del grimorio sarebbe Al Azif (una parola che a quanto pare gli arabi usano per i rumori notturni attribuiti a demoni). Esso risalirebbe a un periodo tra il 700 e il 738 d.C., ma la sapienza che contiene sarebbe indefinibilmente più antica. Sarebbe stato chiamato Necronomicon (parola che dovrebbe significare, più o meno, « Libro delle leggi che governano i morti ») nel 950 d.C. da Teodoro Fileta di Costantinopoli, che lo tradusse in greco, ovviamente in gran segreto. Non abbiamo un’idea precisa di quante copie ne siano rimaste: di sicuro ve ne sono una al British Museum e un’altra nella Bibliothèque Nationale di Parigi. Il famoso mago (realmente esistito, e realmente famoso) John Dee[slider title=’10’]10 Nacque nel 1527 e morì nel 1608. Ebbe una vita travagliata e avventurosa.[/slider]avrebbe tradotto il Necronomicon in inglese, ma della sua versione sarebbero rimasti soltanto frammenti.

Lovecraft scrisse la storia in tono serissimo, ma non voleva farla passare per vera. Il realismo con cui ne ricostruì le vicende era un cardine della sua poetica. Lovecraft era convinto che il racconto fantastico, per stupire e spaventare il lettore, deve prima di tutto riuscire ad evocare un’atmosfera credibile. Per dirla con le sue parole:

Non è possibile, come accade nell’infantile e ciarlatanesca narrativa dei pulp, presentare un resoconto di fenomeni impossibili, improbabili o inverosimili, come se si trattasse di una banale narrazione di azioni oggettive e sentimenti convenzionali. Eventi e situazioni inconcepibili debbono superare un particolare svantaggio, ed è possibile farlo soltanto mantenendo un accurato realismo in ogni fase del racconto salvo per ciò che concerne il fatto meraviglioso di cui tratta[slider title=’11’]11 H. P. Lovecraft, Note su come scrivere racconti fantastici, cit., p. 123.[/slider].

Ecco perché il Necronomicon andava citato assieme ad altri testi già famosi: se fosse stato nominato da solo sarebbe sembrato soltanto la barocca invenzione di uno scrittore pulp.

Attorno all’aborrito grimorio Lovecraft costruì negli anni la sua mitologia. Si tratta di un universo molto complesso, assediato da forze oscure che si agitano continuamente ai margini della realtà condivisa, in cui agli esseri umani è lasciata soltanto la scelta tra morte e pazzia. Come un velo di Maya, quello che crediamo essere un mondo stabile nasconde una storia segreta fatta di energie arcane e creature mostruose, che vogliono tornare in scena per rubare il posto dell’uomo.

Lovecraft continuò a giocare con il Necronomicon fino alla morte, avvenuta nel 1937 per un cancro all’intestino. Le citazioni dell’aborrito grimorio si moltiplicarono anche grazie al suo lavoro di revisore di racconti altrui: Lovecraft lo nominava ogni volta che poteva, col risultato di far aumentare le citazioni del libro non direttamente attribuibili a lui, accrescendone l’effetto di realtà.

Con la morte del suo creatore il Necronomicon sarebbe dovuto cadere nell’oblio. Come poteva sopravvivere al padre un figlio che non era mai neppure nato, che non aveva neppure corpo, soltanto un nome?

Invece, fu allora che la storia iniziò a farsi interessante.

 

Del Modo in Cui l’Immaginario si Fece Carta

Lovecraft non ebbe mai intenzione di scrivere un vero Necronomicon. La sua estetica dell’orrore cosmico era basata su pochi, solidi, principi. Il più importante si riassume in poche parole: niente fa più paura dell’ignoto. Come scrisse in uno dei suoi racconti: « Scoprì che accendere la torcia lo aiutava un poco; per quanto spaventose fossero le statue, non c’era paragone con ciò che la sua immaginazione evocava al buio »[slider title=’12’]12 H.P. Lovecraft, Hazel Heald, L’orrore nel museo, in H. P. Lovecraft, Tutti i racconti. Vol. 4: 1931/1936, Milano, Mondadori, 1992, p. 440.[/slider]. Il terribile Necronomicon gli serviva per spaventare i lettori, facendo loro intuire quanti abominii esso contenesse: ma nessun incantesimo scritto realmente avrebbe potuto essere depravato quanto quelli che i lettori immaginavano. Lovecraft giudicava piuttosto noiosi i grimori reali. A un corrispondente che gli chiedeva se avrebbe mai scritto il Necronomicon, rispose che « Non è possibile in nessun modo produrre una cosa che sia terribile e impressionante quanto una cui ci si limita ad accennare con orrore »[slider title=’13’]13 Cit. in D. Harms e J. W. Gonce III, op. cit., p. 22.[/slider].

Ad ogni modo la fame di aborriti grimori tra i lettori cresceva, e la morte di Lovecraft non la placò: dal loro punto di vista lui non aveva inventato il Necronomicon, lo aveva soltanto citato.

C’era una confusione a volte ingenua, a volte voluta e ricercata, tra narrativa e vita. È una vecchia caratteristica del pensiero magico: dopotutto la magia nasce dalla mitologia, e il mito altro non è che un racconto.

In breve tempo l’editore di Lovecraft, August Derleth, si trovò nella strana situazione di esser costretto a ripetere all’infinito che no, il Necronomicon non esisteva, e che né lui né Lovecraft ne avevano mai posseduta una copia.

Fu inutile. Occultisti e appassionati guardavano con sospetto alle affermazioni di Derleth. Visto che il Necronomicon era un libro raro e pericolosissimo era ovvio che lui ne negasse l’esistenza. Ma proprio il fatto che la negasse con tanta forza poteva dimostrare che esisteva, e che Lovecraft aveva avuto realmente frequentazioni occulte.

Se oggi l’idea che uno scrittore di letteratura fantastica sia ipso facto un occultista ci pare ingenua, non era così negli anni Trenta. Anche perché vari autori erano davvero degli occultisti, a volte affiliati a quel grande movimento magico-esoterico che fu lo Hermetic Order of the Golden Dawn. Ne fecero parte artisti amatissimi da Lovecraft e all’epoca molto conosciuti, come Algernon Blackwood e Arthur Machen, ma anche nomi oggi più famosi come Bram Stoker, William Butler Yeats e il mago Aleister Crowley. In tale contesto il materialismo di Lovecraft non poteva forse essere una posa assunta per nascondere un’affiliazione segreta? Nella vecchia casa di Providence lo scrittore non poteva forse nascondere tomi carichi di saperi proibiti?

La fiction era diventata leggenda.

Sarebbe bastato un colpetto perché la leggenda diventasse realtà.

Negli anni ’30, senza che Lovecraft lo sapesse, un suo corrispondente pubblicò su un giornale del Connecticut la recensione di una fantomatica traduzione inglese del Necronomicon. Siamo ancora nel campo dello scherzo, una piccola goliardata di provincia. Un caso, tra l’altro, piuttosto isolato.

Nel dopoguerra gli scherzi aumentarono. Nel 1945 una libreria di New York fece richiesta del Necronomicon sul Publishers’ Weekly. Dell’anno successivo è un episodio più famoso: un altro libraio newyorkese, Philip Duschnes, mise in vendita una copia del Necronomicon per 375 dollari. Cifra alta, soprattutto all’epoca, ma tutto sommato accettabile – se un aspirante occultista pazzo non è disposto a spendere neanche 375 dollari per evocare divinità cieche e colossali, beh, forse ha sbagliato lavoro.

A questo punto era già all’opera un effetto valanga: citazioni e scherzi iniziarono a sommarsi, fino a quando non appensantiranno il Necronomicon tanto da farlo cadere dall’empireo dell’Immaginario al mondo di fango della Realtà consensuale. Un famosissimo illustratore francese, Philippe Druillet (indimenticabile protagonista della rivista « Métal Hurlant »), dichiarò di aver trovato e « riprodotto » alcune illustrazioni di Alhazred. Nelle biblioteche delle università americane spuntarono schede con i dati dell’aborrito grimorio, che evidentemente era meno raro di quanto si dicesse.

Finalmente, nel 1973, ci fu quella che probabilmente è la prima incarnazione vera e propria. Lyon Sprague de Camp, scrittore di genere noto agli appassionati, dichiarò di aver recuperato in Iraq un manoscritto in linguaggio « Duriaco », intitolato Al Azif. Si trattava, in sostanza, di scarabocchi su carta preceduti dal racconto delle peripezie che de Camp aveva vissuto per impadronirsi del libro, e dei pericoli che la lettura comportava (per esempio tre arabi erano scomparsi mentre lo trascrivevano, perché per sbaglio avevano pronunciato ad alta voce un’invocazione alla divinità Yog Sothoth). L’edizione a tiratura limitata dell’Al Azif, in 348 copie, andò a ruba – ma va detto che il tono dell’operazione era tanto sopra le righe da essere chiaramente ironico, e sia l’editore che l’autore dissero in modo esplicito, a chi si ponesse comunque il dubbio, che stavano soltanto scherzando. Uno studente li avvisò che stava preparando una tesi di laurea in cui dimostrava l’autenticità del manoscritto. L’editore provò a convincerlo che era un falso, e quando non ci riuscì, avvisò direttamente il relatore. Non sappiamo come la storia sia andata a finire, ma di certo ci fu per qualche tempo in giro uno studente più nervoso del solito.

A quel punto il vaso di Pandora era aperto; ne uscirono moltissimi Necronomicon.

Il più importante fu curato da un certo Simon, e vide la luce nel 1977, grazie a una casa editrice collegata a un notissimo negozio di magia di New York, il Magickal Childe. Ne parlerò tra breve: per ora basti dire che Simon non scherzava affatto. Nel 1978 invece fu la volta del Necronomicon di George Hay, Colin Wilson e Robert Turner, i quali riproducevano frammenti di una versione cifrata del grimorio, tradotta grazie a un supercomputer. La versione era quella di John Dee, cui Lovecraft accenna. L’associare Dee a un linguaggio in cifra fu un’idea, se non geniale, certamente molto efficace. Il mago cinquecentesco affermava che le creature angeliche con cui era in contatto parlavano il linguaggio « enochiano », che fu uno dei fondamenti su cui MacGregor Mathers basò la dottrina della Golden Dawn… tout se tient, verrebbe da dire.

I testi del libro, poi, sono dei capolavori di retorica. Mescolano l’indispensabile dose di iniziale scetticismo con un affascinante ‘tecno bla-bla’ informatico: il computer, bacchetta magica moderna, ci svela magie ancestrali. Wilson non si esime dal citare nella sua introduzione la Golden Dawn, la massoneria (attraverso la quale il libro sarebbe giunto al padre di Lovecraft, e poi a Lovecraft stesso), l’ufologia, Aleister Crowley e quant’altro. Il meglio viene raggiunto nel momento in cui uno dei sedicenti « collaboratori » del terzetto, il dr. Stanislaus Hinterstoisser, rivela che Lovecraft avrebbe ricevuto il Necronomicon dal padre Winfield, che sarebbe stato un massone, al quale sarebbe arrivato da… gli Illuminati!

L’operazione di Hay e soci è dubbia: ci sono elementi evidentemente scherzosi, e Wilson stesso ha ammesso che si trattava di una hoax, ma nelle varie edizioni del libro la natura di scherzo è sempre rimasta vaga, ed è comprensibile come un lettore poco accorto possa caderci in pieno.

Nel frattempo anche in Italia spuntavano funghi necronomiconeschi. Nel 1979 venne tradotto e pubblicato dalla Fanucci il Necronomicon di George Hay, e nel 1994 ne uscì un ‘sequel’ (si, anche gli aborriti grimori hanno dei sequel) basato sulle fantomatiche « tavolette di Kutu » ritrovate in una ziggurat rovesciata in Iraq. Date le premesse, la natura scherzosa è evidente. O no? Uno dei due autori dello scherzo ricorda così la presentazione organizzata in una Feltrinelli di Salerno:

Quella presentazione fu un vero successo: i contenuti del libro, le scoperte archeologiche, le tavolette di Kutu, il coinvolgimento dell’Università di Salerno negli scavi di Kut al’ –Amara, furono credute assolutamente vere… Alcuni giornalisti presenti nella sala gremita, corrispondenti locali di prestigiose testate nazionali, nei giorni successivi riportarono come vera la notizia dei ritrovamenti delle famigerate Tavolette di Kutu…[slider title=’14’]14 Sergio Basile (a cura di), Necronomicon. Storia di un libro che non c’è, Roma, Fanucci, 2002, p. 95[/slider]

Il fatto che questi giornalisti « prestigiosi » non si siano neppure preoccupati di alzare il telefono per contattare l’Università e controllare la notizia dovrebbe darci da pensare sui meccanismi con cui viene costruita la realtà consensuale, il mondo del buon senso in cui troppo spesso ci addormentiamo beati.

Ci sono stati anche altri Necronomicon italiani. Uno è un’operazione divertente portata avanti da tale Pietro Pizzari. Il libro è uscito nel 1993 per l’editore Atanòr, che di solito pubblica libri di esoterismo reale. Pizzari dichiara di aver trovato una traduzione greca del Necronomicon sepolta negli archivi della Biblioteca Vaticana, e di aver fatto un’altra scoperta sensazionale: l’autore, Abdul al Azraq (e non Alhazred) era un… italiano! Per la precisione un pisano del VII secolo, il cui vero nome è sconosciuto. A un certo punto fu rapito dagli arabi, riuscì a integrarsi nella loro società e fu iniziato ai misteri dell’Al Azif. Un lettore attento noterà che il fantomatico traduttore greco, Teofilatto, si definisce πισσάριος, parola il cui suono ricorda stranamente Pizzarri.

Il Necronomicon della Atanòr è uno scherzo ben congegnato, ma non c’è dubbio che in molti lo prendano sul serio: è possibile trovarlo sugli scaffali delle librerie esoteriche, e mi è capitato di parlare con occultisti in erba entusiasti di poter leggere ‘finalmente’ il Necronomicon, tenuto nascosto finora dal Vaticano.

Molto più seria, e involontariamente molto più comica, è la versione del Necronomicon pubblicata nel 1986 dalla Hermes Edizioni a firma di Frank Ripel. Il titolo non lascia adito a dubbi: La magia stellare. Il vero Necronomicon. Dietro il nome di Ripel si cela il triestino Gianfranco Perilli, un occultista che afferma di essere la reincarnazione di Aleister Crowley (è uno dei tanti pretendenti al trono) nonché l’Anticristo, i cui libri pare fossero apprezzati da (proprio lui) Licio Gelli e che si è variamente dedicato ad attività di guru e guaritore a distanza.

La vicenda necronomiconesca ha assunto un ulteriore tocco di surrealtà quando è entrata in campo la giustizia civile. Nel 2000 un lettore ha acquistato il Necronomicon Fanucci. Poi si è reso conto che quel che aveva in mano non era il vero Necronomicon e, deluso, ha fatto causa all’editore. Vincendola. Il provvedimento n. 9993 del Garante della concorrenza e del mercato (« Bollettino ufficiale dell’Authority », n. 39, 15 ottobre 2001) stabilisce:

H. P. Lovecraft non ha mai scritto un libro intitolato “Necronomicon” […], in realtà, il citato libro è un’invenzione di Lovercraft. Al riguardo, ciò che emerge dalla documentazione acquisita agli atti è che il noto scrittore ha ripetutamente inserito nei propri scritti dei riferimenti al libro immaginario “Necronomicon” e ad altri libri dell’occulto effettivamente esistiti, con il fine di creare uno sfondo letterario ai propri racconti che risultasse caratterizzato da una maggiore verosimiglianza[slider title=’15’]15 Provvedimento disponibile in rete all’indirizzo http://www.cittadinolex.kataweb.it/article_view.jsp?idCat=78&idArt=2129.[/slider].

La storia sembra risolta una volta per tutte, con tanto di carte bollate a dimostrarlo. Il Necronomicon non esiste né è mai esistito: il fatto che qualcuno scriva un libro e lo chiami Necronomicon non significa che quello sia il vero Necronomicon.

Ma lo abbiamo già detto: il Necronomicon è un libro, e nessun libro può essere ‘falso’. Se io scrivessi un libro e lo chiamassi Necronomicon, quello sarebbe un vero Necronomicon. Scritto non da un arabo del tutto pazzo, ma da un italiano che sta così così, ma comunque, un Necronomicon. Nei libri pubblicati da Fanucci era presente un forte humour, e la sentenza è un trionfo della burocratica piattezza che affligge la nostra cultura.

C’è però chi non scherza affatto. 

 

Del Necronomicon di Simon

Tra i vari Necronomicon in circolazione quello di Simon merita un’attenzione particolare, per due motivi. Innanzitutto, è uno dei pochi ad avere serie pretese di autenticità. In secondo luogo è quello che ha maggior seguito nella comunità degli occultisti reali, e ha anche di gran lunga il maggior successo commerciale.

Non si sa chi sia davvero « Simon ». Alcuni ipotizzano si trattasse del defunto Herman Slater, il proprietario del Magickal Childe. Altri ancora pensano a Timothy Leary, o a Robert Anton Wilson, o a William Burroughs, ma nessuna di queste ipotesi è particolarmente convincente. John Wisdom Gonce, occultista e autore assieme all’antropologo Daniel Harms del miglior libro sull’argomento[slider title=’16’]16 D. Harms, J. W. Gonce, The Necronomicon Files, cit. È possibile che quelle di Harms e Gonce siano a loro volta identità false, e i coloriti dettagli delle loro biografie lo lasciano sospettare. Resta la loro competenza in materia, che è notevole.[/slider], dopo varie ricerche si è convinto che probabilmente non esista ‘un’ Simon, ma un team che si nasconde dietro uno pseudonimo: Wu Ming in salsa metafisica, insomma.

Ad ogni modo le storie che Simon racconta sul ritrovamento del libro sono spettacolari. Nell’introduzione al suo Necronomicon afferma che il testo gli è stato dato da un monaco, che lui conosceva grazie alla sua attività di traduttore e spia. Nel sequel, chiamato Necronomicon spellbook, Simon racconta invece che il libro era stato trafugato da due monaci ladri, che lo consegnarono poi a un vescovo famoso nel « giro », ovviamente sempre Simon, che a quanto pare era un tipo instancabile. Il libro è un pot-pourri di racconti, incantesimi e rituali, che mescola mitologie lovecraftiane e sumere. La parte principale illustra « l’Attraversamento dei Portali », una serie di rituali che in teoria portano il mago in vari luoghi del piano astrale, rendendolo via via più potente. E qui iniziano i guai. Il Necronomicon di Simon è inaccurato a molti livelli. Per esempio attribuisce a Lovecraft il Testo di R’Lyeh, che invece fu nominato da August Derleth. Gonce nota poi che la parte sulla cosiddetta magia sumera non ha nulla a che vedere con la magia sumera storica. Insomma, un disastro filologico.

Eppure, secondo alcuni, un disastro che funziona.

Funziona male, però. Occultisti che hanno provato l’Attraversamento dei Portali, rivelano Gonce e Harms, hanno lamentato l’apparizione di mal di testa, incubi, e strane sensazioni in pieno giorno. Potrebbe esserci una spiegazione psicologica: la sola idea di stringere tra le mani il ‘vero’ Necronomicon e praticarne i riti è sufficiente a impressionare la mente abbastanza da farle credere un po’ a tutto. Questo direbbe un positivista. Gonce è di altro avviso.

In effetti a un occhio esperto i rituali dell’Attraversamento dei Portali sembrano « sbagliati » ma non certo messi lì a caso. Ad esempio Simon non ricorda mai al praticante che occorre aprire un cerchio protettivo prima di ogni rito, né spiega come farlo. E tutti gli occultisti sanno quanto importanti siano i cerchi – fare un rituale senza tracciarne uno è un po’ come partecipare a un gran premio di motociclismo in maglietta, sandali e senza casco. Gonce ipotizza che il Necronomicon di Simon sia una specie di trappola magica fatta per condurre il povero wannabe mago in un eggregore creato da qualcuno.

La qual cosa, per i più, non significa assolutamente niente.

Un eggregore è una forma-pensiero che ha assunto, sul piano astrale, una propria realtà. Se preferiamo, un frammento di immaginario che è diventato autonomo: sembra una descrizione perfetta per il Necronomicon. In magia si crede che la mente umana, sufficientemente disciplinata e magari indirizzata con dei rituali, sia in grado di creare queste forme-pensiero, che possono essere luoghi, entità o altro. Esse non esistono sul piano fisico, ma solo su quello ‘astrale’, una sorta di mondo metafisico che è collegato a quello della carne e che interagisce di continuo con esso.

A questo punto il cerchio, non magico ma non per questo meno strano, è completo. Non solo esiste un vero Necronomicon, ma è anche (almeno per chi crede nella magia) realmente aborrito e pericoloso: un frammento di immaginario è piombato come un meteorite sul nostro mondo, un eggregore si è incarnato.

L’Al Azif non è più un libro immaginario, non più di quanto lo sia la Divina Commedia.

Chiunque voglia mettere a rischio la propria sanità mentale può farlo comodamente da casa, ordinandolo o perfino scaricandone una versione pirata da Internet.

E non finisce qui.

 

Di Satanisti Lovecraftiani

 Il Necronomicon non è la sola fonte di magia ispirata a Lovecraft – ne esiste molta anche al di fuori dell’orrido testo. I primi rituali lovecraftiani pubblicati videro la luce a nome del famigerato Anton Szandor LaVey. Nato a Chicago ma trasferitosi presto in California, LaVey crebbe nutrendosi avidamente di letteratura pulp, fumetti (il suo personaggio preferito era Ming, il cattivissimo nemico di Flash Gordon) e testi di occultismo. La California di quegli anni era un ribollire di magia à la page in cui molti consideravano Crowley un’icona controculturale. In un ambiente del genere non era poi tanto strano che un tipo come LaVey, che tra gli altri lavori aveva fatto quello dell’« investigatore psichico », comprasse una casa vittoriana a San Francisco e la dipingesse interamente di nero. Per alcuni anni casa LaVey fu un salotto molto chic, una specie di concentrato di Greenwich Village, in cui si riunivano personaggi più o meno vicini al mondo del fantastico letterario e della magia, come Fritz Leiber o il mitico Forrest J. Ackerman.

In pochi anni LaVey elaborò una dottrina basata sull’individualismo, la ricerca della felicità personale e teatralità a vagoni. Satana era la principale autorità del nuovo gruppo, che si costituì quasi immediatamente come religione. Più che un demone reale, Satana era un simbolo di tutto quello che la morale corrente rifiutava: la posizione di fondo di LaVey era di sostanziale ateismo.

Satana ha costituito da sempre un referente importante per coloro che si oppongono alla cultura mainstream: Carducci, Baudelaire, i simbolisti della Russia pre-rivoluzionaria e molti altri artisti sono accomunati dall’aver utilizzato il simbolismo satanico come fonte di ispirazione per racconti, pièces teatrali e opere musicali. La Chiesa di Satana si inseriva su un lungo solco, ed era più simile al gioco teatrale, per quanto pesante ed estremo, che al perverso culto che è stata spesso accusata di essere.

Nel 1969 LaVey pubblicò The Satanic Bible, il testo che sarebbe stato la Bibbia del nuovo movimento. I benpensanti si scandalizzarono, coloro che erano alla ricerca di emozioni forti provarono un piacevole brivido, molti intellettuali si divertirono[slider title=’17’]17 Ecco un’episodio che dà un’idea dell’aria che si respirava: nel 1967 il giornalista radicale John Raymond sposò Judith Case con una cerimonia officiata, nel nome di Satana, da LaVey in persona. La notizia fece scalpore: la « casa nera » fu presa d’assalto da mass media e semplici curiosi, tanto che la polizia fu costretta a isolare l’area attorno ad essa. Tutti i principali giornali dedicarono uno spazio all’avvenimento.[/slider]. Quel che più conta, la neonata Chiesa vide giungere un buon numero di nuovi affiliati assetati di arti nere. In The Satanic Bible LaVey cita il Necronomicon, affermando tra l’altro che il Trapezoedro Lucente di cui il grimorio dovrebbe parlare (preso da un tardo racconto di Lovecraft) fosse in realtà la pietra simile a cristallo che John Dee utilizzava in alcuni suoi riti. Tra The Satanic Bible e il suo seguito, The Satanic Rituals, LaVey torna più volte sul Necronomicon, citandone anche lui alcuni frammenti.

Ma questi erano solo i primi fuochi. La vera magia lovecraftiana sarebbe esplosa da lì a poco.

 

Delle Ipotesi Audaci di Un Occultista Contemporaneo

Nel 1972 venne dato alle stampe Il risveglio della magia di Kenneth Grant. Allievo di Aleister Crowley, Grant ha sviluppato in questo ed altri libri un sistema magico complesso che sintetizza una gran quantità di diverse tradizioni esoteriche, psicoanalisi compresa. Fu lui il primo a collegare Lovecraft a Crowley, formando una coppia che nella storia non è mai esistita, ma nell’immaginario successivo ha avuto una gran fortuna. Grant tuttavia era un occultista intelligente, e non cercava di dimostrare l’esistenza di fantomatici libri o rapporti di amicizia. Compiva un’operazione ben più complessa.

Il capitolo 6 di The Magical Revival è dedicato ai cosiddetti Nomi Evocativi Barbari. Grant esplora un classico principio della magia, quello della corrispondenza tra nomi e cose (oggetti o entità), e l’idea secondo la quale, conoscendo il giusto rapporto segno/referente, è possibile manipolare il primo per modificare il secondo. Lo scarto principale tra pensiero magico e scientifico è proprio qui: laddove il pensiero scientifico distingue tra la realtà e il suo modello (tra mappa e territorio, potremmo dire), per il pensiero magico esistono alcuni modelli che sono la realtà. La magia è dunque, essenzialmente, un problema di comunicazione.

Grant afferma che

 Il contatto con abitanti di altri mondi richiede un sistema di comunicazione. […] Non essendo tali nomi di divinità altro che formule magiche, la loro restaurazione fornì la chiave della loro invocazione, o evocazione a seconda dei casi[slider title=’18’]18 Kenneth Grant, Il risveglio della magia, Roma, Astrolabio, 1973, p. 91.[/slider].

Sempre nel capitolo 6 di The Magical Revival Grant fa un’altra osservazione: « Che gli spiriti siano considerati fenomeni soggettivi o oggettivi non ha molta importanza per quanto riguarda la magia pratica »[slider title=’19’]19 Ivi, p. 92.[/slider].

Nel prosieguo del capitolo cita esplicitamente H. P. Lovecraft e la sua mitologia, pur non parlando direttamente del Necronomicon. E li cita nel più legittimato (per un occultista) dei contesti possibili, insieme ad Aleister Crowley.

Visto che lo scrittore aveva trovato in sogno le idee per alcuni suoi racconti, Grant ipotizza che fosse venuto involontariamente in contatto con « certe strutture archetipiche caratteristiche del Nuovo Eone », ossia della nuova fase in cui il mondo, secondo Crowley, è entrato all’inizio del XX secolo. Lovecraft avrebbe percepito il cambiamento in atto.

Grant confronta punto a punto alcuni passi di Lovecraft e di Aleister Crowley trovando numerose analogie: paranoia o intuizione? Quando si parla di magia non sempre è facile, e quasi mai utile, distinguere l’una dall’altra.

Kenneth Grant non pretende che il Necronomicon sia un ‘reale’ libro di magia, e anzi, nell’articolo Dreaming beyond Space afferma esplicitamente che è un’invenzione. Ma questo non ha alcuna importanza, poiché Lovecraft avrebbe posseduto una conoscenza iniziatica potente, pur se inconsapevole, che l’avrebbe portato a scrivere i suoi racconti e ad inventare il grimorio. Una conoscenza molto simile a quella raggiunta dall’altro grande referente di Grant, ossia Crowley. Con la differenza che

 Lovecraft si avvicinò al nocciolo della questione nel solo modo possibile per un artista dotato, come lui, di estrema sensibilità alle forze occulte: cioè letterariamente. E ciò anche se con la sua parte conscia negò fortemente di credere alla validità di tutto ciò che riguardava il soprannaturale. Ma si tratta di proteste vane perché il suo lavoro rivela in ogni riga il fantasma imbevuto di paura delle immense memorie ancestrali che lo ossessionavano[slider title=’20’]20 Idem, Dreaming Out of Space, in « Man, Myth and Magic. An Encyclopaedia of the Supernatural », n. 84, London, Purnell, 1970. [/slider].

Con un capolavoro di semiosi ermetica le pagine di Lovecraft smettono di essere lette come fiction. Esse diventano la potente descrizione di una realtà che il solitario di Providence riusciva a percepire, ma non a comprendere fino in fondo.

A questo punto siamo molto oltre il poter discutere sulla ‘autentica’ esistenza del Necronomicon: il concetto stesso di autenticità non ha più alcun valore. Un grimorio ‘inventato’, basato sulle idee di Lovecraft, avrebbe finito per avere un’effettiva utilità magica, perché quelle idee erano barlumi di una realtà ‘concreta’.

 

Del Chaos e di Altre Magie

Dallo sviluppo tardo ottocentesco della Golden Dawn in poi si è andata diffondendo l’idea che ciò che conta, in magia, sia la capacità di risvegliare non tanto forze esterne al mago, come dèi e demoni, ma forze interne, sepolte negli abissi dell’inconscio.

In quest’ottica le creature che i maghi hanno inseguito per secoli non sono altro che forme di un contenuto più profondo, nascosto da qualche parte dentro l’essere umano. Il « Pan » che Dion Fortune (una nota occultista) poteva evocare non era il dio greco, ma una parte della psiche di Dion Fortune stessa, che si fondeva con l’eggregore emerso dall’inconscio collettivo di un popolo, quello della Grecia antica[slider title=’21’]21 Molti occultisti moderni, tra i quali la stessa Dion Fortune, hanno studiato Jung e riutilizzato in chiave magica le sue teorie sugli archetipi, sull’inconscio collettivo e sulla sincronicità.[/slider].

Aleister Crowley scrisse nel Liber O vel Manus et Sagittae un incipit destinato a diventare famoso:

 In questo libro si parla dei Sephirot e delle Vie, degli Spiriti e delle Evocazioni; degli Dei, delle Sfere, dei Piani, e di molte altre cose che possono o non possono esistere. Che esistano o no non ha importanza. Facendo certe cose si ottengono certi risultati; gli studenti debbono guardarsi dall’attribuire realtà oggettiva o validità filosofica a qualsiasi di essi[slider title=’22’]22 A. Crowley, Magick, Roma, Astrolabio, 1976, p. 541.[/slider].

 Insomma, il mago deve conservare una dose di sano scetticismo, operando con cose strane, ma senza convincersi che quelle cose esistano davvero. Paradossale, certo, ma paradossale è tutta la magia. L’efficacia degli incantesimi non è data dalla loro antichità o da chissà cos’altro, quanto piuttosto dalla loro capacità di risvegliare forze nascoste.

Negli anni ’70 entrò sulla scena una nuova generazione di occultisti ‘postmoderni’, vicini al movimento punk. Furono loro a rivoluzionare la tradizione esoterica occidentale inventando la Chaos Magick.

Il nucleo di questo nuovo approccio alla magia è dato da due motti: Nothing is true, everything is permitted e Fake it ’til you make it. Il primo è una dichiarazione di relativismo assoluto, sia teorico che pratico. Se « niente è vero », allora « tutto è permesso », e non solo da un punto di vista morale: è permesso fare tutto, compreso inviare messaggi telepatici e compiere incantesimi. Attraverso quale via?

Fake it ’til you make it, e cioè fingendo di farlo finché non riesci a farlo davvero. I praticanti di Chaos Magick sono convinti che tutto sia illusione, ma che l’illusione, nel momento in cui viene creduta reale, lo diventi a tutti gli effetti pratici. Se mi convinco di essere in grado di evocare Behemot, e me ne convinco al punto da vederlo davanti a me dopo aver bruciato grandi quantità di incenso, allora l’ho davvero evocato: chiedersi se sia ‘solo’ un’allucinazione oppure un ‘reale’ diavolo è peggio che stupido. Nella mia realtà, nel mio reality tunnel, adesso Behemot esiste a tutti gli effetti[slider title=’23’]23 Sto semplificando molto, ma la chaos magick è un argomento davvero complesso. Per un approfondimento rimando a Francesco Dimitri, Neopaganesimo. Perché gli dèi sono tornati, Roma, Castelvecchi, 2005.[/slider].

Il concetto di reality tunnel è centrale. Tirato fuori dal cappello di Robert Anton Wilson, indica le realtà personali dentro cui tutti noi viaggiamo. La società, la cultura in cui viviamo, e in parte minima le nostre scelte, ci costruiscono attorno un tunnel che, nell’infinito mare magnum delle possibilità, seleziona cosa per noi è ‘reale’ e cosa no. Nel reality tunnel di un houngan di Haiti i loa sono del tutto reali, in quello di un commercialista romano lo sono i conti in banca dei suoi clienti. Chi dei due ha ‘ragione’? Chi dei due lavora con entità più concrete, meno astratte? Qualsiasi classifica cercassimo di fare, la faremmo all’interno di un reality tunnel, il nostro.

La Chaos Magick considera le varie divinità di tutti i Pantheon del mondo alla stregua di interfacce che servono all’uomo per utilizzare quel qualcosa (c’è chi lo chiama Chi, Mana o Pneuma), che rende possibile la magia, ma anche la vita, l’arte, il sesso e tutto il resto.

Gli dèi non sono altro che simboli, pezzetti di linguaggio che ci permettono di ottenere effetti concreti con dei semplici atti comunicativi (i rituali), e che hanno senso solo all’interno di un determinato reality tunnel. Gli dèi potrebbero ridursi a nient’altro che parti della nostra mente, e vari maghi del chaos sono convinti che l’intera magia sia psicologia pratica: ad ogni modo sono ‘altro’ rispetto al nostro Io quotidiano.

Lo studioso Erik Davis ha notato con grande lucidità che « questa prospettiva postmoderna erode creativamente la distinzione tra trasmissione esoterica legittimata e fiction totale »[slider title=’24’]24 Erik Davis, Calling Cthulhu, in Richard Metzger (a cura di), Book of lies. The Disinformation guide to magick and the occult, New York, Disinformation Company, 2003, p. 144.[/slider]. Tanto, sempre di reality tunnel si tratta.

La mitologia di Lovecraft è affascinante, oscura, e ha influenzato l’immaginario di parecchie generazioni. In una parola, è potente, e che sia anche vera, non conta niente. Un bravo occultista può davvero scrivere un rito che evochi il Grande Cthulhu, perché il Grande Cthulhu è un simbolo né più né meno di Thor.

È nata quindi una vera e propria magia lovecraftiana: chi la pratica non crede che il Necronomicon di Lovecraft fosse ‘reale’, ma crede che chiunque possa scrivere il proprio Necronomicon. Dopo essere passato dalla ‘falsità’ alla ‘realtà’, il Necronomicon ridiventa un costrutto astratto, non più libro concreto ma possibilità di libro, possibilità infinita di infiniti libri.

L’approccio della Chaos Magick ha portato una ventata di novità nell’ambiente occultista, già tendente ai sincretismi per propria natura. Il Necronomicon, e i Grandi Antichi con lui, si è disseminato in una gran quantità di tradizioni, riti, correnti. Tra i sistemi di magia più famosi possiamo citare quello di Michael Bertiaux, un occultista stanziato a Los Angeles che ha messo insieme Crowley, Atlantide, il voodoo e Lovecraft. Ha organizzato all’interno del suo gruppo una « congrega lovecraftiana » che « deriva dal Voodoo nel senso che utilizza i Riti del Sentiero della Mano Sinistra combinati con la metafisica dei miti di Cthulhu »[slider title=’25’]25 Kenneth Grant, I culti dell’ombra, Roma, Astrolabio, 2005.[/slider]. Phil Hine, occultista che conta Burroughs tra i propri ammiratori, ha affermato di utilizzare spesso i miti di Cthulhu per le sue operazioni magiche, perché Lovecraft è riuscito a creare un pantheon al tempo stesso vago e terrificante, che emoziona il mago (senza emozione, la magia non funziona) e gli dà ampi margini di creatività. In altre parole, le creature del Necronomicon non sono così forti perché vecchie di milioni di anni, ma proprio perché inventate, e inventate bene, l’altro ieri.

 

Dell’Efficacia Simbolica

Lévi-Strauss notò che i Cuna avevano inserito nel rituale magico che propizia il parto anche lo spirito « del piroscafo argentato dell’uomo bianco ». Come dire, la Chaos Magick ha solo reso esplicito un atteggiamento presente in ogni tempo e ogni latitudine. L’antropologo sottolineava che il racconto mitico (e magico) del parto conduceva effettivamente al parto reale: l’incantesimo funzionava. Lévi-Strauss era troppo intelligente per limitarsi a usare la parola « suggestione »:

Che la mitologia dello sciamano non corrisponda a una realtà oggettiva è un fatto privo di importanza: l’ammalata [ossia, la partoriente] ci crede, ed è un membro di una società che ci crede. […]

Lo sciamano fornisce alla sua ammalata un linguaggio nel quale possono esprimersi immediatamente certi stati non formulati, e altrimenti non formulabili. E proprio il passaggio a questa espressione verbale (che permette, nello stesso tempo, di vivere in forma ordinaria e intellegibile un’esperienza attuale, ma che sarebbe, senza quel passaggio, anarchica e ineffabile) provoca lo sbloccarsi del processo fisiologico, ossia la riorganizzazione, in un senso favorevole, della sequenza di cui l’ammalata subisce lo svolgimento. […]

È l’efficacia simbolica [corsivo mio] a garantire l’armonia del parallelismo tra miti e operazioni. E mito e operazioni formano una coppia in cui si ritrova sempre la dualità di malato e medico. Nella cura della schizofrenia, il medico compie le operazioni, e il malato produce il mito; nella cura sciamanica, il medico fornisce il mito e il malato compie le operazioni[slider title=’26’]26 Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano, Net, 2002, pp. 221-222.[/slider].

Sembra la storia del Necronomicon: il racconto del libro conduce al libro concreto. Il libro nasce perché esiste una mitologia che gli permette di nascere, perché gli è stato fornito un linguaggio con cui costruirsi un « corpo senza organi ». Ma in fondo il criterio di efficacia simbolica è presente in tutta l’industria culturale, e il Necronomicon ne è soltanto un caso estremo. L’industria culturale fornisce il mito, i consumatori compiono le operazioni (le operazioni più varie: dai semplici discorsi alla fanfiction). Questo è particolarmente vero per il macro-genere che definiamo fantastico.

Todorov affermava che il fantastico è basato sull’esitazione tra una spiegazione razionale dei fenomeni ed una irrazionale. Pur senza accettare in pieno una definizione così stretta (la distinzione di Todorov tra fantastico e strano, ossia il genere in cui c’è una esplicita spiegazione soprannaturale dei fenomeni, è spesso tanto labile da non essere utile), dobbiamo ammettere che ha un grosso merito: mette bene in luce una caratteristica fondante del fantastico, e cioè il fatto che il suo significato è sempre sfuggente, rimanda sempre a un senso ‘più profondo’ che deve essere nascosto da qualche parte.

Ci spieghiamo così come mai il fantastico attiri tanti esoteristi autentici e inneschi vicende di fusione realtà/immaginario come quella del Necronomicon: questa logica del senso sfuggente è né più e né meno della semiosi ermetica. Il fantastico incorpora strutturalmente un elemento importante del pensiero magico. E visto che il fantastico è una delle cifre fondamentali dell’industria culturale, le conseguenze di questa incorporazione andrebbero studiate a fondo.

In termini semiotici è una situazione precisa: un deficit di significante che fa il paio con una sovrabbondanza di significato. C’è sempre un surplus, un qualcosa che sfugge tanto al racconto quanto al narratore, ma la cui presenza si sente, in qualche modo. Come in un equilibrio idraulico, questa indistinta massa di significato cerca un significante cui unirsi… potremmo dire che il Necronomicon è, finché viene soltanto citato, un accumulo di contenuto privo di una forma che lo definisca, che lo riduca a dimensioni umane e quindi, non ultimo, che lo renda meno inquietante. Quando questa massa raggiunge dimensioni critiche necessita di un Necronomicon fatto di atomi e non di parole, un testo ‘reale’ e non più soltanto nominato. Il processo era già stato intuito da Edgar Morin, che negli anni Sessanta scriveva: « La prossimità fra il polo reale e il polo immaginario consente incessanti elettrolisi. […] la crescita economica si sviluppa in una direzione che, solo un secolo fa, sarebbe parsa incredibile: rendere concreto l’immaginario [corsivo mio] »[slider title=’27’]27 E. Morin, Lo spirito dei tempi, cit., p. 208.[/slider].

Ma se l’immaginario può essere reso concreto, in qualsiasi momento, in qualsiasi modo, cosa lo distingue da quello che immaginario non è?

 

Il continuum

 Esiste un continuum, un multiverso meraviglioso in cui Mito e Storia comunicano fittamente tra loro: sono soltanto i reality tunnel a decidere a quale degli universi appartenga una certa cosa in un certo momento.

La storia del Necronomicon mette in luce che i simboli sono qualcosa di concreto e ‘reale’, e dunque ‘pesante’, quanto gli atomi, solo, in modo diverso. Se i simboli si accumulano l’uno sull’altro attorno a un attrattore comune finiscono per costituire una sorta di « corpo senza organi »: il passo successivo sarà quello di trovarli, gli organi, e a quel punto l’Immaginario sarà diventato Realtà. Come un meteorite, qualcosa cade nel nostro mondo.

Il Necronomicon è un esempio perfetto di questo processo: superata una massa critica, è piombato nel reale, portando con sé una mitologia vastissima (i Miti di Cthulhu) usata anche da chi non crede alla realtà del libro. Non esiste la ‘Realtà’, ma solo miti in fase diversa di realizzazione. Io e il Grande Cthulhu apparteniamo allo stesso continuum – solo che ci troviamo in punti diversi (e per fortuna).

C’è chi dice che la Storia non si fa con i ‘se’ – ma comunque si fa, nel senso che si fabbrica. Proprio come il Mito, al tempo stesso padre e figlio della Storia.

Per convenzione diciamo che il Necronomicon di Simon è ‘falso’, ma il testo nel complesso non è meno reale di Finnegans Wake, o di qualsiasi grimorio. « Cthulhu fhtagn », e il suo Richiamo aleggia minaccioso dagli scaffali, stretto tra un libro new age e uno sugli Illuminati.

Se dopo esservi riempiti la casa di Necronomicon ve lo ritrovate in vasca da bagno, non dite che non vi avevamo avvertiti.

 

 

 

 

 

 

Francesco Dimitri è uno scrittore, consulente e ricercatore freelance. È interessato a tutti i fenomeni che mettono in luce la dialettica tra ‘immaginario’ e ‘reale’, e che mettono in crisi i confini tra i due poli. Ha scritto di UFO e case stregate, nebbie allucinogene e guerre di strada. Il suo ultimo libro, Alice nel Paese della Vaporità, è tradotto in russo, olandese e francese.

 

 

 

Abstracts

 

Il Necronomicon è un libro di magia inventato dallo scrittore pulp H. P. Lovecraft. Molti lettori credettero che fosse un vero libro, e con il tempo lo è diventato. Ecco la storia di come è successo: un episodio che mette in luce alcuni meccanismi di interscambio tra immaginario e realtà, tra il mondo delle idee e il mondo delle cose.

 

The Necronomicon is a book of magic, brainchild of the pulp writer H. P. Lovecraft. Many readers believed it was an actual book, and in time it has become real. This is the story of how it happened: an episode that sheds some light on the regulatory mechanisms at the crossroads between reality and imagination, between the world of ideas and the world of things.

 

 

 

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