Vittorio LINGIARDI, Diagnosi e destino, Torino, 2018, Einaudi, pp. 130
Un pastrocchio di libro. Avevo cominciato a leggerlo, e dopo poche pagine l’avevo lasciato cadere. Poca tensione concettuale, l’approssimazione, le banalità sul rapporto medico-paziente. Andato su Wikipedia a vedere chi fosse l’autore: enfatico, “un gigione” pensai. Poi la SPI ha deciso di assegnargli il Premio Cesare Musatti. Mi sono detto: sei stato un lettore superficiale. Riprendo il libro, e decido che lo finirò.
Sì, un pastrocchio di libro. Mi aveva attratto il titolo, se e quanto una diagnosi proponga o imponga un destino. Una domanda carica di pathos cognitivo e emozionale che sta al cuore di ogni rapporto terapeutico consapevole.
Di pathos non ce n’è molto. Qualche bella citazione, tra i molto troppi ipse dixit disseminati nei capitoli per legittimare magicamente contenuti incerti, e qualche poesia dell’autore da cancellare in fretta. Per es. le Devozioni di John Donne, un paio di frasi di Kafka, una elegante pagina di Proust. Virginia Woolf menzionata per gestirla in fretta. Una lunga inutile discussione intorno a Susan Sontag e al suo così sopravvalutato pamphlet Illness as a Metaphor. La pedante descrizione classificatoria dei meccanismi di difesa del paziente e del medico rispetto alla malattia a partire da Anna Freud. Le pagine sull’ipocondria, utili se fossero state collocate sullo sfondo della coazione sociale all’ipocondria nelle nostre società. Le riflessioni sulla sequenza dei DSM e di altri repertori diagnostici, abbastanza interessanti ma prive di una lettura sociologica, antropologica, politica ed economico-corporativa del background di questi strumenti (meglio spendere tempo su Frances e dintorni). La difesa del diritto/dovere alla diagnosi per il medico come per il paziente. La diagnosi come ‘relazione’ sullo sfondo di Goody e della coppia illness/disease. Le allusioni rapide alla ‘medicina narrativa’, con la solita Rita Charon, pioniera malamente invecchiata, imprigionata nella letteratura, con il tormentone di Ivan Illich e simili. Come Lingiardi. Fa strano se penso a quanto esteso e denso è intorno a noi il discorso sociale sulla malattia, a volerlo ascoltare invece che leggerlo.
Manca nel libro una riflessione seria su alcuni dei suoi concetti portanti. Il primo è proprio ‘diagnosi’, il suo statuto. Una diagnosi è un atto conoscitivo, un enunciato nell’ambito di una interazione, l’acme del potere e della funzione sociale di una corporazione, una fase di una procedura burocratica all’interno di una organizzazione complessa, un’area semantica estesa nella conversazione sociale, una valutazione che si colloca in un circuito economico e produce ricadute economiche molteplici, un elemento di valutazione attuariale, una casistica assicurativa, un oggetto di controllo sociale. Altrettanti fattori, nessuno escluso, di un ‘destino’ per un individuo e per il suo microcontesto.
Ben poco di tutto questo nel libro. Sulle difficoltà e paradossi euristici della diagnosi esiste una letteratura importante: l’abduzione che si nasconde come induzione o peggio deduzione, il rapporto tra sintomo segnale e segno, il problema dello ‘indovinare’, il rapporto tra caso e categoria oppure evento e classe di eventi (almeno questo Lingiardi lo sfiora nelle righe sul nomotetico e l’ideografico), tanto per fermarci qui. La diagnosi come interazione ovvero piena di sociale e di funzioni latenti, plasmata dalle rappresentazioni sociali del corpo che rendono lo sguardo medico cieco o troppo attento ( lo sa bene chi – pochi – si occupa di epidemiologia sincronica e diacronica delle diagnosi), le mode cliniche, le distorsioni culturali e di genere (per es. la relativa invisibilità dell’infarto femminile). La diagnosi come copione interattivo e teatro in atto, indagata dagli etnometodologi e semiologi nelle sue trame stabili e negoziali.
E ancora la diagnosi come atto linguistico: enunciato performativo per eccellenza che produce ciò che ‘scopre’. Sempre sul terreno del linguaggio, sarebbe stato utile far percepire al lettore che l’area semantica della parola ‘diagnosi’ va ben oltre la diagnosi medica e ne modifica la percezione e l’impatto a partire dai suoi altri usi nel discorso sociale: originata dalla medicina, la ‘diagnosi’ le si riverbera addosso dall’esterno e ne costruisce parte delle modalità, del linguaggio, della credibilità e del contenuto emozionale. Oltre al medico, molti altri soggetti sociali individuali e collettivi ‘diagnosticano’ nei settori più diversi della realtà (si fanno ‘diagnosi’ in economia, in politica, nel marketing, dal meccanico ….), e una densa ‘diagnosi di senso comune’ avvolge la diagnosi scientifica in un rapporto né lineare né semplice. Che dire poi dell’immaginario della diagnosi, della sua fantasmatica, delle matrici inconsce in cui non può non radicarsi e che c’entrano poco con i listati di meccanismi di difesa. Dato il mestiere dell’autore e la sua formazione psicoanalitica, mi sarei aspettato molta più sensibilità complessa su questo aspetto.
Con la ‘malattia’ le cose non vanno meglio. Le malattie si situano su un continuum di percezione di gravità in parte ‘oggettivo’ in parte culturalmente e socialmente condizionato e variabile nel tempo. Per riprendere un esempio dell’autore, attualmente una diagnosi di morbillo o di depressione attacca i “territori dell’Io” (Goffman) a livelli ben diversi. Se una diagnosi è sempre in qualche modo una attribuzione o ingiunzione di identità, col morbillo l’identità viene appena sfiorata non plasmata. Diventa ‘destino’ per un attimo, e non investe il Sé. Va in tutt’altro modo per la ‘depressione’ (ovvio) ma anche per una lunga serie di altre malattie ‘solo’ organiche, ma portatrici di ipotesi esplicite i implicite sull’identità. Di quale ‘malattia’ parla Lingiardi? Per gran parte del suo libro si fa le cose facili prendendo ad esempio malattie incontrovertibilmente organiche, e risolvendo con le spallucce la chiacchiera psicosomatica. Ma la ‘malattia’ è fatto più complesso: è in misura crescente non solo lo star fisicamente male ma il non riuscire a star bene, il degrado diffuso, la cronicità strisciante, un insieme di malesseri che va ben oltre la loro somma. Quale è in questo caso la ‘diagnosi’ o sistema di diagnosi? Poiché invade senza scampo i “territori dell’Io”, in che modo riflette o produce destino? Ancora più significativo il problema della diagnosi psicologica o psichiatrica. Lingiardi si butta in una rapido confronto tra strumenti diagnostici. Ma quale che sia lo strumento e la sua logica, qualunque diagnosi – e comunque la si comunichi – è in questo caso una attribuzione di identità. Posso usare tutte le cautele del mondo e il massimo dell’empatia critica, ma io sto dicendo all’altro almeno una ipotesi su chi è in realtà. L’altro può mobilitare tutti i meccanismi di difesa che vuole, ma non potrà mai ridurre quella identità a semplice ‘persona’, maschera e non pelle.
Qui tutto si complica ulteriormente. Nella Iconographie photographique de la Salpêtrière, Augustine e le altre pazienti di Charcot sono fotografate con i sintomi forti della “Grande hystérie” di Charcot: l’arco, l’aura ecc. Le loro immagini esprimono la diagnosi e confermano la categoria nosografica. Problema: le caratteristiche tecniche delle apparecchiature fotografiche di quegli anni non consentivano foto con tempi rapidi. Occorreva mettersi in posa. Le ‘isteriche’ si mettevano in posa da isteriche, e da isteriche di Charcot. La diagnosi si presentava come una co-costruzione, una costruzione à plusieurs, il risultato di una cooperazione euristica implicita – di rado esplicita – tra paziente e clinico. Questo è il tipo ideale (Max Weber) di ogni diagnosi: una complicità conoscitiva mediata spesso inconsapevolmente da una narrazione a due o a molti. Quanto di ciò sopravviva nelle condizioni normali dell’atto diagnostico, quanto e come la ‘macchina’ (le analisi, la Tac, i test psicologici ecc) modifichi la situazione e l’interazione della diagnosi, quanto il ‘paziente’ e il ‘medico’ consentiranno alla ‘narrazione’ di esistere consapevolmente oppure la costringeranno a nascondersi nell’inconscio dietro le velature dei reciproci meccanismi di difesa individuali e istituzionali: questo è altra storia. Ma per quanto l’uno e/o l’altro si rifiutino alla cooperazione euristica, la diagnosi rimane lì, nucleo irriducibile anche se opaco. Il paziente con una diagnosi di tumore terminale o di grave disturbo bipolare può mobilitare le più drastiche strategie difensive, può scindere, negare, proiettare ecc ecc, ma sa la sua diagnosi perché la ha costruita. Il clinico ricorrerà a procedure simmetrie per incistare altrove dalla sua vita il male, ma sa della cisti.
Torniamo al problema posto dal titolo. Diagnosi e destino. Manca in Lingiardi una qualche definizione operativa di ‘destino’, quasi fosse parola ovvia. Lo statuto epistemologico, etico ed emozionale del destino si è profondamente modificato nella storia dell’occidente, passando da fatto esterno a coazione interna. Sullo sfondo una presunzione crescente di onnipotenza dell’azione umana respinge sempre più lontano da noi il limite del destino. Ma il destino rimane con il suo nucleo essenziale: ciò che non può non essere o avvenire, qualche che sia la consapevolezza o la determinazione contraria di un agente umano. Si annida nel corpo e nell’Io, come procedura biologica o identità. Quando la diagnosi lo ‘scopre’ nel primo e lo ‘iscrive’ nel secondo, essa diventa a vario titolo forma, figura, discorso del destino. L’atto o narrazione performativa della diagnosi finisce col ‘produrre’ un esito che, per tutti gli agenti coinvolti, viene vissuto come qualcosa che non poteva non essere. E’ il paradosso della “profezia che si autorealizza”: centrale al tema del suo libro, ma Lingiardi gli dedica esattamente quattro parole, ignorando l’ampia letteratura delle scienze sociali sul tema già a partire dagli anni 30 del secolo scorso (tanto per dire, da R. K. Merton in poi). Oppure il paradosso simmetrico del «diventa ciò che sei»di Nietzsche. O il paradosso eracliteo «il carattere è il destino dell’uomo» confrontato con il «conosci te stesso», dove il conoscere il proprio ‘carattere’ non ne riduce la funzione di ‘destino’.
C’è un vuoto interessante nel libro: nessun caso clinico, a parte qualche modestissima ‘vignetta’. Il caso clinico inteso come narrazione di una malattia qui è sostituito dalla letteratura, fiction o esercitazione nel racconto di se stessi in quanto malati. Peccato. La scrittura di un caso clinico – la «thick description» cara a buona parte dell’antropologia contemporanea – costringe (dovrebbe costringere) a capire quanto ciò che si sta scrivendo è in realtà una co-scrittura, il presunto ‘autore’ è un sistema di co-autori, l’Io narrante o interpretante o diagnosticante è un Noi che finge di non esserlo. Il caso può tentar di ridurre il co-narratore a paziente, e mero esempio di una categoria nosografica. Ma la narrazione insiste nel far vivere ostinatamente l’altro come individuo, infiltra l’ideografico tra le maglie strette del nomotetico, restituisce incertezza e probabilità al destino condensato nella classe diagnostica (E. Pozzi, «Il rischio del caso», http://www.ilcorpo.com/it/rivista/gennaio-2002_27.htm ).
Contro la necessità diagnostica si delinea una strategia marginale di resistenza. In L’evaso, Charlot è inseguito dalle polizie di due Stati, gli Usa e il Messico. La sua unica salvezza consiste nel camminare sulla linea di confine, i piedi da una parte e dell’altra, giocando un’identità contro l’altra. Lingiardi si avvicina a questa strategia nel capitolo più bello del suo pamphlet: «Il guaritore ferito» (pp. 32-35), con una citazione di Jung che riassume bene: «solo il medico ferito guarisce». Sarebbe stato utile tradurla e percorrerla anche da punto di vista del paziente: avrebbe portato in territori apparentemente senza mappa, ma la nascondono nella loro trama. Dunque non la diagnosi come destino, o la sciocca lotta contro la diagnosi come battaglia contro il destino, ma lo scarto, la béance come possibilità dialettica nella necessità del destino. (enrico pozzi)