12 Mar Da Treblinka all’Isola dei cannibali: sterminio e dialettica dell’illuminismo
Vasilij GROSSMAN, L’inferno di Treblinka, Milano, Adelphi, 2010 (1944), 79 pp., €6
Nicolas WERTH, L’île aux cannibales. 1933. Une déportation-abandon en Sibérie, Paris, Perrin, 2006, 245 pp.
Due diversi massacri di massa. Due diverse procedure di morte. Due diverse torsioni di una stessa dialettica dell’illuminismo.
Grossman racconta con potenza visionaria Treblinka II, il campo di sterminio attivo in Polonia tra il luglio 1942 e l’agosto 1943. Qui vennero gassate e ridotte in cenere quasi 1 milione di persone, prevalentemente ebrei polacchi, nell’ambito della cosiddetta Operazione Reinhard. Ogni giorno i treni scaricavano dai vagoni piombati circa 30mila deportati – solo 8-10mila nei ‘giorni di magra’ . Nel giro di poche ore, in genere 4, il ‘carico’ di un singolo convoglio (in media 6mila esseri umani) passava dalla vita alla cenere. All’avvicinarsi dell’Armata Rossa, Treblinka venne raso al suolo, e i nazisti cercarono di camuffare in ogni modo quanto vi era avvenuto.
Werth racconta un episodio minore: la deportazione-abbandono di migliaia di «declassati» su un’isola sabbiosa del fiume Ob, nella Siberia occidentale, con le morti di massa e le ondate di cannibalismo che caratterizzarono la vicenda. Nazino – questo il nome dell’isola – è però solo una microstoria esemplare consentita dalla sopravvivenza casuale di una dettagliata documentazione proveniente da varie fonti ufficiali e da archivi locali. Il focus vero dell’indagine di Werth è il grande progetto di «purificazione sociale» del 1933, che prevedeva la deportazione di 2 milioni di «elementi antisovietici delle città e delle campagne» verso la Siberia occidentale e il Kazakhstan. Questo «piano grandioso» era stato ideato da Genrikh Yagoda (il capo della Ghepeu) e da Matveï Berman (il responsabile del sistema Gulag). Esso completava il genocidio sociale attuato tra il 1931 e il 1933 nei confronti dei kulaki con un genocidio sociale di segno ben diverso: l’eliminazione del lumpenproletariat urbano dalle 10 più importanti città sovietiche. Le condizioni e modalità di questa seconda deportazione di massa si tradussero in una ecatombe ancora oggi difficile da quantificare esattamente (esistono dati certi solo per alcune situazioni locali). Tuttavia già le statistiche ufficiali del 1933 parlano – per quel solo anno – di 367.457 ‘scomparsi’, di cui 151.601 ufficialmente “deceduti” e 215.856 “in fuga” in aree geografiche tra le più inospitali del mondo.
Apparentemente, Nazino non è Treblinka. Il campo di sterminio era stato creato per annientare con la massima efficacia e il minor costo/tempo possibile grandi masse di individui. L’isoletta sull’Ob era uno dei molti terminali di un progetto con obiettivi sociali ‘positivi’ se non addirittura nobili: il risanamento sociale delle metropoli, la stabilizzazione politica, la conquista e la trasformazione produttiva delle “terre vergini”, la risocializzazione attraverso l’uscita dal “parassitismo” e la rinascita tramite il lavoro ecc.
Eppure Nazino, come Treblinka, ha sterminato in proporzione una massa enorme di internati, Come Treblinka, è stato un punctum esemplare di una più generale strategia che ha prodotto un massacro di almeno un milione di persone. Non era nelle intenzioni, obietteranno i veri credenti. Nella vita come nella storia, la verità di un comportamento, il suo senso, non sta nella infinità manipolabilità delle intenzioni e delle ideologie. Sta nei risultati – il massacro – e nel metodo.
Le tappe del percorso – methodos, il sentiero – parallelo verso i forni e verso l’isola dei cannibali sul fiume Ob sono le stesse. La «carriera» (Goffman) del deportato ha la fissità di un copione proppiano, o di un regolamento amministrativo:
1. la classificazione
il documento che dice l’appartenenza alla classe di individui destinata allo sterminio; il sistema di categorie e sottocategorie classificatorie che sono la precondizione euristica del massacro (si massacra sempre una categoria: l’Ebreo, il kulako, il minorato, il lumpenproletario…); l’occhio categorizzante del poliziotto, del burocrate o del carnefice che ti colloca nella griglia e ti riconosce da massacrare…
2. lo strappo e il viaggio
presi, portati via lontano verso un non luogo ignoto; sradicati; privati dei riferimenti dell’Umwelt abituale; inseriti a forza in un nuovo contesto che nega o capovolge il precedente: il vagone piombato, la stiva buia del barcone che risale l’Ob, massa compatta di corpi come tableau vivant in vista della massa dei cadaveri, la fame, la sete; ovvero, la propedeutica che rende malleabili alla nuova identità di deportato.
3. l’assalto ai territori dell’Io (sempre Goffman)
ovvero a tutto ciò che costituisce la pelle psichica dell’Io, l’area della mediazione tra il mondo e il Sé che protegge il Sé e gli consente di esistere: la nudità come perdita del vestito-pelle, l’irrilevanza del proprio tempo, l’annientamento della distanza spaziale e del proprio spazio ‘privato’, il venir meno di qualsiasi confine intorno all’Io, la perdita del nome e la riduzione dell’individualità a numero. L’Io viene esposto a una vulnerabilità illimitata che quasi lo annichilisce e consente di riplasmarlo secondo i bisogni del carnefice, per es. alla passività assoluta.
4. l’assalto ai legami primari
ovvero alla pelle sociale del deportato. Lo strappo aveva già disintegrato gran parte della sua rete di relazioni. Ora l’istituzione carnefice si accanisce sistematicamente contro ciò che resta: legami familiari, sessuali, di amicizia, di appartenenza, di solidarietà. Nulla deve frapporsi tra l’internato e il potere che lo vuole annientare, il gruppo degli internati deve ridursi ad un aggregato di individui soli, inermi e infinitamente vulnerabili di fronte all’assolutezza di un potere distruttivo. L’istituzione che massacra costruisce la trasparenza integrale della comunità dei deportati, produce disintegrazione sociale e anomia illimitata, organizza l’homo homini lupus del terrore che nulla deve poter attutire; letteralmente uomo lupo per l’uomo, uomo mangiato dall’uomo, uomo che mangia l’uomo, come a Nazino.
5. l’assalto al corpo
come ultima frontiera dell’impossessamento annientante. Nulla che l’istituzione non possa fare al corpo del deportato: marchiarlo, penetrarlo, affamarlo, esporlo al freddo e al caldo estremi, ammalarlo, violentarlo, mutilarlo, raparlo, torturarlo. Per poi ammazzarlo, bruciarlo, farlo a pezzi, mangiarlo e farlo mangiare, trasformarlo in sapone o in riempimento per materassi o in copertura per libri e poltrone. Il Leib diventa Körper prima ancora di esser fatto cadavere.
6. Il sistema delle razionalizzazioni
ovvero l’ideologia del massacro. Anche il più sadico dei carnefici ha bisogno di buone ragioni per il suo sadismo. Anche la più terrorizzata delle vittime ha bisogno di varianti perverse della buona morte, della morte in qualche modo consensuale. Una sola guardia poteva tenere a bada molte centinaia di deportati perché il nulla di quei deportati per lei era anche il loro nulla per se stessi, un’identità fatta propria che rendeva impensabile la ribellione anche inutile. Quando Paul Celan scrive la più importante poesia della Shoah – Todesfuge -, riconosce la ‘pedagogia’ che permea lo sterminio: Der Tod ist ein Meister aus Deutschland, La morte è un maestro tedesco. L’inutilità storico-produttiva del Lumpenproletariat urbano giustifica il suo esser nulla, dunque sterminabile a volontà, e rieducabile . Si obbedisce al maestro fino a morirne, si fa propria l’espulsione dalla Storia, ovvero dalla vita legittimata.
Anche il modello organizzativo dei due massacri sembra omogeneo. L’orientamento razionale allo scopo illumina di sé Treblinka e la strada che porta a Nazino. Tra il fine e i mezzi esiste una relazione funzionale assoluta. Nessun valore o limite la disturba o mette freni. Il calcolo diventa la forma, la retorica, la semantica dell’azione di massacro. I numeri dominano il discorso sociale. I registri di Treblinka, quelli che le SS non sono riuscite a bruciare negli ultimi giorni del campo. I numeri puntigliosi della pianificazione sovietica della deportazione: «L’obsession du chiffre transparait à travers toutes les sources ayant servi de base à notre étude. Chiffres globaux, planifiés à Moscou, chiffres ‘marchandés’ par les autorités locales, plans chiffrés d’ ”éléments déclassés à installer” envoyés aux responsables locaux des kommandatures, “pourcentages d’amaigris ou de pouilleux” embarqués dans les convois de déportation, “records pulvérisés” […]» [p. 191]. Commenta bene Werth: «la culture du chiffre, omniprésente, envahissante, est bien la marque d’une utopique maîtrise sur le corps social, décomposé en «éléments» désindividualisés de “masses à traiter” »[p. 191].
Il rasoio di Ockham del numero qui non è più solo un concetto, ma una lama che affonda nella carne viva dei corpi. Anche il corpo dei deportati diventa un aggregato scomponibile in elementi, adiacenza di parti e non totalità viva. La disaggregazione analitica del vivente investe il Leib e lo riduce a ragione/razione, quantità e misura. La sopravvivenza diventa equivalente a 200 gr di farina al giorno, ai cm e alla grammatura dei panni da usare per l’abbigliamento nella taiga siberiana, I nuclei familiari (ma i lumpenproletari deportati sono quasi sempre atomi isolati) si vedono assegnare dotazioni prestabilite di cibo, attrezzi da lavoro, sementi ecc basate su una meccanica quantitativa dei corpi, della produzione, delle fertilità della terra [p. 61]. Ogni aspetto della vita quotidiana viene riportato a matrici numeriche, a misurazioni, a medie e mediane.
Modalità diverse ma logica identica per i morituri di Treblinka. Qui non c’è nessuna mezza finzione di sopravvivenza da tenere in piedi. I corpi che scendono dai treni sono già trattati da cadaveri. Prima delle camere a gas viene espiantato tutto ciò che può esser tolto ad un corpo ancora vivo: vestiti, oggetti, valige, gioielli, scarpe, capelli, occhiali. Dopo il gas e prima della cremazione quello che resta : i denti d’oro, la pelle, il grasso. Dopo la cremazione: la cenere dei corpi come concime. Poi più in là non ci sarà tempo. I denti verranno strappati quasi sempre prima del gas, la pelle e il grasso andranno persi nell’accelerazione dei forni. Il corpo e i suoi dintorni vitali, i territori concreti dell’Io, sono aggregati di componenti da trattare come segmenti separati, parti senza tutto, pezzi di apparati meccanici, il vertice assoluto dell’homme-machine di La Mettrie. Ovunque il discreto sostituisce il continuo.
La stessa mathesis universalis governa lo spazio e il tempo. Treblinka è una fabbrica di morte razionalmente organizzata per massimizzare l’efficacia del ciclo arrivo-spoliazione-gas-evacuazione-cremazione-eliminazione delle ceneri. Per interventi progressivi in pochi mesi le distanze vengono corrette, la gestione dei cadaveri facilitata, i forni ottimizzati, una ergonomia di morte ingegnerizzata. La distribuzione degli edifici esprime razionalità economica pura, ma anche le gerarchie di potere e il panopticon di sorveglianza-terrore che le servono da contenitore e collante di efficienza.
I “villaggi di lavoro” dei deportati sovietici sono (sarebbero…) la configurazione spaziale di una ingegneria razionalista del territorio: una griglia cartesiana assunta come forma urbanistica, 2mila “elementi” o 500 famiglie per ogni villaggio, 100 unità abitative di 60m2 ciascuna per 20 individui, aventi diritto a 3m2 a testa. Poi tutto quanto è razionale-economico che ci sia: bagni pubblici, un’infermeria, le stalle, gli hangar per le attrezzature ecc. Una comunità geometrica, matematizzata e pianificata per essere al tempo stesso uno spazio efficiente e una pedagogia spaziale di rieducazione del presunto “declassé” sottoproletario.
Il tempo dei deportati è a sua volta tempo-spazio, cronometria programmaticamente indifferente alla durata vissuta, quantità pura. Dopo i primi mesi di assestamento, le procedure di sterminio di Treblinka si stabilizzano su moduli di circa 4 ore: questo il tempo assegnato alle operazioni che vanno dallo scarico del convoglio umano di circa 6-7mila persone fino al rovesciamento dei cadaveri sulla griglia del grande forno. Un tempo spasmodico, condensato, che scandisce l’ossessionante “schnell! schnell! schnell!“ dei carnefici. Sulla carta altrettanto segmentato e pianificato il tempo del deportato sovietico. Al trasporto verso i campi di smistamento poi verso le kommandature siberiane e del Kazakhstan, poi ancora verso le destinazioni finali, vengono assegnati numeri prestabiliti di giorni e ore. La quantità dei convogli umani è organizzata in modo da tale da assicurare un flusso continuo giornaliero (4 convogli quotidiani di 1800 deportati ciascuno, 216mila ogni mese). Il regolamento dei campi e delle azioni di trasporto prevede una tabella di orari quotidiani che scompone in spazi temporali la giornata, dal risveglio alla notte alle pause fisiologiche ai pasti ecc. Anche per il lumpenproletario “declassé” quantità pura, e mortalmente rieducativa.
Catena di montaggio della morte più «gabbia d’acciaio» weberiana. La partizione analitica delle attività, delle procedure e dei corpi in ‘elementi’ segmentati converge con il modello “burocratico” di una organizzazione sociale plasmata dall’orientamento razionale-economico allo scopo. Nella sua forma pura e astratta, la logica di Treblinka e di Nazino coincide con il tipo ideale delineato da Weber. Un potere illimitato consente ai carnefici di ingegnerizzarlo praticamente: struttura gerarchico-funzionale, catena verticale delle responsabilità, sistema integrato delle mansioni indipendente dagli individui che le esplicano, neutralità, imparzialità, spersonalizzazione, focus sui mezzi congrui ai fini, norme, regole e procedure standardizzate e non negoziabili. La parola “regolamento” che torna senza sosta, nei discorsi e nelle autodifese dei carnefici nazisti come nei rapporti, ordini e missive dei responsabili sovietici.
Il massacro fordista come vertice della razionalità illuminista, autentico sole nero della ragion pura pratica.
Il sole non brilla però con la stessa luce a Treblinka e a Nazino.
Lo sterminio degli ebrei (ma anche dei polacchi, degli zingari…) è l’esito geometrico di una organizzazione sociale costruita come una macchina perfetta, indifferente alle persone dei carnefici e delle vittime. A Treblinka tutti potevano essere sostituiti ad ogni momento, pezzi di ricambio definiti dalla loro funzione/mansione. Gli addetti allo svuotamento delle camere a gas e all’alimentazione dei forni con i cadaveri venivano a loro volta sterminati ogni 2-3 giorni. Come per la catena di montaggio fordista, nessuna competenza era tale da rendere qualcuno indispensabile, per i deportati come per i kapò ucraini e le SS. Le abilità e le competenze erano per così dire incorporate nella struttura, innestate negli algoritmi della procedura. Così almeno nel racconto di Grossman.
La «pulizia sociale» di cui Nazino è parte sembra governata dal rovesciamento ironico del fordismo di sterminio. Nel «progetto grandioso» di Yagoda niente funziona come dovrebbe. Le tipologie dei “declassés” da deportare sono troppo vaghe. Le classificazioni incerte. Le identificazioni e le identità inattendibili. I passaporti imprecisi, la “passaportizzazione” (pasportizacija) inapplicata proprio nelle aree del paese e strati della popolazione ai quali doveva applicarsi maggiormente. Le retate avvengono a caso. Le liste nominative dei deportati sono scritte a matita su pezzi di carta da pacco. I nomi e i numeri non coincidono. I campi di raccolta non sono approntati e sprofondano nel caos. I trasporti verso la Siberia e il Kazakhstan avvengono con mezzi rimediati che spesso vanno in avaria o esistono solo sulla carta. Le razioni alimentari non ci sono, o vengono rubate prima dell’arrivo. Le attrezzature per ‘lavorare’ nella taiga, costruire le baracche all’arrivo o dissodare il terreno ghiacciato non vengono consegnate. I presunti colonizzatori (forzati) delle terre vergini sono spesso vecchi cadenti, tubercolotici, handicappati, minorati, ragazzini deboli, adulti già malati di tifo e altro prima dell’arrivo; oppure piccoli criminali che non sanno fare nulla, tantomeno produrre con le loro mani. I presidi medici creati sulla carta non esistono. I luoghi di accoglienza finale neanche. Niente forze di polizia per tenere a bada questi disperati aggressivi. I kolkhoz poverissimi che dovrebbero servire da supporto per il primo insediamento sono a loro volta al limite della sopravvivenza, e spesso sotto, in aree tra le più inospitali del globo. Niente capanne di frasche, forni per cuocere il pane: la farina viene mangiata cruda mescolata a un po’ d’acqua dell’Ob (dissenteria generalizzata). Né leggi né norme né regole, ma ovunque l’ «entusiasmo amministrativo» (l’espressione è di Stalin) moltiplica i regolamenti, puntigliosi, con fattispecie sempre più dettagliate e procedure sempre più articolate. Non si sa quanti partono, quanti arrivano, quanti muoiono per strada, sul fiume e sul posto, quanti fuggono e vanno a morire in fondo all’Ob o nella taiga, quanti vengono uccisi da altri deportati trasformati in kapò, quante le donne, quanti i bambini. Ma ovunque, in ogni documento, il delirio pianificatorio, una quantofrenia ridicola, i numeri precisissimi degli obiettivi da raggiungere, dei convogli giornalieri di deportati, degli ha di terra vergine da recuperare, delle sementi da piantare, della produzione agricola da garantire, i tempi tassativi per tutto ciò, le superfici da assegnare a ogni deportato. E ovunque i presunti garanti del piano, i piccolissimi funzionari del partito e responsabili delle Kommandature, spesso i primi a depredare i deportati del pochissimo che ancora hanno; oppure pronti a scrivere che in ogni caso stanno rispettando il Regolamento, le procedure e gli obiettivi assegnati.
Nulla va come previsto, salvo una cosa: lo sterminio. In pochi mesi centinaia di migliaia di “declassés” muoiono, oltre 350mila nel primo anno. La funzione manifesta era rendere produttivi i lumpenproletari urbani rieducandoli tramite il lavoro (come sempre “Arbeit macht frei”). Gli esiti reali tradiscono la funzione latente: completare sui lumpenproletari urbani quanto era già stato fatto per i kulaki nel triennio precedente, realizzare la pulizia sociale delle città-guida del socialismo dai devianti, dai deboli, dai malati, dagli imperfetti, in una eugenetica per la rivoluzione che anticipa di poco la pulizia etnico-razziale dell’Europa consumata a Treblinka e negli altri campi di sterminio. Il disordine e il caos non devono trarre in inganno. Essi realizzano in altra forma il fordismo e l’orientamento razionale-economico allo scopo del tipo ideale weberiano. Il modo in cui si è gestita la deportazione è stato un grande risparmio, un vertice di massimo risultato ottenuto col minimo impiego di risorse. La macchina ‘stupida’ e disorganizzata del piano di Yagoda e Berman ha realizzato la più economica delle macchine di morte possibili, l’organizzazione di un homo homini lupus de facto in cui le vittime perpetrano esse stesse gran parte dello sterminio di se stesse. In apparenza, la tragedia di cui Nazino è punctum esemplare rappresenta un case study di eterogenesi dei fini (la Heterogonie der Zwecke di Wilhelm Wundt, ma anche di Vico, Pareto): ovvero le «conseguenze non intenzionali che derivano da azioni intenzionali» (Wundt). Qui con un’aggiunta decisiva: le «conseguenze intenzionali delle conseguenze non intenzionali che derivano da azioni intenzionali».
È l’ulteriore torsione fordista del modello fordista dello sterminio ingegnerizzato in forma pura a Treblinka. L’orientamento razionale-economico allo scopo persegue quello stesso scopo attraverso la negazione della sua razionalità ed economia. La massima imperfezione amministrativa diventa lo strumento più elegante della perfezione amministrativa. Siamo al cuore della vocazione ironica della dialettica dell’illuminismo: illuminare di maestosa luce nera il dominio efficace sulla realtà e sull’uomo che doveva renderci liberi. Il rasoio di Ockham qui prende la forma beffarda dei coltelli che tagliavano i seni e i polpacci delle donne di Nazino, che espiantavano polmoni, fegati e reni ai vivi e ai cadaveri, che fuggivano nella taiga con qualche ingenuo deportato ancora grassottello – “la vacca” – per mangiarselo lungo la strada. «La Rivoluzione è come Saturno, divora i suoi stessi figli». Lo aveva detto il Girondino Pierre Victurnien Vergniaud al tribunale che lo condannava alla ghigliottina. Lo fa dire a Danton Georg Buchner (Dantons Tod, atto I, sc. 5: «Die Revolution ist wie Saturn, sie frißt ihre eignen Kinder»). Lasciamolo dire e fare ai deportati di Nazino, inconsapevoli agenti di un’ironia divorante. [enrico pozzi]