22 Dic All’ex-FILMSTUDIO un domenica FUORINORMA con Giardina&Palmese, Bellosi e Francesca Fini. Due da vedere, uno no.
Via Orti d’Alibert, a Roma, pochi metri da Regina Coeli. Il vecchio Filmstudio, ma ora si chiama SCENA, e dentro è proprio diverso. Evento-cinema FUORINORMA, l’associazione di Adriano Aprà, da anni in lotta appassionata per un cinema ‘altro’.
Qui, tra la fine degli anni 60 e gli anni 70, il mio personale incontro con cose che solo in questo luogo a Roma si vedevano. Stan Brakhage e l’avanguardia sperimentale nord americana. I fratelli Mekas. Cassavetes. Markopoulos. Godard. Solanas e Getino. Glauber Rocha. Alain Resnais. Miklos Jancso. Joseph Losey. Il Rossellini televisivo. I primi Antonioni. Tutto quello che girava sulla bellissima prima serie di Ombre Rosse (l’abbiamo riprodotta qui).
Ci sono tornato per la prima volta da allora domenica sera, il 5 dicembre, per FUORINORMA e per nostalgia. Pioggia, tutto chiuso intorno. La presenza del carcere.
Tre cose in programma.
Il primo, Il Caso Braibanti (2020), di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese. Saletta di ex-combattenti e reduci, solo due persone con meno di 30 anni. Una vicenda che all’epoca e dopo mi coinvolse direttamente, quando venne a trovarmi Giovanni Maria Flick per avere la mia opinione tecnico-scientifica sulla fenomenologia psicologica del ‘plagio’.
Il caso Braibanti non esiste più. Il reato di plagio è stato abolito da tempo. Le unioni civili tra maggiorenni dello stesso sesso sono legislate e protette. Relazioni omosessuali tra consenzienti suscitano sempre meno ‘scandalo’ sociale. Finito il caso Braibanti, rimane però la persona Braibanti. Questa avrebbe meritato autonoma forte attenzione.
Al film interessa il caso. Sta sul terreno garantito dello stereotipo che si contrappone a stereotipo. Nessun tentativo di andare oltre l’ovvietà degli schieramenti e delle appartenenze. Ovvia l’Italietta omofobica e semi-fascista di quegli anni, con giustizia ancorata al Codice Rocco e all’uso repressivo di un “reato impossibile” come il plagio. Ovvia la ribellione libertaria di una generazione contro quella roba lì. E ovvio lo stare noi oggi dalla parte giusta, anche in questa saletta ex-Filmstudio dove troppo facilmente si è ex- di quacosa.
Il risultato è un santino. Braibanti ridotto a vittima – che pure è stato – si vede negare complessità umana e intellettuale, e ambiguità psicologica. Puro, purificato dal martirio politico-giudiziario, miracolosamente esente dalle dinamiche di dominio-controllo-assoggettamento e soggezione che pure sono così dense in ogni rapporto appena un po’ intenso, bonificato dalla Resistenza e dalla tortura, così umile e riservato – forse ignorando l’onnipotenza dell’umiltà e la grandiosità della riservatezza. Innamorato, come se l’amore fosse un’evidenza tanto ovvia da non meritare analisi. E poi poeta, drammaturgo, artista visivo, studioso di formiche. E santino anche il suo giovane compagno, forse solo un po’ fragile davanti alla persecuzione organizzata di varie istituzioni: la famiglia, la magistratura, la clinica psichiatrica. E così irrimediabilmente stereotipi gli altri: il pubblico ministero, il presidente del Tribunale, il padre del ragazzo, la madre, quel fratello diventato a quanto pare un cattolico integralista di estrema destra, quasi a risarcire di ‘normalità’ la ‘anormalità’ che aveva segnato l’immagine pubblica sua e della sua famiglia (i due registi hanno mai letto L’enfance d’un chef di Sartre, o almeno letto/visto il Conformista di Moravia e di Bertolucci?).
La ‘verità’ di Braibanti e della sua vicenda avrebbe meritato una lettura tragica, tra Sofocle e Shakespeare, senza trascurare il coro delle formiche. Avrebbe anche meritato un linguaggio cinematografico meno ovvio nello stile (un documentarismo scolastico), con un innesto ben diverso dei momenti narrativi ‘teatrali’, una recitazione duttile e non gridata. Stavo per scrivere “non ovvia”, e mi accorgo di quante volte ho usato ‘ovvio’ in queste righe. Già, ovvio, perché ovvia e largamente superata è la dimensione sociale, politica e giudiziaria di quella vicenda. Ovvietà di bandiera che avrebbe potuto rendere possibili una lettura e una rappresentazione diverse.
Palazzo di Giustizia, di Chiara Bellosi, è stato una bella sorpresa. Un processo per una rapina e per l’uccisione di uno dei due giovani rapinatori, con l’altro e l’omicida in aula. Il rito, le facce, le identità, le toghe, la dialettica avvocato-pubblico ministero-imputato, l’attesa di una sentenza. Fin qui il centro ovvio della narrazione. Ma il centro vero è fuori, anche se in rapporto continuo con il dentro: la giovane compagna del rapinatore, la figlia, la figlia dell’uccisore, la porta che si apre e si chiude tra lo stage e il backstage, il carabiniere che la gestisce, lo spazio monumentale della Corte d’Assise, ogni tanto scorci di esterno (perché l’esterno ancora esiste). E poi la fame, il sonno, la noia, il gioco, quasi un flirt, improvvise complicità tra giovani donne.
Il film chiude senza la sentenza. Intanto però dà l’altra dimensione di una vicenda giudiziaria, i compartecipi esclusi dal rito eppure vitalmente coinvolti, l’incertezza su chi è vittima di chi. Attori e attrici di qualità Una bambina e una adolescente bravissime. Una regia poco intrusiva che costruisce la ‘realtà’ attraverso l’incrocio degli sguardi e punti di vista di ciascuno dei protagonisti, una realtà oggettiva perché soggettiva, non quella ‘terza’ del documentarismo presunto realista. Qualche barocchismo ma pochi. Chiara Bellosi è al suo primo lungometraggio. Una scoperta. Presto il secondo.
A fine serata, tre opere di Francesca Fini, socia e co-animatrice di FUORINORMA.
Planet Pink è uno scintillante e colorato Panopticon nel vivo del Caos, quando frammenti, detriti, resti e oggetti incompiuti cercano forma, sembrano trovarla per un attimo e la perdono subito dopo in un inutile ricominciare. Il grande Albatro è stato ucciso, e i versi di Coleridge ribadiscono il crimine. Il tempo senza vento è ormai immobile, gli rimangono solo ripetizioni compulsive – la freccia ferma di Zenone, Valery e Fachinelli. Una pseudorealtà plasticosa e senza disegno o progetto si avvolge su sé stessa distruggendosi e ricreandosi senza senso. Nulla va da nessuna parte. Elegante, potente, dominato da una maestria tecnica senza sbavature: nel Caos Rosa questa maestria finisce col sembrare l’unico senso possibile. Un pericolo sempre in agguato per la bravissima autrice.
Lockdown esprime la stessa impotenza di fronte alla realtà. Durante uno dei lockdown del 2020, Francesca Fini ha realizzato con Francesca Lolli e Francesca Leoni una simultanea performance-trittico centrata sulla pelle, l’identità e la metamorfosi. L’isolamento che spera di evitare la solitudine attraverso una sincronicità concordata. Ma la mia sensazione è stata quella di una triplice interminabile carezza del proprio corpo e Sé per sentirsi esistere, masturbazione al posto del sesso, in una comunione che nega nel nome unico Francesca il fatto che si è irrimedibilmente tre Francesche, ciascuna sola.
In Vanitas vanitatum Francesca Fini agisce sulla frontiera estrema della identità contro il tempo: il ritratto formale, posato e commemorativo. Il ritratto si vuole sfida al tempo, all’oblio, alla morte e alla dissoluzione della forma. Esso esprime in effige una strategia per l’immortalità del sé, dell’identità e della carne. Vale per il ritratto l’incipit di Mallarmé per Le tombeau d’Edgar Allan Poe: “Tel qu’en lui-même enfin l’Eternité le change”. Un ritratto fantastica di rendere eterno l’oggetto ritratto, per sempre eguale a sé stesso. In nome della vanitas vanitatum, la Fini si dedica a dissolvere questa arroganza. Cinque ritratti vengono disfatti in lamelle orizzontali (i corpi-cassetti di Dalí, o una tomografia), posseduti da ironiche farfalle dai colori mortiferi, dissolti dall’annichilirsi della ram-clessidra di un vecchio Macintosh, resi trasparenti dal lento muoversi di lumache corrosive. Le forme soccombono, ma è soprattutto sulla pelle che si esercita la violenza della vanitas. La pelle non contiene, non copre e non protegge, è solo pretesto per l’ibrido. Le farfalle emergono come efflorescenze sulla superfice della pelle del volto. Il passaggio delle lumache svela il sotto della pelle, il teschio. Qualche minuto, ma tra i più belli e visionari di quello che Francesca Fini è andata facendo in questi anni.
Tutto questo una sera FUORINORMA nell’ex Filmstudio. Tutt’altro che banale. [enrico pozzi]