Il caso Eluana e l’immaginario collettivo: (1) Il morto vivente

Un corpo quasi morto da 17 anni scatena uno scontro politico-istituzionale senza precedenti negli ultimi anni. Le massime autorità dello Stato entrano in un conflitto frontale. La Costituzione, cioè il documento che fonda il contratto sociale della Repubblica, viene messa in dubbio. Il sistema politico si schiera  intorno alla dicotomia vita vs morte. Le grandi mani armate del potere assediano un quasi cadavere e il padre, relegati in una terra di confine. Procuratori della Repubblica si interrogano sulle presunte intenzioni che oltre 17 anni fa potrebbe aver avuto una giovane ragazza intorno alla propria morte. Forze di Polizia presidiano un essere in coma profondo, drappelli di NAS dei carabinieri  ispezionano a fondo una clinica privata friulana con una attenzione e cura che non dedicano certo a tanti altri ospedali pubblici della Penisola. Un Presidente del Consiglio discetta su quanto possa essere capace di gravidanze il quasi cadavere. Articoli macabri descrivono cosa accade a un corpo via via che non riceve più acqua. Potenti direttori di reti nazionali si dimettono. Gli innumerevoli avvoltoi della morale e della sofferenza si appagano di materia umana sulle prime pagine degli italici tabloid e nel prime time TV. eccetera

Il caso mediatico-politico di Eluana Englaro è una esplosione articolata di delirio sociale che ha preso a pretesto una morta non morta. Non mi interessa la presunta diatriba etico-politica. Mi interessa la folie à plusieurs, il delirio e come tentare di interpretarlo.

Userò alcune grandi categorie: la prima è il morto vivente, la seconda è il sacrificio umano. E userò una metafora narrativa che viene da lontano: Antigone.

Il morto vivente. Eluana è morta e non lo è proprio del tutto. E’ morto solo il cervello e funzioni connesse, il resto c’è tutto, dicono. In altri termini, questa donna è uno zombie, il protagonista principe dell’orrore. Le società umane sotterrano i morti con grande sfoggio di rituali funerari complessi e di pesanti pietre tombali che il morto non potrà smuovere. Le società umane impaurite, per maggior sicurezza, li cremano e dissolvono nell’aria e in cenere la materialità disturbante del corpo che si putrefà.

La ragione di tutta questa fatica sociale è semplice: i vivi pensano che i morti non sono contenti di essere morti, e che odiano i vivi che sopravvivono alla loro morte. L’invidia dei morti per i vivi che i vivi attribuiscono ai morti è un protagonista centrale dell’immaginario collettivo. Secondo i vivi, i morti li odiano. Vogliono vendicarsi tornando tra loro a derubarli della loro vita immeritata, e a riprendersi quello che a loro morti è stato ingiustamente tolto. Così le società umane, nessuna esclusa, si affannano ad acquietare i morti: “requiescant in pace”, che riposino in pace, sepolti sotto le pietre e chiusi nelle bare, ma naturalmente venerati, amati, coccolati, festeggiati, purché non tornino tra i vivi.

I morti viventi mettono disordine in questo schema dai confini ordinati: di qua i vivi, di là i morti. Come il vampiro, lo zombie sta di là e di qua. E’ carico di tutta la forza impura di chi si colloca tra le categorie e non può essere classificato. Esso incarna la minaccia concreta del ritorno dei morti, senza il quale buona parte della produzione immaginaria e simbolica dell’umanità non esisterebbe. Si può tollerare la sua esistenza quando vive da solo una vita socialmente invisibile, enucleato dal corpo sociale.   Ma cosa si fà se il morto vivente pretende di essere riconosciuto appunto come tale, uno che non è né vivo né morto?

Il padre di Eluana Englaro ha testardamente inseguito questo riconoscimento. Ha preteso che i rappresentanti della norma e della legge – i magistrati – riconoscessero alla figlia il diritto di morire del tutto, e dunque lo status di non-del-tutto-morta, di morta vivente desiderosa di morire. Il patto silenzioso della invisibilità sociale dello zombie è stato spezzato, la sua figura impura è stata messa al centro della scena sociale e dell’immaginario collettivo, a ricordarci l’odio invidioso dei morti per i vivi che i vivi attribuiscono ai morti.

Il sistema sociale ha avuto un solo obiettivo: riportare lo zombie Eluana in una categoria chiara, cioè pura. C’erano solo due modi per farlo: Eluana è in realtà già morta, e la sua ‘vita’ è senza vita, materia inerte. Oppure Eluana non è affatto morta, è viva, di una vita operativamente limitata eppure piena. La posta in gioco era la possibilità salvifica e rassicurante del funerale, oppure quella altrettanto tranquillizzante della inutilità di un funerale dato che non vi era il morto. Un rito sociale di sepoltura avrebbe gestito come morto il morto, svolgendo la funzione protettiva dei cerimoniali funerari. La negazione della necessità del funerale avrebbe restituito d’ufficio il quasi morto al mondo dei vivi, eliminando la qualità mortifera della sua visibilità sociale.

Su questa strategia l’immaginario collettivo si è spaccato.

I fautori della morte clinica hanno cercato di sottrarre alla morta vivente ogni attributo di vita anche solo residuale o marginale, ma si sono trovati di fronte alle evidenze di segni che le rappresentazioni collettive attribuiscono alla vita. Il cuore batte. Il corpo, anche se in forma del tutto passiva, mangia e beve. L’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione provocherà dolore, altrimenti perché mai i sedativi? E il dolore non è forse segno di vita?

I sostenitori della vita mutilata ma pur sempre vita si sono scontrati con evidenze contrarie. Che vita è mai quella del coma profondo da 17 anni? E’ possibile definire vita qualcosa a cui manca il movimento, la traccia percepibile del pensiero, il riconoscimento dell’altro e della realtà? Si è cercato di andare contro queste altre rappresentazioni primarie della vitalità con la presunta forza delle parole certe (Formigoni per tutti: “Eluana respira, ha una vita piena”, 31 gennaio; oppure la forza emozionale della parola ‘assassinio’), con il ricorso delirante alla metafora della vitalità per eccellenza, la maternità (Berlusconi: “Eluana potrebbe avere un figlio”), e con tanto altro ancora. Ma bastava che il padre della ragazza dicesse “venite a vedere com’è ridotta veramente” e nell’immaginario la morte tornava a riprendersela.

L’immaginario immagina, e non ha bisogno di decidere nulla. Nella realtà ad un certo punto qualcuno deve decidere qualcosa: Eluana Englaro è morta, o è viva? Se è quasi morta o quasi viva, deve vivere o deve morire? E’ il dirty job della decisione. E qui lo scenario si complica: c’è un protagonista assoluto, ed è lo Stato, ma c’è un protagonista irrinunciabile, ed è la famiglia della morta vivente, cioè l’entità nella quale la morta vivente per così dire si prolunga nella vita per interposta persona, per proxy. Quello che accade nella dialettica tra questi protagonisti colloca la vicenda di Eluana nella logica del sacrificio e della vittima sacrificale. Contemporaneamente, trasforma il privato corpo di questa donna in un corpo ‘politico’, che risponde di sé alla polis.

In un post prossimo, farò vedere come tutto ciò si intreccia e deflagra nel corpo sociale, fino a metterne in gioco il patto costitutivo.

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