02 Dic Manhattan Transfer 2015. Al nuovo Whitney, museo senza qualità. Poi al Rubin, per fortuna
La cosa più bella è la camminata lungo la High Line, la vecchia linea ferroviaria merci nel West Side di Manhattan ora recuperata come parco pubblico.
Alla fine il nuovo Whitney, ideato da Renzo Piano. Mi aspetto almeno l’ombra del Beaubourg, e trovo una nave/scatolone grigia e senza vita, banale fuori e dentro. Solo qualche terrazza ampia a dare vita, ma apre sul caos scialbo del Meat Packing, una accozzaglia informe di robe costruite.
Dentro, spazi banali. Gli ascensori non reggono il flusso. Scale a piedi miserande (qualcuno ricorda quelle astratte, potenti e larghe del vecchio Whitney?). Store micragnoso, poco spazio, un scaffale e poco più per i libri. Materiali che già si deteriorano (sempre le scale). Spazi espositivi senza novità. Rimpiango addirittura il Maxxi della Hadid. Si salvano solo il bar, il ristorante, il caffè dell’ottavo piano. Tutto fatto con la mano sinistra, routine cone lo scialbo grattacielo Intesa Sanpaolo a Torino e altre cose che Piano va facendo in giro da un po’.
Le mostre. Frank Stella: tanta roba, ma sempre poca rispetto alla tantissima prodotta senza fine per troppi anni. Mettiamola breve: Frank Stella è il nulla. Si salvano solo le foto e incisioni delle volute del fumo di sigaretta. Dimenticare tutto il resto, che non accede alla vita (la vera astrazione è viva).
Scendo al piano di sotto, dalla famigliola Thea Westreich Wagner & Ethan Wagner. Collezionisti forsennati. Hanno donato al Whitney 500 opere, più qualche altro centinaio al Beaubourg. Il curatore ce li vuole spacciare per critici interpreti della società dello spettacolo e della merce via la scelta delle opere collezionate. Onestamente mi sembra che abbiano raccattato di tutto di più, senza un vero filo conduttore, o magari solo con quello – rispettabilissimo – del loro epidermico piacere. Visto una Diane Arbus stranota, un Wojnarowicz potente, un Larry Clark fuori contesto e ridotto a patetico épateur de bourgeois (ma ormai ci vuole ben altro che un rapporto orale per épater chicchessia), un Sol LeWitt niente male, una Bernadette Corporation intelligente (Creation of False Feeling del 2000), Richard Prince che ripropone un cowboy Marlboro manipolato, un bel Philip-Lorca diCorcia, e poco più. Poi tante cose modaiole, della serie Jeff Koons e Gober di tutto il mondo unitevi. Che ci farà il Whitney con tutta questa donazione? Finirà nei depositi, ma a rotazione dovranno tirar fuori qualche opera per le sale della collezione permanente. Bel problema. È stato molto più fortunato il Museo di Brooklyn: i due Wagner gli hanno trasferito una raccolta di 11mila volumi d’arte e dell’arte contemporanea, a qualcuno serviranno.
Lasciamo perdere gli smilsi quasi inesistenti Archibald Motley e Rachel Rose. Per fortuna c’è la collezione permanente: Vito Acconci. Alechinski, Pollock, Man Ray, ecc ecc ecc. E alcuni film brevi stupendi: At Land di Maya Deren (1944), In the Street di Helen Lewitt (e James Ageee) del 1952, ripetitivo ma vivo.
Salgo all’8° piano. Ramen e sandwich con lo arctic char ottimi, anche se cari. Ampia vetrata sull’esterno: non è la terrazza del Beaubourg, ma sempre meglio di niente, e di quello che ho visto prima.
Usciamo. Lunghissima fila speranzosa, da domenica pomeriggio piovoso. Auguri. Con rabbia e con fame fotografo un angolo di street art vera accanto al museo: Cost, un attacco alle big pharma. Poi l’ingresso del Gansevoort Market, spesso di realtà. Rasserenato, rasserenati, ce ne andiamo sotto la pioggia.
Il Rubin Museum è 3 strade più su, alla 17ma. Piccolo e accogliente, poca gente, pochi oggetti, ma densi. Mi ricorda il Musée Dapper a Parigi. All’ultimo piano Becoming Another. The Power of Masks. Titolo banale, ma le maschere no. Rito e maschera: il disordine dei corpi ricondotto a gesto fisso, la varietà dei volti e delle fisionomie umane trasformata in tipi, il ganz andere (ma il correttore automatico aveva scritto: il ganzo andare …. chissà…) del sacro e del divino immobilizzato prudentemente in un simulacro accessibile e manipolabile. Bellissime le maschere del teatro No, ma anche quelle siberiane, pezzi di legno puri e poveri della loro funzione. Le terribili maschere dei demoni mongoli, le maschere trasformative e sciamaniche dei nativi della North West Coast, prolungamento della Siberia.
Fatico ad abbandonarle per scendere al piano di sotto, l’India di Steve McCurry. E’ una mostra fotografica in collaborazione con l’International Center of Photography fondato da Robert Capa. L’ICP è andato via dalla 6a Avenue e riaprirà l’anno prossimo nella Bowery, ormai rifugio forte di tutte le strutture artistiche che non possono pagare gli affitti di Midtown e di Chelsea. Belle foto, troppo belle. Colori ipersaturi, rossi assurdamente rossi, tutto estremo, tutto drammatizzato, contrasto e nitidezza forzati. McCurry non si è fidato della realtà, ha dovuto caricarla di iper realtà. Sincero probabilmente, ma estetizzante incapace di misura. Spesso penso: bello ma è troppo indianamente indiano, l’India da stereotipo che non significa India da cartolina, eppure quasi.
Passo attraverso gli altri due piani, oggetti di grande bellezza ma per me impenetrabili, il richiamo a quante cose non so, non capisco e non capirò mai veramente di tanta parte del mondo umano. Salvo forse la sensualità straordinaria e l’erotismo di alcune statuette femminili tantriche. Queste credo di capirle, e so che quasi sicuramente mi sto sbagliando. Seduto nella ricostruzione di un tempio buddista domestico, nel silenzio, nel sistema dei colori e degli odori, mi sente irrimediabilmente straniero e estraneo. La strada fuori dal museo è l’opposto di quanto (non) avviene qui dentro, ma non mi fa domande, mi lascia tranquillo, se non fosse per una nostalgia appena avvertibile di quell’altro spazio da cui sono appena uscito. [enrico pozzi]