Pensare da nazisti? Una cartografia concettuale

Johann CHAPOUTOT, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti, Torino, Einaudi, 2016, pp. 463, € 32

Nulla di ciò che si legge in questo libro è nuovo. Eppure via via il nazismo – il pensare da nazisti – diventa in qualche modo una scoperta.

Non sono nuove le articolazioni della visione del mondo nazista: la Natura come origine e legittimazione inderogabile, la Razza in quanto sua espressione storico-biologica specifica, il Popolo/Gemeinschaft come forma sociale della Razza, la Terra come sua localizzazione spaziale necessitante, il Sangue come traduzione della Razza e del Popolo in essenza vitale di corpi, la Lotta come prassi e destino, il darwinismo. E neanche sono nuove, prese una per una, le conseguenze coerenti di questa prima Gestalt su tutte le articolazioni di un sistema sociale: la trasformazione del diritto, l’attacco all’astrazione e all’universalismo, l’irrilevanza del limite, la dissoluzione dell’individuo, l’identificazione e  costruzione del Nemico, la modalità della guerra, la gestione di tutto quanto è ‘abnorme’ e/o non performante (malato, vecchio, debole, imperfetto ecc), l’immanenza biostorica e dunque l’irrilevanza delle religioni, la metanoia dell’ordine sociale sulle ceneri delle tradizioni da cancellare ecc.

Ripeto: tutto noto. La differenza? Chapoutot restituisce al “pensare da nazisti” la potenza di una visione del mondo ampia, coerente e capillare, macro e micro. Tout se tient nella Weltanschauung nazista. La sua vocazione totale investe ogni piega dell’essere-nel-mondo, giù fino ai dettagli in apparenza più marginali della vita quotidiana, dell’agire sociale, della corporeità e dell’immaginario ‘privato’ .  

Il libro è organizzato come una mappa concettuale de facto. Peccato che l’autore non l’abbia prodotta effettivamente, per es. alla fine del volume. I nodi-sorgente della rete sono i titoli delle tre parti: Procreare, Combattere, Regnare. Il corpo, l’azione, il potere. Questi verbi, cioè modalità dell’agire, stanno ciascuno al centro di una propria costellazione di nodi primari e secondari a monte e a valle. Sopra ai nodi-sorgente troviamo le categorie e i concetti astratti: l’assiomatica, la filosofia, gli Ur-valori. Sotto, a cascata, le forme della prassi sociale e della vita che ne derivano. Per es. “Procreare” rimanda a Natura, Razza, Origine, Popolo, e si traduce in Diritto, Ebreo, Nord, Restaurazione, Autenticità ecc, poi nei sub-nodi “morte del paragrafo”, il nuovo giudice, la nuova costruzione della Norma, la “antinatura”, “i puri e i forti”, “degiudaizzare il cristianesimo”, la critica dell’astrazione e dell’universalismo…

Naturalmente i nodi-sorgente rinviano gli uni agli altri, così come i loro nodi e subnodi, garantendo la compattezza del reticolo e l’intenzione totalizzante dell’ideologia. La insolita ricchezza e varietà delle fonti dà massa e forza probante allo scheletro concettuale. Ne emerge una dignità formale di vera e propria visione del mondo, la saldatura coerente e tragica di pensiero e prassi storica in grado di spiegare tutto della realtà e di orientare tutto dell’azione umana: la ‘cultura’ del nazismo.

Disturbante. Una folie à plusieurs come trama temporanea ma incandescente di un intero sistema sociale, una elaborazione paranoidea che porta nella sua organizzazione mentale e nella sua azione concreta la caratteristica centrale della paranoia: la logicità della sua costruzione, il proporsi e imporsi come «conoscenza totale» (il titolo del bel libro di Mario Rossi Monti sul pensiero paranoico), la coerenza cogente tra premesse e conclusioni operative, la consequenzialità come stile e vincolo (Chapoutot sottolinea giustamente il peso lessicale di “konsequent” nel linguaggio nazista), l’impermeabilità rispetto a tutto ciò che contraddice le premesse. E non una folie à plusieurs lenta, quanto una bouffée esplosiva, la condensazione improvvisa e abbagliante che nel giro di pochi anni – poco più di un decennio – si impadronisce del più complesso dei sistemi sociali europei, probabilmente il più ‘avanzato’ sul piano politico, educativo e culturale.

Si legge, e si realizza che il nazismo aveva un pensiero, senza virgolette distanzianti o ironiche. Un pensiero, e non una parodia di pensiero, come almeno io – malgrado tutto quanto ne ho letto per molti anni – ho sempre voluto sperare. Si legge, e con disagio e dolore si trovano frasi, toni, temi e prospettive che, in forme a volte appena diverse, sentiamo intorno a noi, nel discorso sociale, in altre ideologie di segno sperabilmente così diverso, in molte confuse generosità e aneliti. Analogie di stile profondo: la paranoia dolce o aggressiva, il modo di inventare il Nemico (magari dandogli, non sempre, nomi diversi da quelli dei Nemici del nazismo), il “tout se tient” del pensiero cospiratorio. Analogie di ossessioni: l’Identità, l’Origine, la Natura, la stupida Autenticità, la Lotta, l’ipocondria di massa… Scrive Chapoutot: « Lo studio che abbiamo presentato si basa sulla convinzione che testi, immagini e parole naziste debbano essere presi sul serio » [374]. Certo. E anche, prosegue l’Autore, sulla consapevolezza che le parole del nazismo « appartengono a un fondo di idee comuni che non è né specificatamente nazista né propriamente tedesco, ma che è europeo e occidentale » (374). « Si trattava di un aggregato di parole, di immagini e di idee che, per lo più, non erano state inventate né dai tedeschi né dai nazisti: l’antisemitismo occidentale, il razzismo coloniale, il darwinismo sociale, l’eugenismo, l’imperialismo, la paura e l’odio verso il giudeo-bolscevismo, l’angoscia e il disprezzo davanti agli Ostjuden… tutti elementi di un testo europeo e occidentale » (375). Già, ma dicendo questo Chapoutot è straordinariamente prudente, sceglie le parole che per gran parte la Storia e il senso comune sembrano aver condannato. Parole datate, eppure in forme appena diverse così attive nel nostro presente, hic et nunc, con logiche e modalità non dissimili, in visioni di conoscenza totale così apparentemente diverse da quel nazismo e da quell’Europa.

Ma torniamo al libro. La novità dell’impianto e la sua ricchezza euristica meritano il dubbio critico. Sul piano dei contenuti sono quasi del tutto assenti aree e nodi concettuali di cui non si può fare a meno. Nell’economia delle 460 pagine,  e malgrado il nodo-sorgente Procreare, la donna rimane praticamente invisibile. Riconducibile solo a “moglie e madre”, secondo lo stereotipo di tanti studi sul fascismo e nazismo? Basta appena aver letto, visto e percorso l’antropologia nazista per accorgersi che il femminile vi svolgeva un ruolo complesso, investito dal vitalismo e dalla critica al cristianesimo, simbolicamente sovradeterminato, carico di fantasmi e fantasie contraddittorie.  Chapoutot non ne è consapevole. Per lui il nazismo era una visione del mondo ‘maschile’, dove il tema dell’omosessualità, al di là dei suoi usi tattici (la Notte dei Lunghi Coltelli e la distruzione delle SA), aveva molto più peso del femminile. Altrettanto sorprendente il vuoto della categoria corpo. L’autore sembra credere che Natura, Razza ariana, enfasi sulle biopolitiche e problemi come l’eugenismo e l’eutanasia esauriscano la presenza del corpo nel nazismo. Ma il corpo è molto di più: schema corporeo, luogo della socializzazione, forma individuale del corpo sociale, vettore del rapporto d’autorità, corpo politico del seguace e del capo, corpo del Nemico interno e dell’Ebreo, ecc: «fatto sociale totale» (Mauss) e crocevia di qualsiasi visione del mondo, ma non per il Nazismo di Chapoutot. Peggio ancora per il sesso: l’autore avrebbe avuto bisogno di strumenti più fini per tracciare la presenza della sessualità nel « pensare da nazisti ».

Stesso problema con la famiglia. Chapoutot ama il diritto e si muove bene e a lungo, con qualche ripetizione, nel ripensamento nazista del diritto. Non abbastanza per spendere qualche pagina sulla famiglia nazista, i suoi modelli legali, le sue rappresentazioni esplicite e implicite, la rapida evoluzione delle policy familiari, le contraddizioni del suo ruolo nell’ambito della Gemeinschaft totale.

L’altra valutazione critica riguarda proprio la logica della mappa concettuale. I tre nodi-sorgente si giustappongono e si intrecciano. Manca però un metalivello capace di tenerli insieme, comprenderli e sussumerli in un meta-nodo unificante. Eppure pagina dopo pagina questo meta-nodo traspare, non riconosciuto e non concettualizzato. E’ il Puro, con tutti i suoi corollari: l’Originario, l’Indifferenziato che precede qualsiasi differenza, separazione o individualità, l’Uno, l’Armonico a priori,  l’Autentico, l’Evidentemente Vero, il Trasparente. L’intera cosmogonia e Weltanschauung nazista converge verso la purezza come metacategoria cognitiva, affettiva, organizzativa, relazionale. Peccato. Se Chapoutot la avesse identificata, avrebbe trovato un collante emotivo efficace per la costellazione dei nodi e dei subnodi della sua mappa, nonché dei comportamenti e atteggiamenti specifici e tipici che ne derivano. Ogni tanto vi si avvicina. Nelle pagine sulla ‘durezza’ l’esser duri si intreccia con l’esser puri. Altrove l’autenticità – altro corollario del Puro – è colta come una autoevidenza e certificazione originaria dei pensieri e delle azioni che permette di pensarli come ‘istinto’ – il « sapere innato » di Max Weber —, cioè assiomatici: « L’autenticità permette l’automatismo: è l’istinto a dettare l’azione ed è la natura ad essere necessariamente legislatrice » (375). Oppure intuisce la necessità di una metacategoria quando accenna alla funzione del Not  nella Weltanschauung nazista. Ma sono poche righe nella Conclusione, a p. 379.

Alla fine il limite più importante di questo bel libro è il suo maltusianesimo disciplinare, sorprendente per una tradizione storica come quella francese, capace di rompere tutti i confini della storia tradizionale. Chapoutot ha fatto un libro da storico e basta. L’antropologia, la sociologia, la psicologia sociale, la semiotica, la psicoanalisi, gli studi sull’immaginario e sui sistemi simbolici: tutte cose estranee al suo apparato descrittivo e interpretativo. Niente Adorno, Horkheimer e Istituto di Francoforte. Niente Freud, W. Reich, Marcel Mauss o V. Jankélevitch, e ancora tanti altri. In particolare, non gli perdono di aver ignorato Theweleit e il suo confuso ma fecondo e avvolgente viaggio nella matrice immaginaria del pre-nazismo tedesco, e dunque nella fantasmatica del Nazismo. Se lo avesse fatto, si sarebbe posto il problema dello humus antropologico del Nazismo, il suo aver distillato e portato a incandescenza componenti profonde, manifeste e latenti, della Germania pre-nazista. Il suo Nazismo è sincronico, un corto circuito improvviso e senza radici. Invece è proprio il suo magma originario,  durkheimiane « formes élémentaires du penser en nazi », che ci serve. Ora.

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