
La bravissima performer artist e docente Marta Jovanovic organizza anche quest’anno il consueto Performance Cluster del Dipartimento di Arti Visive del RUFA-Rome University of Fine Arts, in collaborazione con Elise Morrison e con la Yale University.
Il tema è cruciale per tutti noi, e sta già tutto nel titolo del libro di Elise Morrison (Discipline and Desire: Surveillance Technologies in Performance Art, 2016).
5 giorni di performance di 9 artiste internazionali. Al centro una domanda esigente. Come possono le artiste incrinare e ripensare le strutture dominanti della disciplina e del desiderio? In che modo le tecnologie di sorveglianza possono diventare strumenti di comunicazione reciproca, invece che di controllo unilaterale?
Attraverso azioni sospese tra rischio e libertà, queste donne trasformano le tecnologie che ci osservano in strumenti artistici paradossali percorsi da un dubbio ironico: chi sorveglia chi?
La presentazione e il programma qui: https://www.unirufa.it/eventi/performance-cluster-2025-discipline-desire-surveillance/
1-5 ottobre, MAXXI Corner, Via Guido Reni, Roma. Ingresso libero.
The Hollywood Report del 10 giugno 1959. Un trafiletto con un errore: Psyche al posto di Psycho per annunciare il prossimo film di Alfred Hitchcock. Guido Vitiello decide di trattare il refuso come un lapsus. Una scelta insensata e un eroismo euristico.
Di lì parte una catena associativa che non trova confini (come per ogni autentica catena associativa). Di dettaglio in dettaglio, senza neanche il pudore dell’abduzione, Vitiello si disperde a tentoni nel Bates Motel, nella tessitura oniroide di un film-pretesto e nella fantasmagoria latente di Hitchcock. Stiamo rigorosamente sui margini del testo filmico. Un quadretto su una parete. Qualche uccello impagliato. Amore e Psiche giacenti di Canova. Susanna e i vecchioni. Una statuetta di Eros. Ecc. Tutto irrilevante, dunque essenziale. Psycho come un frattale costruito con la mise en abîme di tre linee di fuga mitiche: appunto Amore e Psiche, poi Orfeo ed Euridice, poi ancora Demetra e Persefone. Su questo poggia il Bates Motel, incauto punto di passaggio tra il sopra e il sotto, luogo geometrico di reciprocità tra gli Inferi e i Cieli là su in alto alla collina. La Casa protesi del Motel come possibile Mundus patet, con l’erotismo come vettore che trasporta i vivi tra i morti, e viceversa.
A questa complessità Vitiello arriva coniugando due procedure insolite tra chi dice di occuparsi di immaginario. La prima è il metodo paranoico-critico, la proposta geniale di Salvador Dalí partendo dall’Angelus di Millet: la ‘preghiera’ devota della coppia al tramonto come scena di un crimine, il bambino morto e sepolto, la mantide omidìcida. Dalì non interpreta. Associa, sogna, e ‘vede’, perché la paranoia vede. La seconda è il metodo indiziario: la ‘verità’ è nella traccia, nel quasi-irrilevante ai margini della scena o dell’evento. “Dio è nel dettaglio”, di Flaubert, ma senza dio, alla Morelli, o Bertillon, o Sherlock Holmes, o Freud, o Warburg e l’illogicità classificatoria della sua Biblioteca.
Il punto d’incontro tra paranoia e dettaglio ce lo ha dato Pierce, nel suo racconto di come ‘seppe’ chi gli aveva rubato il prezioso strumento Tiffany affidatogli dal Governo USA. Indovinando con un inspiegabile e irriducibile cortocircuito cognitivo ed emotivo insieme, che poi volle raccontare come abduzione. Ovvero quello che fa ciascuno di noi appena vive qualcosa densamente. O che fa lo psicoanalista quando (così di rado, così pochi) sogna con il suo paziente in seduta.
Vitiello ha sognato con metodo il suo Bates Motel. La sua paranoia ci restituisce non una qualche verità più vera sul film Psycho o su Hitchcock o sull’erotismo tra Inferi e Cielo. Ma solo una narrazione possibile – la sua – vera se e in quanto risuona non solo in lui ma anche in noi come suo/nostro treno associativo.
Purtroppo la carne (euristica) è debole, e bisogna dimostrare di aver letto tutti i libri. Dalí non riesce a fidarsi del suo delirio paranoico-critico e cerca affaticate verifiche: per es. l’esame ai raggi X del quadro di Millet che confermerebbe la presenza effettiva di una tomba nascosta ai piedi della coppia. Vitiello avvolge le sue intuizioni deliranti nel falpalà di innumerevoli citazioni colte, e vi appende una bibliografia imponente. Non gli faremo l’offesa di credere che abbia letto tutte quelle robe. Oppure che tutte le sue citazioni siano autentiche e non ecolalie sapienti, ‘allucinazioni’ per dirla con il gergo AI. Le preferiamo come allucinazioni. Anche perché ci dà un indizio certo: NON cita proprio ciò che non poteva non citare. Lo Ur-scritto di Dalí (1936-1963). Spie di Carlo Ginzburg. Peirce che racconta Peirce detective. E Warburg e Morelli e l’essenziale Pierre Bayard, Comment parler des livres que l’on n’a pas lus ? (2007), di cui naturalmente va letto solo il titolo.
Detto questo, per quanto mi riguarda, uno dei pochissimi libri italiani di cinema che vale la pena di leggere. Con attenzione fluttuante. Associando.
Ciò malgrado, Vitiello insegna cose di cinema alla Sapienza (Roma).




ANTONELLA SALOMONI, Lenin a pezzi. Distruggere e trasformare il passato, Bologna, Il Mulino, 2024
Les statues meurent aussi. Così Chris Marker e Alain Resnais titolavano all’inizio degli anni 50 il loro documentario anticoloniale sull’arte africana, bloccato dalla censura per quasi un decennio.
Anche le statue di Lenin muoiono, racconta la storica Antonella Salomoni. Il punto di partenza è la frattura politica, simbolica e immaginaria introdotta dalla sua morte. Gravemente invalido da anni, ormai isolato nella sua dacia a Gorki, Lenin rimaneva ancora il padre fondatore dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il fil rouge fantasmatico che ancorava il nuovo stato socialista alla élite prerivoluzionaria poi bolscevica. La sua scomparsa rischiava di far esplodere le tensioni e i conflitti già evidenti all’interno del gruppo dirigente del PCR(b) poi PCU(b). Il vuoto aperto nell’immaginario collettivo di una società appena uscita da una guerra civile e lacerata da mille fattori diversi riapriva spinte disgregative che la prudenza della NEP non bastava a mitigare.
Così Lenin morto non poteva morire. Salomoni ricostruisce il con testo, le matrici prerivoluzionarie e i tentativi bolscevichi di inventare memoria, persistenza ed ‘eroi’ esemplari alla liquefazione sociale introdotta dalla rivoluzione. Lo stesso Lenin aveva proposto una strategia di “propaganda con i monumenti” per introdurre in gran fretta forme di persistenza nella ‘catastrofe’ (come da teoria delle catastrofi) rivoluzionaria. Questa stessa ‘propaganda’ investe ora il suo propugnatore. Lenin deve diventare monumento.
Un doppio monumento. Il corpo morto deve trascendere la morte diventando reliquia integrale e dinamica.
Breve premessa indicativa
ll mio transitare su immagini-corpi attraversa esposizioni di diverse tipologie, anche perché penso che il concetto classificatorio di tipologia sia entrato in crisi da tempo, per cui mi sembra opportuno mescolare frammenti iconici sulla base di un incerto o fragile indicatore: l’attrattore. Con questo concetto scivoloso e appiccicaticcio individuo la capacità attrattiva dell’occhio verso codici a forte o latente contenuto feticista che, nella mia previsione, possono anticipare tendenze liberatorie del pensiero dicotomico fondato sulle repliche di soggetto-oggetto in direzione di un meta-feticismo oltrepassante le stanche repliche binarie o dualiste. Il colpo d’occhio, così caro all’estetica, diventa in antropologia corpo d’occhio . A tal fine seleziono una decina di immagini, tratte da un campionario variegato composto di arte, pubblicità, cinema, merci, inserendole nelle mie fantasie antropologico-visuali.
1. OCCHIO LECCATO
All’inizio, Janine Antoni sull’occhio.
Il motivo è vedente e evidente:
la mia è un’ antropologia ottica che si plasma instancabilmente sulla potenza erotica e cognitiva dell’occhio. La pupilla deve esser umettata, o meglio, leccata da una lingua che non resiste alla forza dell’attrattore-occhio. Una lingua che, di conseguenza o necessità, si fa a sua volta attrattore che si insinua tra palpebre e ciglia per arrivare all’iride, centro mobile identificativo del soggetto e della sua estesa corporalità concentrata nella tenerezza molle della pupilla gustativa. La fissità dello sguardo che ne deriva è affine a quella dell’uscire-da-sé nel corso della relazione sessuale, con questa variazione: il sesso è genitale e l’eros è polimorfo. In questo senso, baciare l’interno dell’occhio si offre come una estensione illimitata dell’erotica possibile. Non solo. Si afferma nella visione dell’artista che il centro, o meglio, uno dei centri più sensibili e accesi, fissati , dell’umano si colloca nel flusso dell’ottica emanato dalla pupilla e baciato/leccato nell’iride.
L’opera di Janine Antoni si affaccia su alcuni autori che intorno al 1930 stavano – separati eppur connessi – affrontando con ‘ottiche’ diverse le storie dell’occhio . Qui ovviamente George Bataille è citato o evocato nel suo romanzo in cui il vero e ultimativo sacrificio sacrale dirige e affonda la pupilla nelle estreme cavità del corpo femminile, un tunnel non riproduttivo e proprio per questo generativo dell’estremo piacere; ed è noto come l’artista dadaista Hans Bellmer sia stato influenzato da questi eccessi e abbia a sua volta rappresentato nelle variazioni più corporalmente polimorfe di un’o ttica scatenata tra le pieghe di corpi dismembrati e riassemblati.
L’altro autore vicinissimo a Bataille eppure lontanissimo da lui è Walter Benjamin, che delinea un concetto esplosivo e contiguo alla storia dell’occhio: l’ incosciente ottico . Nel suo celebre saggio sull’aura, il berlinese scava nelle storie immaginate dal parigino, pur senza conoscerle, credo. Influenzato da Freud, egli “vede” che la riproducibilità tecnica di cinema e fotografia (e ora potremmo dire del digitale) espande lo spazio nel primo piano e il tempo col rallenti. In tal modo mostra tratti del corpo umano concentrati nel viso o nel movimento che prima erano inimmaginabili nell’arte auratica.
Si svela qualcosa di segreto per la prima volta nella storia sia dell’occhio che dell’umanità: le relazioni anzidette tra cervello e sguardo non sono e non saranno mai più del tutto simmetriche. Le capacità sessuali,

La Strega è nuda.
Nella Villa dei Misteri a Pompei è rappresentata l’iniziazione di una fanciulla in un culto misterico. A iniziazione avvenuta, dopo essere morta e risorta, la fanciulla danza felice, divina – e nuda.
Nei rituali iniziatici accadeva spesso di spogliarsi. Il più importante storico della stregoneria in attività, Ronald Hutton, ha osservato che, al di là di questi riti, la nudità è rara nella pratica religiosa, ma è comune in quella magica – e, possiamo aggiungere, un’iniziazione misterica unisce le due.
Un incantesimo di folk magic inglese richiede che una donna che non riesce ad avere figli vada nel suo orto nuda la vigilia di Mezza Estate. O, se una donna volesse avere una visione del suo futuro marito, potrebbe fare di peggio: andare a correre nuda
« I neonati popperanno gli occhi bagnati delle loro madri » dice lo shakespeariano Duca di Bedford nella Prima Parte dell’Enrico VI, v. 50. Bedford prevede gli anni miseri che seguiranno la morte del re e aggiunge, sviluppando l’immagine, che l’Inghilterra « sarà nutrita di lacrime salate ». È la metafora dell’occhio/capezzolo e del volto/seno, studiata per la prima volta da Renato Almansi nel suo articolo « The Face-Breast Equation »1. Almansi si basa a sua volta su ricerche precedenti.
Nel 1938 lo psicoanalista viennese Otto Isakower aveva pubblicato «A Contribution to the Patho-Psychology of Phenomena Associated with Falling Asleep »2, l’articolo classico che identifica il cosiddetto « fenomeno Isakower ». Nella successiva descrizione di un ricercatore, questo evento ipnagogico
è caratteristicamente ricordato o rivissuto dall’individuo come la sensazione visiva di una grande massa pastosa e nell’ombra, di solito rotonda, che si ingrandisce avvicinandosi sempre più al suo viso e si gonfia fino a raggiungere dimensioni gigantesche minacciando di schiacciarlo, per poi ridursi gradualmente e allontanarsi. Spesso si ha la percezione indistinta di una forma violacea simile all’area del capezzolo del seno. La massa che si avvicina sembra diventare lentamente parte di lui, oscura i confini tra il suo corpo e il mondo esterno e sfoca sempre più il suo senso di sé. Tutto ciò è tipicamente accompagnato da sensazioni di ruvidità tattile sulla pelle e all’interno della bocca e da un sapore lattiginoso o salato in fondo alla gola. Spesso si avvertono sensazioni di galleggiamento o di perdita di equilibrio. Altro aspetto interessante: alcuni individui ricordano di aver prodotto volontariamente l’esperienza o di averla prolungata.3
Seguendo Freud, Isakower sostiene che « quando ci addormentiamo, l’Io ritrae il suo interesse e i suoi investimenti dal mondo esterno » [336]. Questo ritiro graduale permette la « rinascita di atteggiamenti dell’Io molto precoci », e Isakower asserisce che i fenomeni da lui riportati rappresentano impronte di « immagini mentali di suzione del seno materno e dell’addormentarsi al seno una volta soddisfatti » [341]. Hilda Doolittle offre un possibile analogo del fenomeno quando parla dell’esperienza apparentemente allucinatoria che descrisse a Freud come « la sensazione trascendentale dei due globi o dei due semiglobi trasparenti che mi racchiudevano ». Il saggio di Isakower non era ancora stato pubblicato e Freud evidentemente acconsentì alla supposizione della poetessa di essere tornata al grembo materno in « una qualche forma di fantasia prenatale »4.
Bertram Lewin, in una serie di articoli pubblicati tra il 1946 e il 1953, ha discusso il fenomeno Isakower in relazione a quello che ha chiamato « lo schermo del sogno » e anche « la classe dei sogni vuoti ». Per Lewin, « lo schermo del sogno » costituisce un elemento visivo nel conglomerato isakoweriano di allucinazioni visive e non visive relativamente informi. Come suggerisce il nome, lo «schermo del sogno » di Lewin è lo sfondo su cui il sogno proietta le sue immagini: « È piatto o quasi, come la superficie della terra, perché è geneticamente un segmento dell’ampia rappresentazione dell’emisfero mammario elaborata dal bambino »5. La terza categoria di Lewin, la classe dei sogni vuoti, [……..]
Un bell’evento di Medical Humanities a Londra. Non è la solita storia di “letteratura e malattia”: alcuni temi nuovi, alcuni paper molto interdisciplinari, il ruolo della fotografia, l’importanza della guerra.
Per chi si interessa di rappresentazioni sociali della malattia fisica e mentale, è un appuntamento interessante.
Un solo interrogativo, che è rimpianto e auspicio: a quando anche per l’Italia qualcosa di simile, con la stessa complessità di approccio e lo stesso superamento della ‘letteratura’ da stantii letterati d’accademia?
Ovvio il riferimento a poderosi e scontati incontri tra professori di letteratura di chiara fama, purtroppo, e psicoanalisti SPI. La ricerca dinamica di una presenza nuova della SPI e della psicoanalisi nella società italiana farebbe bene a evitare l’ipse dixit e i nomi ‘garantiti’ dal ruolo accademico. C’è così tanto altro in giro, ben più vivo e capace di avventura intellettuale. E ad altre audacie la psicoanalisi ci aveva educati.
Narrazione di un cadavere annunciato: la morte del lider maximo su Twitter
Onnipresente eppure sempre più invisibile, deus absconditus, il corpo di Castro era da tempo la sintesi esemplare del doppio corpo del Re (Kantorowicz) e della dialettica tra Body Politic e Body Natural. Malato, degradato, ma politicamente non autorizzato a morire. Fino al 26 novembre scorso.
Dopo Gheddafi, Steve Jobs, Michael Jackson, Chavez ecc, abbiamo raccolto un altro corpus sul cadavere del potere. 1,2 milioni di tweet in inglese, italiano, spagnolo, portoghese, tedesco e francese che citano Castro nel testo, pubblicati tra la mattina del 26 novembre e il 4 dicembre: dalla notizia della morte fino ai funerali di stato.
Per chi vuole studiare con gli strumenti adatti questo caso-limite di rappresentazioni sociali del corpo del potere, ecco il link: https://www.ilcorpo.com/it/materiali/archivi_22/corpi-del-potere_21/materiali/narrazione-di-un-cadavere-annunciato_88.htm. A questo link tutte le indicazioni necessarie. (ep)
Dal 2000 ENGRAMMA, la bella rivista fondata e diretta da Monica Centanni (IUAV, Venezia), esplora e prosegue la grande impresa di Warburg. Il motto warburghiano Zum Bild das Wort è il filo rosso di una ricerca che ha portato ENGRAMMA a inseguire le metamorfosi dell’immagine e delle sue parole in direzioni molto diverse e mai eterogenee: Alessandro il Grande, Schifanoia, Laocoonte, l’Ara Pacis, il Cinema e la Tradizione classica, Pasolini ecc ecc ecc.
Costante in questi 16 anni il lavoro diretto su Warburg stesso, e sull’Atlante Mnemosyne. Così anche in questo n. 138, “Dal cosmo all’uomo e ritorno”, con una nuova traduzione e edizione critica della Einleitung del 1929 al Bilderatlas, e con una complessa analisi e commento alla Tavola B.
Da leggere, per chi, come noi, crede all’immagine e alle sue stratificazioni come “via regia” verso le aree latenti del Sé e del sociale.