Libro prestato e mai restituito, uno dei molti pegni di un rapporto finito.

L’ho inseguito per anni su ebay, Abebooks ecc. Non la brutta riedizione Sellerio, ma la prima, quella Laterza. Alla fine l’ho trovato, ingiallito quanto basta.

Cercavo le foto. Avevo paura di un ricordo idealizzato. Invece ho provato lo stesso piacere di allora, con in più la nostalgia di un mondo e di un pezzo di vita perduti.

Avevo conosciuto Annabella Rossi per caso. Mi aveva cercato al mio ritorno dalla prima volta negli Usa. Non so chi le avesse dato i miei contatti. Voleva incontrarmi per un progetto di “indagine politica”. Ci vediamo a casa sua, in via della Lungaretta. Grandi occhi neri, vestita di scuro, presenza fisica invadente, occupava lo spazio, tono tra l’appassionato e l’aggressivo. Mi presenta il compagno, il documentarista Michele Gandin. Ha sentito parlare bene di me (da chi?). (continua)

Partiamo dal racconto di Pierre Déléage, La folie arctique.

Émile Petitot, francese, Oblata di Maria Immacolata, parte come missionario in Canada nel 1862. La sua destinazione finale è la piccola missione cattolica di Nostra Signora della Buona Speranza, in terra Dene, annessa al Fort Good Hope, sul fiume MacKenzie, area del Great Bear Lake. Qui trascorre 12 anni. Frequenta assiduamente le tribù locali. Prova all’inizio una forte repulsione fisica. Presto è attratto sempre più intensamente. Le giovani lo corteggiano con audacia insolente. Ma il missionario è sedotto dai ragazzi. Li spia da lontano, li segue nella foresta, si masturba di continuo in cerca di pace. Gli piacciono i loro corpi, e anche il loro modo di vivere, nomade su territori immensi e vergini, in apparenza senza confini, lo spazio giusto per il suo bisogno di perdere gabbie, vincoli e limiti.(continua)

Johann CHAPOUTOT, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti, Torino, Einaudi, 2016, pp. 463, € 32

Nulla di ciò che si legge in questo libro è nuovo. Eppure via via il nazismo – il pensare da nazisti – diventa in qualche modo una scoperta.

Non sono nuove le articolazioni della visione del mondo nazista: la Natura come origine e legittimazione inderogabile, la Razza in quanto sua espressione storico-biologica specifica, il Popolo/Gemeinschaft come forma sociale della Razza, la Terra come sua localizzazione spaziale necessitante, il Sangue come traduzione della Razza e del Popolo in essenza vitale di corpi, la Lotta come prassi e destino, il darwinismo. E neanche sono nuove, prese una per una, le conseguenze coerenti di questa prima Gestalt su tutte le articolazioni di un sistema sociale: la trasformazione del diritto, l’attacco all’astrazione e all’universalismo,(continua)

Eugenio BORGNA, L’indicibile tenerezza. In cammino con Simone Weil, Milano,  Feltrinelli, 2016, 18€

Generoso, questo libro di Eugenio Borgna su Simone Weil. Disperatamente empatico. Eppure inutile. Borgna (ma avevo scritto Sbornia – potenza interpretativa dell’inconscio…) si disperde nel suo oggetto, e in questo modo perde l’oggetto. Dopo 218 pagine verbosamente appassionate, Simone Weil rimane lontana, incomprensibile, e non per eccesso di senso, ma per difetto di distanza critica.

Lo psichiatra Borgna rivendica da sempre la matrice fenomenologica della sua psichiatria. Questa grande scuola filosofico-psichiatrica gli serve per proporre e difendere la comprensione della sofferenza psichica, che ha sempre un senso. Su questo Borgna innesta un afflato religioso potente, fatto di misericordia e di riconoscimento della dignità assoluta della persona sofferente, del suo discorso verbale e del suo comportamento. L’esito sperato è una strategia spontanea della immedesimazione come accesso al mondo dell’altro, e come breccia terapeutica. L’esito possibile è una relazione quasi mistica con la persona sofferente, relazione che acceca lo sguardo.

Questo libro su Simone Weil è esemplare della trappola confusiva – per di più desiderata, e considerata conoscenza – che attende Borgna al varco. (continua)

 

L’installazione. Tre frammenti.

Vincenzo PADIGLIONE, Soggetti disorientati, Castello di Rocca Sinibalda (2014)

 

In primo piano un corpo-feticcio composto da centinaia di oggettini vari, che rimandano tutti all’etnico: bamboline multicolori di ogni continente, boccette, amuleti, borse esotiche, calebasse, pannocchie, manioc, braccialetti e collane, ecc. Il corpo è abbandonato a terra, morto e/o esposto, totalmente vulnerabile, senza pelle dunque senza più interno o esterno, illimitatamente trasparente allo sguardo predatorio o acquisitivo (è la stessa cosa) del turista.  Al vertice del corpo una testa-maschera ovvia – di quelle che si vedono di più in giro e subito si dice: è una maschera africana. Ma anche una testa ‘colta’, le Demoiselles d’Avignon di Picasso, il primitivismo delle avanguardie, la complicità tra turisti che si credono viaggiatori.

 

Vincenzo PADIGLIONE, Soggetti disorientati. Il primo corpo (2013)

 

In secondo piano, il corpo-storia, il Leib tramortito dalle vicende del sociale, il Körper della geopolitica. La stessa vulnerabilità, ma senza la redenzione del sublime estetico o almeno il variegato sorridente dell’esotismo. Stracci, plastica, cartoni, colori senza colore dei resti di supermercato, legacci che tengono precariamente insieme le disjecta membra. Cadavere del tutto opaco allo sguardo, sola superfice, esterno privo del diritto ad avere un interno. Corpo ready made cubista. Residuo di consumi poveri, surrogato artificiale della carne, detrito, non valore.  Oggetto abbandonato al suolo ma in realtà leggero, fatto di ciò che il mare fa galleggiare e abbandona sulle spiagge. Forma priva della possibilità di una identità, volto di individuo-genere, astratto, che forse un tempo ebbe un nome.

 

V. Padiglione, Soggetti disorientati. il secondo corpo (2013)

In terzo piano, un frammento di barcone improbabile e naufrago, il punctum della installazione. Da un lato, il punto d’arrivo della narrazione, il suo – letteralmente – esito. Dall’altro, il contenitore che serve da frame di senso per l’insieme dei tre oggetti: dice la ragione della loro coesistenza e contiguità, esprime il loro percorso abortito, li costringe ad essere parte di una stessa rappresentazione cognitiva ed emotiva, si propone come stenogramma di una storia. Esprime lo strumento e l’atto del migrante, e in questo modo ci spiega che appunto col migrante, col suo corpo e con il suo immaginario ci stiamo rispecchiando.

 

V. Padiglione, Soggetti disorientati. Il barcone (2013)

 

Sul barcone spezzato c’è l’unica presenza di corpo vero in questa installazione di corpi: il sangue. Astorico, universalistico, agisce da ponte tra i due soggetti che si stanno incontrando nella rappresentazione: il Turista e il Migrante, il consumatore di etnicità e il viaggiatore autentico. Solo e sempre rosso, il sangue consente meno la messa a distanza dello straniero, apre la possibilità fragile del mirroring e dell’empatia, crea un campo di esperienza condivisibile dell’umano. O almeno ci fa credere che questo sia possibile.

Fin qui efficace, ‘bello’ e conforme al politicamente corretto. Ma Padiglione per fortuna va oltre.

Partiamo dal primo dei due corpi. Ironica rappresentazione dello sguardo del turista che permea di etnicità ed esotismo le nostre percezioni del migrante. Ma anche e soprattutto messa in scena della fatalità cognitiva e esperienziale dell’etnocentrismo. Per quanto faccia e voglia, il più illuminato, ‘buono’  e universale degli osservatori non può uscire dal suo punto d’osservazione, dalle categorie, dalle rappresentazioni profonde, dall’immaginario sociale e individuale che il suo stare-nel-mondo gli costruisce dentro. Non si evade dalla matrice che la socializzazione e la storia ci hanno costruito nella carne e nella mente. I quadri sociali della conoscenza e delle emozioni non sono territori transitabili a volontà, o vestiti che si può scegliere di indossare o meno. Sono la mappa senza la quale non c’è territorio. Solo con dolorosi sforzi, rischi e metodologie feroci di spaesamento possiamo accedere in modo intermittente a marginali scarti rispetto a questo nostro esser fatti di un sociale localizzato e storicamente vincolante. Possiamo intuire a tratti, con ampie aree di errore, frammenti del mondo dello straniero. Credere che lo capiamo – meglio, che lo comprendiamo – appartiene al delirio onnipotente dell’universalismo, la fantasia di poter abbracciare nel proprio Io la molteplicità delle esperienze del mondo non come fondamentale rispetto formale ma come immedesimazione sostanziale. Non si è l’umanità, si è ciò dove si è diventati zoon politikon. Da lì, dal riconoscimento umile di questo limite e della parzialità di questo confine, ci si può avventurare verso frammenti di altri universi, a noi sempre per gran parte estranei nella carne. Il regard éloigné è un sussulto dello sguardo, non una sua condizione strutturale. Ancora più spesso, è una illusione, come gran parte dell’antropologia e dell’etnologia dimostra, e come la psichiatria/psicoterapia transculturale non può riconoscere se non a condizione di riconoscersi per larga parte impotente. Homo sum, humani nihil a me alienum puto. Davvero?

Lo sguardo del viaggiatore è sempre crudele. Il Turista-antropologo di Padiglione vorrebbe vedere l’Altro in quanto altro. Vede solo la paccottiglia che vedono tutti, le bambolette, le collanine, i vetrini multicolori. Ma almeno lo sa, accetta di saperlo. Così, quando poi guarda il corpo ‘vero’ dell’altro, il secondo corpo, ne vede l’impenetrabile superfice, vera quanto la paccottiglia, un poco più vera proprio perché deve ammettere che è opaca, non conoscibile se non a tratti radi e con la mediazione del sangue.

L’installazione di Vincenzo Padiglione ci restituisce l’etnocentrismo non come difetto della ragione o come stortura etica ed emozionale, ma come fatalità e tragedia. In La morte della tragedia, George Steiner coglie nel Macbeth, atto V, 8, il momento definitivo di svolta nella percezione occidentale – sottolineiamolo con ironia: occidentale –  del tragico. Macbeth si trova davanti Macduff. Già – profezia delle streghe – il bosco di Birnam ha camminato verso il castello. Già Macbeth è diventato effettivamente Re. Ora scopre che Macduff è il non nato di donna che lo sconfiggerà. Due profezie si sono avverate, la terza non può non avverarsi. Malgrado la certezza della sconfitta, Macbeth si lancia in un duello inutile: And damn’d be him that first cries, ‘Hold, enough!’. La stessa inutilità tragica eppure irrinunciabile sta al cuore dell’etnocentrismo critico. Non possiamo pensare senza classificazioni, ovvero senza stereotipi. Allo stesso modo non possiamo uscire da noi stessi. Je est un autre è un progetto solo estatico e poetico. Possiamo assumere però come progetto etico e necessità storica, emozionale, la vana tensione estatica fuori da noi stessi, oltre il limite, tollerando di sapere che è vana, e che oltre il limite si incontra quasi sempre solo lo specchio del limite, non il presunto Altro, con quella patetica A maiuscola.

Joseph Losey è un regista da tempo quasi dimenticato. Aveva rappresentato con sottigliezza i modi in cui il nostro contesto di vita è il confine praticamente insuperabile della nostra vita perché produce ciò che per noi è la realtà. Un suo film del 1970 – Caccia sadica (Figures in a landscape) – racconta la fuga senza fine di due individui inseguiti da un elicottero mentre cercano di raggiungere un misterioso confine sui monti tra la neve. Ci riescono, ma coloro che li accolgono dall’altra parte hanno esattamente le stesse facce e modi e vestiti e occhiali neri di coloro che li inseguivano. Così il Turista-antropologo fugge senza fine via dal corpo-paccottiglia del Migrante verso il suo corpo ‘vero’, ma quello che trova è ancora e sempre quel corpo-paccottiglia costruito dalla sua propria realtà e fatto di avanzi di rappresentazioni dell’altro prodotte appunto da questa realtà. Rimane a salvarlo l’atto della fuga in avanti verso quella ‘cosa’ irraggiungibile che è  la realtà come è per l’altro. Qui sta la torsione critica dell’etnocentrismo, il suo scandalo politicamente scorretto, la béance che lo richiama continuamente alla sua vocazione tragica. Così forte in Ernesto de Martino, così smorta nei suoi commentatori. 

Padiglione ci mostra anche un’altra via d’uscita: i piaceri della coscienza infelice hegeliana di questa tragicità. La traduzione estetica dell’etnocentrismo critico demartiniano comporta la tentazione del sentirsi anima bella, ancorché tragica, appunto perché tragica. Una  Schadenfreude esaltata dalla nobiltà rassicurante della colpa per quella paccottiglia e per quel sangue: colpa epistemologica, storica, disciplinare. Roba da anime belle. Ma di questo la bellezza della sua installazione non ha colpa. Anzi,  proprio questa sua forza estetica ci sospinge per qualche attimo fuori dal solipsismo tragico (cognitivo, vissuto) del nostro stare-nel-mondo, e ci restituisce, sempre per qualche attimo, all’altra tragedia, quella della carne e della nuda vita, il punto di vista del barcone e del sangue.

Stefano PIVATO, I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, Bologna, Il Mulino, 2013,  pp. 184

 In un articolo del 1898, tradotto da Durkheim per la propria rivista, Georg Simmel si è chiesto  Comment les formes sociales se maintiennent («L’Année sociologique»,  Première année, 1896-97, ma 1898, pp. 71-109).  Prima ancora che le possibili risposte, conta la domanda. Il sociale non è ovvio. Lo si può anche vedere come una ‘cosa’ indipendente dagli individui che la costituiscono. Resta il fatto che il sociale è aggrappato ai corpi che lo compongono. Senza questi corpi nessuna società concreta esiste. I corpi hanno però la pessima abitudine di morire. Ogni individuo che muore minaccia di morte la società di cui è componente irriducibile. Di qui il problema: come fanno le società a garantirsi una qualche  immortalità a partire dalla mortalità dei loro membri? Come sopravvivono al loro ricambio biologico, al passaggio delle generazioni? Come continuano?

Simmetricamente, ecco il problema della discontinuità. Come fa una società a non morire quando vive una catastrofe, ovvero un cambiamento radicale del proprio stato? Come si impadronisce della continuità sociale chi mette in atto soluzioni di continuità tra il passato, il presente e il futuro di una società? Il rivoluzionario che fa crollare un sistema politico e sociale sa bene che quel sistema aveva già costruito e sedimentato la propria sopravvivenza nella generazione successiva. Per durare, il rivoluzionario deve scardinare le modalità e i contenuti di quella sopravvivenza, e sostituirvi i propri. Deve afferrare a sé la generazione che segue la sua, la prima generazione dopo la sua e dopo il cambiamento catastrofico. Lì si gioca la partita autentica della rivoluzione.

Nella continuità come nella discontinuità, il problema è il processo di socializzazione. La costruzione sociale dell’infante come membro di una determinata società  le permette di mantenere  in qualche modo le proprie forme sociali con procedure e strumenti relativamente consolidati. Chi vuole spezzare quelle forme sociali deve invece disintegrare queste procedure, strumenti e contenuti per sostituirvene altri spesso estranei, privi di legittimità, inadatti a usufruire dei percorsi già consolidati. Per di più ha poco tempo: le generazioni durano poco, i cambiamenti radicali si vanificano in fretta se non riescono  a organizzare la propria riproduzione sociale rapida. Quale che sia la natura della sua ‘rivoluzione’, il rivoluzionario è in corsa contro la morte della propria generazione. Se perde la corsa  – così almeno lui lo vive – la rivoluzione è fallita, cioè finita.

Politiche, sociali, economiche, tecnologiche, religiose, scientifiche, erotiche: tutte le catastrofi-rivoluzioni producono in fretta – con disperazione – le strategie della loro discontinua continuità. Alla fin fine fanno tutte più o meno le stesse cose: trasformare la rivoluzione in conflitto generazionale  (giovinezza giovinezza, i giovani contro i vecchi in tutte le innumerevoli varianti del gioco), occupare le strutture della socializzazione primaria e secondaria (scuole, ruoli sessuali, famiglie, i media, la comunicazione sociale, i simboli, i riti), plasmare consapevolmente l’immaginario collettivo.

Questo il livello dell’azione razionale. I fantasmi giocano una partita più radicale. La modalità più primitiva per impadronirsi totalmente di qualcosa è il divoramento. Quando inghiotto l’oggetto, esso viene introiettato, diventa me, mi compone e lo compongo in una simbiosi senza confini. La soluzione di continuità introdotta dalla ‘catastrofe’ si traduce nella più assoluta delle continuità, l’essere tutt’uno. I rivoluzionari e i loro avversari chiamano in gioco la matrice fantasmatica più primitiva, mangiare ciò che va ‘assimilato’ nel nuovo. Per questo nelle narrazioni del cambiamento catastrofico è così ossessivamente presente il “mangiare i bambini” come traduzione delirante della lotta intorno alla socializzazione e risocializzazione.

Per questo i comunisti mangiano i bambini, ovviamente.

Stefano Pivato non ha nessuna consapevolezza della posta in gioco dietro quella che chiama una “leggenda”, e per la verità neanche si pone troppe domande sullo statuto storiografico, sociologico e psicologico-sociale delle cosiddette leggende (non basta certo il solito Bloch). Raccoglie materiali vari, alcuni divertenti, altri significativi, altri ancora piuttosto inutili o ripetitivi. Restituisce la sensazione di una qualche guerra intorno all’infanzia nell’immaginario politico-sociale italiano, condensata dal tema dei comunisti che mangiano i bambini, ma lì si ferma. La specificità del divoramento, il carattere primitivo dei fantasmi che sottende, le logiche complesse della introiezione, il lessico delle narrazioni ‘alimentari’, la traduzione ‘orale’ della politica: tutti aspetti ai quali rimane indifferente.

Da tutto ciò vengono forzature descrittive e errori di metodo. Ad es. Pivato fa rientrare nella propria ricostruzione anche un tema parallelo: l’uso dell’infanzia nella propaganda bellica (combattere per salvare i propri bambini dal nemico ecc: tutto il capitolo III).  Ma qui il ‘divoramento’ si perde per strada e il cannibalismo non c’entra più nulla.  Goffo poi, nel cap. II, il collegamento tra le leggende cannibaliche intorno all’URSS bolscevica e le realtà cannibaliche collegate alla guerra civile, alla collettivizzazione agricola, al Gulag, alle carestie. Pivato evidentemente non legge il russo, lavora su pochissime fonti (soprattutto Figes), ignora le moltissime altre disponibili anche non in russo, e soprattutto sembra pensare ad un qualche legame tra eventuali cannibalismi effettivi – talvolta su bambini – e la nascita della leggenda in Italia. Come se le leggende fossero traduzioni immaginarie della realtà e non obbedissero invece a logiche proprie, intrinseche ai loro copioni strutturali e alle loro funzioni nelle matrici immaginarie della politica.

Un libro ‘leggero’, rapido e senza complessità, e neanche di uno studioso alle sue prime prove (ammesso che questo giustifichi alcunché). Un libro interessante soprattutto come sintomo di quanto per la grande maggioranza degli storici italiani rimanga difficile integrare nel proprio lavoro prospettive, quadri concettuali e modelli ibridi, ‘sporcati’ da altre discipline, anche solo da altre scienze sociali: la sociologia, la psicologia sociale, l’antropologia, la semiotica, l’etnologia.  Ma anche per la striminzita storia praticata dai nostri storici, un intero volume su una leggenda antropofagica senza nessun uso della letteratura enorme sull’antropofagia è impresa non banale.  (enrico pozzi)

251.514.208:  sono i risultati di Instagram se si cerca il tag selfie.

Se ne parla ovunque, con interpretazioni discordanti: nuovo narcisismo per alcuni, democratizzazione del ritratto per altri, nuova variante del lamento collettivo sulla gioventù dannata o occasione di glorificazione dei nuovi media. Per sfuggire sia all’iconoclastia digitale che all’autoidolatria iconica, abbiamo pensato che forse il modo migliore per capire i selfie è quello più ovvio: studiarli. Ma come? In qualche giorno uno spider sofisticato potrebbe riuscire a scaricare i milioni di selfie e con software di analisi delle immagini e linguistici, si riuscirebbe forse ad ottenere qualche prima indicazione. A noi però non interessano i selfie come maschera defunta, ci interessano come elemento vitale e dinamico di identità e relazione, perché così sono usati. Il selfie racconta qualcosa a chi lo scatta e a coloro con cui viene condiviso, questo gli dà vita e senso. Allora perché non raccogliere i selfie con la loro storia?(continua)

Eda KALMRE, The Human Sausage Factory. A Study of Post-War Rumour in Tartu, Amsterdam, Rodopi B.V., 2013, 180 p.

Il racconto ha l’evidenza archetipica del mito cannibalico e la struttura narrativa della leggenda metropolitana. Io non c’ero e dunque non ho visto direttamente. Ma una persona di cui mi fido totalmente mi ha riferito che…

In questo caso il narratore è un anziano signore che vive a Tartu, capitale dell’Estonia. Legge sul giornale locale, il Tartu Postimees,  l’intervista ad una giovane ricercatrice. Riordinando gli archivi del Museo del Folklore Estone, Eda Kalmre ha trovato svariate tracce di una voce su una fabbrica di Tartu che produceva salsicce con carne umana. Interrogata da un giornalista, ha classificato questa voce come una tipica horror story, un racconto dell’orrore. Il lettore insorge: la storia è vera, gliela ha raccontata il padre, di cui ovviamente si fida e che ne è stato testimone diretto.

Ecco il canovaccio. Poco dopo la fine della guerra, 1947. Il padre sta al mercato di Tartu. Arriva una donna urlante e ferita. Grida che stanno ammazzando delle persone in un edificio in rovina a qualche centinaio di metri. Una dozzina di passanti, tra cui il padre del narratore, corrono verso il luogo, penetrano tra il filo spinato e le brecce nelle mura, trovano pezzi di corpi, capelli, quaderni di scuola, mucchi di vestiti. La donna – una lattaia – racconta di essere stata avvicinata al mercato da un Russo (continua)

FRANCESCO DIMITRI. Precipitare nella realtà. Storie del*dal Necronomicon / Collapsing into reality. Stories about*from the Necronomicon. / Sombrer dans le réel. Histoires du*à partir du Necronomicon

Il Necronomicon è un libro di magia inventato dallo scrittore pulp H. P. Lovecraft. Molti lettori credettero che fosse un vero libro, e con il tempo lo è diventato. Ecco la storia dettagliata di come è successo: un episodio che mette in luce alcuni meccanismi di interscambio tra immaginario e realtà, tra il mondo delle idee e il mondo delle cose.

Il Necronomicon è un libro di magia inventato dallo scrittore pulp H. P. Lovecraft. Molti lettori credettero che fosse un vero libro, e con il tempo lo è diventato. Ecco la storia dettagliata di come è successo: un episodio che mette in luce alcuni meccanismi di interscambio tra immaginario e realtà, tra il mondo delle idee e il mondo delle cose.

The Necronomicon is a book of magic, brainchild of the pulp writer H. P. Lovecraft. Many readers believed it was an actual book, and in time it has become real. This is the detailed story of how the construction of this delusion happened: an episode that sheds some light on the regulatory mechanisms at the crossroads between reality and imagination, between the world of ideas and the world of things.

Le Necronomicon est un livre de magie, enfanté par l’écrivain pulp H. P. Lovecraft. De nombreux lecteurs (continua)

A ritual to undo time  

 “I was found and contacted by many of my ex-schoolmates, but apart from exchanging news about our everyday lives, nothing much came of it. But then, a few weeks later, a dear old friend of mine with whom, for several reasons, I had had a falling out eight years ago, found the courage through Facebook to apologize for what she had done and re-connect with me. I would say that’s quite an achievement for a “simple” internet site. My friend and I have started seeing each other again, have cleared up our misunderstandings, and now confide in one another just like we used to eight years ago. Thanks Facebook!”

Thousands of similar stories could be told by Facebook users. This reminds me of the behaviour of an obsessive-compulsive patient described in a book many years ago by Elvio Fachinelli called The frozen arrow and three attempts to undo  time.(continua)

V. CALLIERI   Lupus in lectore. Archeologia di Luciano Liboni come anti-eroe
Lupus in lectore. An archeological inquiry into the killer Luciano Liboni as an antihero
Lupus in lectore. Archéologie du meurtrier Luciano Liboni en tant qu’anti-héros.

Il 22 luglio 2004 Luciano Liboni, un piccolo criminale di provincia, sceglie di diventare un anti-eroe uccidendo inutilmente un carabiniere nelle Marche. 9 giorni dopo viene ucciso da un altro carabiniere a Roma. Tra queste due date si sviluppa la costruzione sociale e mediatica di Liboni come folk hero negativo. L’autore la indaga utilizzando il percorso, le fasi e i topoi della invenzione dell’eroe mitico sulla base del modello proposto da Joseph Campbell. In questo caso l’eroe – chiamato il Lupo nei media e nel discorso sociale – si configura come mostro sul confine tra natura e cultura, belva anomica che oppone il zoon al politikon, contenitore in cui il sociale colloca ciô che rimuove e nega dentro di sé.(continua)