Johann CHAPOUTOT, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti, Torino, Einaudi, 2016, pp. 463, € 32

Nulla di ciò che si legge in questo libro è nuovo. Eppure via via il nazismo – il pensare da nazisti – diventa in qualche modo una scoperta.

Non sono nuove le articolazioni della visione del mondo nazista: la Natura come origine e legittimazione inderogabile, la Razza in quanto sua espressione storico-biologica specifica, il Popolo/Gemeinschaft come forma sociale della Razza, la Terra come sua localizzazione spaziale necessitante, il Sangue come traduzione della Razza e del Popolo in essenza vitale di corpi, la Lotta come prassi e destino, il darwinismo. E neanche sono nuove, prese una per una, le conseguenze coerenti di questa prima Gestalt su tutte le articolazioni di un sistema sociale: la trasformazione del diritto, l’attacco all’astrazione e all’universalismo,(continua)

A. CAMPI, L. VARASANO (a cura di), Congiure e complotti. Da Machiavelli a Beppe Grillo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2016, €16

Un presentimento: toccherà occuparsi sempre più della paranoia come modello ordinatore del sociale, e del discorso paranoico come forma princeps del discorso pubblico.  L’era delle ideologie nascondeva l’organizzazione paranoidea del pensiero dietro la nuvola dei sistemi di valori e delle filosofie della storia. La fine delle ideologie toglie questi orpelli. Ora la paranoia, messa a nudo, vive apertamente la sua gloria euristica e la sua potenza emozionale.

Ben venga tutto ciò che aiuta a capire la Bestia. (continua)

 

L’installazione. Tre frammenti.

Vincenzo PADIGLIONE, Soggetti disorientati, Castello di Rocca Sinibalda (2014)

 

In primo piano un corpo-feticcio composto da centinaia di oggettini vari, che rimandano tutti all’etnico: bamboline multicolori di ogni continente, boccette, amuleti, borse esotiche, calebasse, pannocchie, manioc, braccialetti e collane, ecc. Il corpo è abbandonato a terra, morto e/o esposto, totalmente vulnerabile, senza pelle dunque senza più interno o esterno, illimitatamente trasparente allo sguardo predatorio o acquisitivo (è la stessa cosa) del turista.  Al vertice del corpo una testa-maschera ovvia – di quelle che si vedono di più in giro e subito si dice: è una maschera africana. Ma anche una testa ‘colta’, le Demoiselles d’Avignon di Picasso, il primitivismo delle avanguardie, la complicità tra turisti che si credono viaggiatori.

 

Vincenzo PADIGLIONE, Soggetti disorientati. Il primo corpo (2013)

 

In secondo piano, il corpo-storia, il Leib tramortito dalle vicende del sociale, il Körper della geopolitica. La stessa vulnerabilità, ma senza la redenzione del sublime estetico o almeno il variegato sorridente dell’esotismo. Stracci, plastica, cartoni, colori senza colore dei resti di supermercato, legacci che tengono precariamente insieme le disjecta membra. Cadavere del tutto opaco allo sguardo, sola superfice, esterno privo del diritto ad avere un interno. Corpo ready made cubista. Residuo di consumi poveri, surrogato artificiale della carne, detrito, non valore.  Oggetto abbandonato al suolo ma in realtà leggero, fatto di ciò che il mare fa galleggiare e abbandona sulle spiagge. Forma priva della possibilità di una identità, volto di individuo-genere, astratto, che forse un tempo ebbe un nome.

 

V. Padiglione, Soggetti disorientati. il secondo corpo (2013)

In terzo piano, un frammento di barcone improbabile e naufrago, il punctum della installazione. Da un lato, il punto d’arrivo della narrazione, il suo – letteralmente – esito. Dall’altro, il contenitore che serve da frame di senso per l’insieme dei tre oggetti: dice la ragione della loro coesistenza e contiguità, esprime il loro percorso abortito, li costringe ad essere parte di una stessa rappresentazione cognitiva ed emotiva, si propone come stenogramma di una storia. Esprime lo strumento e l’atto del migrante, e in questo modo ci spiega che appunto col migrante, col suo corpo e con il suo immaginario ci stiamo rispecchiando.

 

V. Padiglione, Soggetti disorientati. Il barcone (2013)

 

Sul barcone spezzato c’è l’unica presenza di corpo vero in questa installazione di corpi: il sangue. Astorico, universalistico, agisce da ponte tra i due soggetti che si stanno incontrando nella rappresentazione: il Turista e il Migrante, il consumatore di etnicità e il viaggiatore autentico. Solo e sempre rosso, il sangue consente meno la messa a distanza dello straniero, apre la possibilità fragile del mirroring e dell’empatia, crea un campo di esperienza condivisibile dell’umano. O almeno ci fa credere che questo sia possibile.

Fin qui efficace, ‘bello’ e conforme al politicamente corretto. Ma Padiglione per fortuna va oltre.

Partiamo dal primo dei due corpi. Ironica rappresentazione dello sguardo del turista che permea di etnicità ed esotismo le nostre percezioni del migrante. Ma anche e soprattutto messa in scena della fatalità cognitiva e esperienziale dell’etnocentrismo. Per quanto faccia e voglia, il più illuminato, ‘buono’  e universale degli osservatori non può uscire dal suo punto d’osservazione, dalle categorie, dalle rappresentazioni profonde, dall’immaginario sociale e individuale che il suo stare-nel-mondo gli costruisce dentro. Non si evade dalla matrice che la socializzazione e la storia ci hanno costruito nella carne e nella mente. I quadri sociali della conoscenza e delle emozioni non sono territori transitabili a volontà, o vestiti che si può scegliere di indossare o meno. Sono la mappa senza la quale non c’è territorio. Solo con dolorosi sforzi, rischi e metodologie feroci di spaesamento possiamo accedere in modo intermittente a marginali scarti rispetto a questo nostro esser fatti di un sociale localizzato e storicamente vincolante. Possiamo intuire a tratti, con ampie aree di errore, frammenti del mondo dello straniero. Credere che lo capiamo – meglio, che lo comprendiamo – appartiene al delirio onnipotente dell’universalismo, la fantasia di poter abbracciare nel proprio Io la molteplicità delle esperienze del mondo non come fondamentale rispetto formale ma come immedesimazione sostanziale. Non si è l’umanità, si è ciò dove si è diventati zoon politikon. Da lì, dal riconoscimento umile di questo limite e della parzialità di questo confine, ci si può avventurare verso frammenti di altri universi, a noi sempre per gran parte estranei nella carne. Il regard éloigné è un sussulto dello sguardo, non una sua condizione strutturale. Ancora più spesso, è una illusione, come gran parte dell’antropologia e dell’etnologia dimostra, e come la psichiatria/psicoterapia transculturale non può riconoscere se non a condizione di riconoscersi per larga parte impotente. Homo sum, humani nihil a me alienum puto. Davvero?

Lo sguardo del viaggiatore è sempre crudele. Il Turista-antropologo di Padiglione vorrebbe vedere l’Altro in quanto altro. Vede solo la paccottiglia che vedono tutti, le bambolette, le collanine, i vetrini multicolori. Ma almeno lo sa, accetta di saperlo. Così, quando poi guarda il corpo ‘vero’ dell’altro, il secondo corpo, ne vede l’impenetrabile superfice, vera quanto la paccottiglia, un poco più vera proprio perché deve ammettere che è opaca, non conoscibile se non a tratti radi e con la mediazione del sangue.

L’installazione di Vincenzo Padiglione ci restituisce l’etnocentrismo non come difetto della ragione o come stortura etica ed emozionale, ma come fatalità e tragedia. In La morte della tragedia, George Steiner coglie nel Macbeth, atto V, 8, il momento definitivo di svolta nella percezione occidentale – sottolineiamolo con ironia: occidentale –  del tragico. Macbeth si trova davanti Macduff. Già – profezia delle streghe – il bosco di Birnam ha camminato verso il castello. Già Macbeth è diventato effettivamente Re. Ora scopre che Macduff è il non nato di donna che lo sconfiggerà. Due profezie si sono avverate, la terza non può non avverarsi. Malgrado la certezza della sconfitta, Macbeth si lancia in un duello inutile: And damn’d be him that first cries, ‘Hold, enough!’. La stessa inutilità tragica eppure irrinunciabile sta al cuore dell’etnocentrismo critico. Non possiamo pensare senza classificazioni, ovvero senza stereotipi. Allo stesso modo non possiamo uscire da noi stessi. Je est un autre è un progetto solo estatico e poetico. Possiamo assumere però come progetto etico e necessità storica, emozionale, la vana tensione estatica fuori da noi stessi, oltre il limite, tollerando di sapere che è vana, e che oltre il limite si incontra quasi sempre solo lo specchio del limite, non il presunto Altro, con quella patetica A maiuscola.

Joseph Losey è un regista da tempo quasi dimenticato. Aveva rappresentato con sottigliezza i modi in cui il nostro contesto di vita è il confine praticamente insuperabile della nostra vita perché produce ciò che per noi è la realtà. Un suo film del 1970 – Caccia sadica (Figures in a landscape) – racconta la fuga senza fine di due individui inseguiti da un elicottero mentre cercano di raggiungere un misterioso confine sui monti tra la neve. Ci riescono, ma coloro che li accolgono dall’altra parte hanno esattamente le stesse facce e modi e vestiti e occhiali neri di coloro che li inseguivano. Così il Turista-antropologo fugge senza fine via dal corpo-paccottiglia del Migrante verso il suo corpo ‘vero’, ma quello che trova è ancora e sempre quel corpo-paccottiglia costruito dalla sua propria realtà e fatto di avanzi di rappresentazioni dell’altro prodotte appunto da questa realtà. Rimane a salvarlo l’atto della fuga in avanti verso quella ‘cosa’ irraggiungibile che è  la realtà come è per l’altro. Qui sta la torsione critica dell’etnocentrismo, il suo scandalo politicamente scorretto, la béance che lo richiama continuamente alla sua vocazione tragica. Così forte in Ernesto de Martino, così smorta nei suoi commentatori. 

Padiglione ci mostra anche un’altra via d’uscita: i piaceri della coscienza infelice hegeliana di questa tragicità. La traduzione estetica dell’etnocentrismo critico demartiniano comporta la tentazione del sentirsi anima bella, ancorché tragica, appunto perché tragica. Una  Schadenfreude esaltata dalla nobiltà rassicurante della colpa per quella paccottiglia e per quel sangue: colpa epistemologica, storica, disciplinare. Roba da anime belle. Ma di questo la bellezza della sua installazione non ha colpa. Anzi,  proprio questa sua forza estetica ci sospinge per qualche attimo fuori dal solipsismo tragico (cognitivo, vissuto) del nostro stare-nel-mondo, e ci restituisce, sempre per qualche attimo, all’altra tragedia, quella della carne e della nuda vita, il punto di vista del barcone e del sangue.

Stefano PIVATO, I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, Bologna, Il Mulino, 2013,  pp. 184

 In un articolo del 1898, tradotto da Durkheim per la propria rivista, Georg Simmel si è chiesto  Comment les formes sociales se maintiennent («L’Année sociologique»,  Première année, 1896-97, ma 1898, pp. 71-109).  Prima ancora che le possibili risposte, conta la domanda. Il sociale non è ovvio. Lo si può anche vedere come una ‘cosa’ indipendente dagli individui che la costituiscono. Resta il fatto che il sociale è aggrappato ai corpi che lo compongono. Senza questi corpi nessuna società concreta esiste. I corpi hanno però la pessima abitudine di morire. Ogni individuo che muore minaccia di morte la società di cui è componente irriducibile. Di qui il problema: come fanno le società a garantirsi una qualche  immortalità a partire dalla mortalità dei loro membri? Come sopravvivono al loro ricambio biologico, al passaggio delle generazioni? Come continuano?

Simmetricamente, ecco il problema della discontinuità. Come fa una società a non morire quando vive una catastrofe, ovvero un cambiamento radicale del proprio stato? Come si impadronisce della continuità sociale chi mette in atto soluzioni di continuità tra il passato, il presente e il futuro di una società? Il rivoluzionario che fa crollare un sistema politico e sociale sa bene che quel sistema aveva già costruito e sedimentato la propria sopravvivenza nella generazione successiva. Per durare, il rivoluzionario deve scardinare le modalità e i contenuti di quella sopravvivenza, e sostituirvi i propri. Deve afferrare a sé la generazione che segue la sua, la prima generazione dopo la sua e dopo il cambiamento catastrofico. Lì si gioca la partita autentica della rivoluzione.

Nella continuità come nella discontinuità, il problema è il processo di socializzazione. La costruzione sociale dell’infante come membro di una determinata società  le permette di mantenere  in qualche modo le proprie forme sociali con procedure e strumenti relativamente consolidati. Chi vuole spezzare quelle forme sociali deve invece disintegrare queste procedure, strumenti e contenuti per sostituirvene altri spesso estranei, privi di legittimità, inadatti a usufruire dei percorsi già consolidati. Per di più ha poco tempo: le generazioni durano poco, i cambiamenti radicali si vanificano in fretta se non riescono  a organizzare la propria riproduzione sociale rapida. Quale che sia la natura della sua ‘rivoluzione’, il rivoluzionario è in corsa contro la morte della propria generazione. Se perde la corsa  – così almeno lui lo vive – la rivoluzione è fallita, cioè finita.

Politiche, sociali, economiche, tecnologiche, religiose, scientifiche, erotiche: tutte le catastrofi-rivoluzioni producono in fretta – con disperazione – le strategie della loro discontinua continuità. Alla fin fine fanno tutte più o meno le stesse cose: trasformare la rivoluzione in conflitto generazionale  (giovinezza giovinezza, i giovani contro i vecchi in tutte le innumerevoli varianti del gioco), occupare le strutture della socializzazione primaria e secondaria (scuole, ruoli sessuali, famiglie, i media, la comunicazione sociale, i simboli, i riti), plasmare consapevolmente l’immaginario collettivo.

Questo il livello dell’azione razionale. I fantasmi giocano una partita più radicale. La modalità più primitiva per impadronirsi totalmente di qualcosa è il divoramento. Quando inghiotto l’oggetto, esso viene introiettato, diventa me, mi compone e lo compongo in una simbiosi senza confini. La soluzione di continuità introdotta dalla ‘catastrofe’ si traduce nella più assoluta delle continuità, l’essere tutt’uno. I rivoluzionari e i loro avversari chiamano in gioco la matrice fantasmatica più primitiva, mangiare ciò che va ‘assimilato’ nel nuovo. Per questo nelle narrazioni del cambiamento catastrofico è così ossessivamente presente il “mangiare i bambini” come traduzione delirante della lotta intorno alla socializzazione e risocializzazione.

Per questo i comunisti mangiano i bambini, ovviamente.

Stefano Pivato non ha nessuna consapevolezza della posta in gioco dietro quella che chiama una “leggenda”, e per la verità neanche si pone troppe domande sullo statuto storiografico, sociologico e psicologico-sociale delle cosiddette leggende (non basta certo il solito Bloch). Raccoglie materiali vari, alcuni divertenti, altri significativi, altri ancora piuttosto inutili o ripetitivi. Restituisce la sensazione di una qualche guerra intorno all’infanzia nell’immaginario politico-sociale italiano, condensata dal tema dei comunisti che mangiano i bambini, ma lì si ferma. La specificità del divoramento, il carattere primitivo dei fantasmi che sottende, le logiche complesse della introiezione, il lessico delle narrazioni ‘alimentari’, la traduzione ‘orale’ della politica: tutti aspetti ai quali rimane indifferente.

Da tutto ciò vengono forzature descrittive e errori di metodo. Ad es. Pivato fa rientrare nella propria ricostruzione anche un tema parallelo: l’uso dell’infanzia nella propaganda bellica (combattere per salvare i propri bambini dal nemico ecc: tutto il capitolo III).  Ma qui il ‘divoramento’ si perde per strada e il cannibalismo non c’entra più nulla.  Goffo poi, nel cap. II, il collegamento tra le leggende cannibaliche intorno all’URSS bolscevica e le realtà cannibaliche collegate alla guerra civile, alla collettivizzazione agricola, al Gulag, alle carestie. Pivato evidentemente non legge il russo, lavora su pochissime fonti (soprattutto Figes), ignora le moltissime altre disponibili anche non in russo, e soprattutto sembra pensare ad un qualche legame tra eventuali cannibalismi effettivi – talvolta su bambini – e la nascita della leggenda in Italia. Come se le leggende fossero traduzioni immaginarie della realtà e non obbedissero invece a logiche proprie, intrinseche ai loro copioni strutturali e alle loro funzioni nelle matrici immaginarie della politica.

Un libro ‘leggero’, rapido e senza complessità, e neanche di uno studioso alle sue prime prove (ammesso che questo giustifichi alcunché). Un libro interessante soprattutto come sintomo di quanto per la grande maggioranza degli storici italiani rimanga difficile integrare nel proprio lavoro prospettive, quadri concettuali e modelli ibridi, ‘sporcati’ da altre discipline, anche solo da altre scienze sociali: la sociologia, la psicologia sociale, l’antropologia, la semiotica, l’etnologia.  Ma anche per la striminzita storia praticata dai nostri storici, un intero volume su una leggenda antropofagica senza nessun uso della letteratura enorme sull’antropofagia è impresa non banale.  (enrico pozzi)

251.514.208:  sono i risultati di Instagram se si cerca il tag selfie.

Se ne parla ovunque, con interpretazioni discordanti: nuovo narcisismo per alcuni, democratizzazione del ritratto per altri, nuova variante del lamento collettivo sulla gioventù dannata o occasione di glorificazione dei nuovi media. Per sfuggire sia all’iconoclastia digitale che all’autoidolatria iconica, abbiamo pensato che forse il modo migliore per capire i selfie è quello più ovvio: studiarli. Ma come? In qualche giorno uno spider sofisticato potrebbe riuscire a scaricare i milioni di selfie e con software di analisi delle immagini e linguistici, si riuscirebbe forse ad ottenere qualche prima indicazione. A noi però non interessano i selfie come maschera defunta, ci interessano come elemento vitale e dinamico di identità e relazione, perché così sono usati. Il selfie racconta qualcosa a chi lo scatta e a coloro con cui viene condiviso, questo gli dà vita e senso. Allora perché non raccogliere i selfie con la loro storia?(continua)

FRANCESCO DIMITRI. Precipitare nella realtà. Storie del*dal Necronomicon / Collapsing into reality. Stories about*from the Necronomicon. / Sombrer dans le réel. Histoires du*à partir du Necronomicon

Il Necronomicon è un libro di magia inventato dallo scrittore pulp H. P. Lovecraft. Molti lettori credettero che fosse un vero libro, e con il tempo lo è diventato. Ecco la storia dettagliata di come è successo: un episodio che mette in luce alcuni meccanismi di interscambio tra immaginario e realtà, tra il mondo delle idee e il mondo delle cose.

Il Necronomicon è un libro di magia inventato dallo scrittore pulp H. P. Lovecraft. Molti lettori credettero che fosse un vero libro, e con il tempo lo è diventato. Ecco la storia dettagliata di come è successo: un episodio che mette in luce alcuni meccanismi di interscambio tra immaginario e realtà, tra il mondo delle idee e il mondo delle cose.

The Necronomicon is a book of magic, brainchild of the pulp writer H. P. Lovecraft. Many readers believed it was an actual book, and in time it has become real. This is the detailed story of how the construction of this delusion happened: an episode that sheds some light on the regulatory mechanisms at the crossroads between reality and imagination, between the world of ideas and the world of things.

Le Necronomicon est un livre de magie, enfanté par l’écrivain pulp H. P. Lovecraft. De nombreux lecteurs (continua)