Congiure complotti e paranoia. Una riedizione ancora utile

A. CAMPI, L. VARASANO (a cura di), Congiure e complotti. Da Machiavelli a Beppe Grillo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2016, €16

Un presentimento: toccherà occuparsi sempre più della paranoia come modello ordinatore del sociale, e del discorso paranoico come forma princeps del discorso pubblico.  L’era delle ideologie nascondeva l’organizzazione paranoidea del pensiero dietro la nuvola dei sistemi di valori e delle filosofie della storia. La fine delle ideologie toglie questi orpelli. Ora la paranoia, messa a nudo, vive apertamente la sua gloria euristica e la sua potenza emozionale.

Ben venga tutto ciò che aiuta a capire la Bestia. 

Nel 2012 la Rivista di Politica aveva pubblicato un ampio dossier su « Congiure, complotti, cospirazioni » (2012, 1, pp. 25-112). Quattro anni dopo i curatori ripropongono quel fascicolo in volume, con qualche revisione e una aggiunta inedita: per il resto tutto  già pubblicato, lì o altrove. Operazione discutibile, ma di fronte alla pervasività della folie à plusieurs paranoica inutile andare tanto per il sottile.

Al centro del volume la distinzione tra congiura e complotto, già problematizzata da Marcel Gauchet nel 1985. Nel saggio introduttivo di Alessandro Campi, congiura e complotto non sono due lemmi di dizionario, ma due tipi ideali dell’azione sociale dominata dalla segretezza e dal Nemico.

La congiura è « un gruppo ristretto di persone che si legano attraverso un giuramento in vista di una azione comune, che per riuscire deve essere necessariamente avvolta dal riserbo e dalla segretezza » [p. 31]. Ovvero, una microformazione sociale dalle caratteristiche ben definite: piccolo gruppo, obiettivo specifico condiviso, rapporti diretti tra individui concreti, il patto o giuramento come atto costitutivo, il clivaggio forte fuori vs dentro e noi vs loro, il segreto come forma del rapporto con l‘esterno,  la fusionalità del noi, un Nemico da distruggere, la violenza come strumento unico o principale, il pericolo come ethos, la transitorietà (i congiurati si sciolgono dopo aver conseguito il loro scopo).

Il complotto capovolge molti di questi tratti. « I complottisti […] non costituiscono un’associazione o consorteria di singoli e ben determinati individui, che stringono tra di loro un patto volontario, ma un vasto insieme, un aggregato senza volto e personalità, un soggetto collettivo i cui membri sono destinati a rimanere sconosciuti o anonimi, […] un’entità vaga o nebulosa, una moltitudine sfuggente».  Essi non mirano al « conseguimento di un fine particolare e determinato » ma piuttosto alla « realizzazione di un piano vasto e articolato, di un disegno di ampia portata », « un disegno, uno schema» più che uno specifico piano d’azione», il « frutto … di una intelligenza superiore e nascosta, che rimanda all’esistenza di un attore collettivo anonimo, di una organizzazione dai contorni vaghi ». Svincolato dalla concretezza immediata e da obiettivi specifici, il complotto non ruota intorno al segreto ma intorno alla imperscrutabilità di una narrazione articolata, di una visione della realtà che si avvale via via di soggetti fluttuanti spontaneamente partecipi di quella narrazione. Il complotto è una trama paradossale, a maglie larghe e strette insieme, un ectoplasma narrativo, cognitivo e operativo capace di grande vaghezza e di estremo dettaglio.

Interessante, ma poco convincente. Definire qualcosa complotto oppure congiura è già a sua volta una cmponente cruciale del complotto o della congiura. Per chi crede in un complotto, il complotto è spesso e per gran parte una congiura. Annidato nell’ologramma del complotto non c’è forse sempre un Grande Vecchio, un Comitato d’Affari, un nucleo di Savi di Sion, un vertice della CIA o del Mossad, una P2, una società segreta alla Bildenberg ecc? Quanto ai congiurati e a chi si schiera dalla loro parte, quanti sarebbero disposti a non sentirsi invece complottisti, cioè portatori di una visione, narrazione o valori più generali? Anche la congiura animata dalla pura e semplice fame di potere non può fare a meno di vestire panni in qualche modo sublimi, almeno rispetto a terzi. I congiurati non ammetterebbero mai di uccidere per piacere sadico, per invidia, per far fuori un rivale d’amore o di potere. Si congiura – e si complotta … − per dio, per la libertà, per la giustizia, per la vittoria del proletariato o della Grande Germania, per salvare l’umanità da un mostro.

Secondo problema, collegato. A chi spetta di definire qualcosa complotto o congiura? Agli attori o protagonisti diretti? Ai gruppi, movimenti o ‘audience’ che in qualche modo esprimono? Ai loro alleati? Ai loro nemici? Ne va come per il traditore e il tradimento. Il fisico Oppenheimer che forse trasmette all’Unione sovietica segreti nucleari, o Kim Philby che scala i vertici dello spionaggio inglese come talpa comunista, hanno tradito o sono stati fedeli a valori superiori? Allo stesso modo, i congiurati ‘oggettivi’ del tentato assassinio di Hitler si sarebbero definiti soggettivamente congiurati, o erano dei ‘congiurati’ solo per i nazisti? E gli organizzatori dell’11 settembre? Le vicissitudini storiche e gli esiti trasformano retrospettivamente per alcuni una azione in una congiura, un movimento in un complotto.

Poco convincente anche ridurre il ‘complotto’ a un plot condiviso, una narrazione. La presunta rete lasca del complotto implica spesso una forte coesione di valori, principi, obiettivi almeno generici, dei leader, un sistema di simboli e segni unificanti, una rete di rapporti indiretti, una rete materiale e organizzativa di supporto, un’acqua in cui il pesce possa nuotare: tutti elementi che generano una convergenza ed efficacia pressoché ‘spontanee’ nel perseguire il complotto.

Gli autori dei vari saggi si trovano più a loro agio con le congiure, azioni specifiche dirette verso scopi oggettivi: i Sette contro il falso Smerdi, Catilina, la congiura di Magione stupendamente raccontata da Machiavelli, Nečaev. Sui complotti annaspano. La cassetta degli attrezzi da storici o da scienziati politici ha poca presa. Qui occorrerebbe saper usare simultaneamente anche la sociologia, la psicologia sociale, l’antropologia culturale, la psicoanalisi, l’analisi del discorso e delle rappresentazioni sociali, l’analisi dei sistemi simbolici, le categorie della psicopatologia, i modelli descrittivi e interpretativi della paranoia. Non a caso le poche pagine utili sulle elaborazioni complottiste – quelle di Roberto Villa intorno alle “cospirazioni apocalittiche del XXI secolo” – devono far ricorso a Walter Benjamin e alla sua « povertà di esperienza » o al Bataille della « congiura sacra », per poi concludere mestamente con il riconoscimento dell’impotenza concettuale delle discipline che governano il volume, almeno nella loro versione italica così estranea ad ogni interdisciplinarietà. « La cultura della cospirazione è un fenomeno trans-politico e trans-storico che non ha nulla a che vedere con la congiura rinascimentale […]. Con i loro orpelli trans-politici e con la loro storia in maschera le teorie del complotto sono false e esiziali immaginazioni che minano il fragile senso di identità dei popoli e, quale succedaneo post-moderno della hobbesiana paura comune, tendono a farli vivere in un clima di sospetto e in un permanente stato di terrore paranoico » [p. 150].

Paranoia, terrore, sospetto come strumenti di governo dell’immaginazione, collante emotivo delle teorie cospiratorie, al tempo stesso causa e sintomo di ciò a cui il fantasma del complotto offre sollievo manipolato. Se il volume si fosse soffermato su questo, avrebbe dovuto chiedersi da dove viene, a cosa serve di volta in volta l’ipertrofia cospiratoria che si impadronisce periodicamente dei sistemi sociali. Avrebbe dovuto interrogarsi sull’eventuale natura paranoidea del sociale e avvicinarsi a riconoscere che i complotti sono tra noi e con noi, compagni di strada ineliminabili del nostro sforzo di dare senso – un qualche senso – al caos della Storia.

Esemplare di questo vuoto il saggio di Valter Coralluzzo sull’11 settembre. L’autore analizza puntigliosamente tutta una serie di teorie cospiratorie sul massacro del World Trade Center, le smonta, contrappone fatti agli pseudo-fatti, mostra le incongruità e le contraddizioni interne delle ipotesi di un vasto complotto. Sforzo generoso quanto inutile. Come sa bene chiunque si è occupato di paranoici e di costruzioni paranoidee, nessun fatto riesce a incrinare la costruzione. Il blob paranoico è perfettamente in grado di inglobare e neutralizzare tutto ciò che va contro le sue conclusioni, anzi trasforma le obiezioni e i fatti in ulteriori prove della propria verità. Coralluzzo avrebbe fatto meglio a seguire l’indicazione del suo titolo – « Critica della ragion complottista » – mostrando con rigore, e non solo accennando,  le procedure pseudo-logiche e psuedo-empiriche del discorso paranoideo, i paralogismi che governano la paranoia e che le conferiscono una straordinaria evidenza cognitiva. Non avrebbe convinto nessun paranoico ma almeno avrebbe fornito al lettore gli strumenti per una decodifica del canto delle sirene complottista.

Qualche altra osservazione. Scialbe le pagine di Varasano sull’Italia contemporanea. Troppo noto Girardet per essere ancora utile. Anche Hofstadter ha dato ormai tutto quello che poteva dare, condensato nella locuzione “stile paranoideo” ormai ovvia (en passant, “paranoideo” e non “paranoico”; e quella del volume non è affatto la prima traduzione di Hofstadter in italiano: chi scrive lo aveva tradotto molti anni prima sulla rivista Il Corpo (1994, I, 3 – http://www.ilcorpo.com/it/rivista/dicembre-1994_32.htm ). E poi vuoti importanti nella bibliografia e nelle fonti. Ma questo alla fine è solo ciò che Giordano Bruno chiamava « lo sterco dei pedanti », a volte nemico dell’urgenza di capire. (enrico pozzi)

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