24 Mag Finalmente una traduzione francese per la grande opera postuma di Ernesto de Martino
A quanto pare, sarebbe in arrivo la traduzione francese di La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, uscito postumo a Torino nel 1977 da Einaudi (nuova edizione a cura di Clara Gallini nel 2002).
Lo annuncia un seminario che si è svolto nel 2014-2015 a Parigi, nell’ambito dell’École des Hautes Études di Bd. Raspail, quella EHESS che dovrebbe anche pubblicare il testo. Organizzatori del seminario: Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio (non c’è bisogno di presentarli). Titolo: Traduire De Martino: l’atelier conceptuel de l’anthropologie italienne. Bel titolo, più vicino alla nostalgia e alla speranza della self fulfilling prophecy che non alla realtà. Francamente nell’antropologia italiana di de Martino rimane ben poca traccia. Non tanto concettuale – questo qualcuno potrebbe anche crederlo il segno di una crescita teorica e di presenza della corporazione antropologica accademica, del che dubito – quanto di stile mentale, di pathos del pensare. C’è in de Martino una percezione tragica del lavoro etno-antropologico. Solo a tratti molto dispersi, carsica in un ampio deserto, la vedo affiorare in quello che mi forzo a leggere e ad ascoltare in giro.
Forse dall’esterno, come mal franzese, potrebbe tornare magari tra i più giovani un rilancio d’interesse per de Martino e soprattutto per quello stile, per il più benjaminiano tra gli etnologi e antropologi italiani. La forma de La fine del mondo è la materia più vicina ai Passages che le scienze sociali italiane abbiano saputo produrre. La libertà eterogenea della combinatoria di frammenti – o meglio, frantumi – potrebbe ancora insegnare un modo diverso di stare nelle cose, nel mondo nelle gabbie concettuali accreditate di una ‘disciplina’ e nelle gabbie da ragionieri degli impact factor. Ma da quello che il mestiere di lettore mi restituisce, ho poco da sperare.
Ad un’altra stanca semi-corporazione professionale il revenant de Martino de La fine del mondo potrebbe far solo bene. Non la psichiatria, ormai praticamente persa alla storia e all’umano nella sua complessità multidimensionale: qualcuno immagina una delle riviste italiane e non solo di psichiatria e psicopatologia che pubblichi ora quel numero monografico che la Rivista sperimentale di Freniatria ancora nel 2005 poteva far uscire – «Psicopatologia e cultura nell’opera di de Martino»)? No, penso alla psicoanalisi, al vertice del mestiere dell’empatia critica e dunque ‘clinica’, al luogo per eccellenza del «regard éloigné» dello psichico. Qualche affioramento qua e là, per quanto a me noto: a un convegno del 2009 su un altro ‘impuro’ perché fuori categoria – Elvio Fachinelli -; Fausto Petrella a Pavia nel 2012 (6 parole…, ma era un saluto d’apertura); Emilio Servadio che mi indica le opere di de Martino nella sua biblioteca durante il colloquio di ammissione al training SPI; alcune osservazioni verbali di Glauco Carloni. Cos’altro? Praticamente nulla sulla Rivista di Psicoanalisi. Poco meno che nulla tra gli junghiani. Un volume di 280 pp dedicato a Sconfinamenti. Escursioni psico-antropologiche (a cura di S. Peggiora, M. Giampà, A. Lombardozzi, A. Molino, 2014, Milano, Mimesis) con de Martino citato 2 (due) volte, una in bibliografia, l’altra in nota. Potrei continuare.
In sostanza l’unico etnologo italiano che ha lavorato in modo significativo e forte alla frontiera dello psichico e dell’antropologico, ignorato dai primi, degno solo di qualche menzione via via meno pregna dai secondi. Proposta: prendiamo a pretesto la traduzione francese, o almeno il suo progetto. Ritroviamoci in una stanza a gestire apocalissi e frantumi di mondo, caos di storico e di psichico. Con vino, cibo e tempo. Anche in pochissimi, purché impuri. Non è un call for papers, come si usa dire. È un call for bodies, per ventri pensanti.