Finalmente una traduzione francese per la grande opera postuma di Ernesto de Martino

A quanto pare, sarebbe in arrivo la traduzione francese di La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, uscito postumo a Torino nel 1977 da Einaudi  (nuova edizione a cura di Clara Gallini nel 2002).

Lo annuncia un seminario che si è svolto nel 2014-2015 a Parigi, nell’ambito dell’École des Hautes Études di Bd. Raspail, quella EHESS che dovrebbe anche pubblicare il testo. Organizzatori del seminario: Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio (non c’è bisogno di presentarli). Titolo:  Traduire De Martino: l’atelier conceptuel de l’anthropologie italienne. Bel titolo, più vicino alla nostalgia e alla speranza della self fulfilling prophecy che non alla realtà. Francamente nell’antropologia italiana di de Martino rimane ben poca traccia. Non tanto concettuale – questo qualcuno potrebbe anche crederlo il segno di una crescita teorica e di presenza della corporazione antropologica accademica, del che dubito – quanto di stile mentale, di pathos del pensare. C’è in de Martino una percezione tragica del lavoro etno-antropologico. Solo a tratti molto dispersi, carsica in un ampio deserto, la vedo affiorare in quello che mi forzo a leggere e ad ascoltare in giro.

Forse dall’esterno, come mal franzese, potrebbe tornare magari tra i più giovani un rilancio d’interesse per de Martino e soprattutto per quello stile, per il più benjaminiano tra gli etnologi e antropologi italiani. La forma de La fine del mondo è la materia più vicina ai Passages che le scienze sociali italiane abbiano saputo produrre. La libertà eterogenea della combinatoria di frammenti – o meglio, frantumi – potrebbe ancora insegnare un modo diverso di stare nelle cose, nel mondo nelle gabbie concettuali accreditate di una ‘disciplina’ e nelle gabbie da ragionieri degli impact factor. Ma da quello che il mestiere di lettore mi restituisce, ho poco da sperare.

La prima edizione, uscita nel 1977, 12 anni dopo la morte di Ernesto de Martino

Ad un’altra stanca semi-corporazione professionale il revenant de Martino de La fine del mondo potrebbe far solo bene. Non la psichiatria, ormai praticamente persa alla storia e all’umano nella sua complessità multidimensionale: qualcuno immagina una delle riviste italiane e non solo di psichiatria e psicopatologia che pubblichi ora quel numero monografico che la Rivista sperimentale di Freniatria ancora nel 2005 poteva far uscire  – «Psicopatologia e cultura nell’opera di de Martino»)? No, penso alla psicoanalisi, al vertice del mestiere dell’empatia critica e dunque ‘clinica’, al luogo per eccellenza del «regard éloigné» dello psichico. Qualche affioramento qua e là, per quanto a me noto: a un convegno del 2009 su un altro ‘impuro’ perché fuori categoria – Elvio Fachinelli -; Fausto Petrella a Pavia nel 2012 (6 parole…, ma era un saluto d’apertura); Emilio Servadio che mi indica le opere di de Martino nella sua biblioteca durante il colloquio di ammissione al training SPI; alcune osservazioni verbali di Glauco Carloni. Cos’altro? Praticamente nulla sulla Rivista di Psicoanalisi. Poco meno che nulla tra gli junghiani. Un volume di 280 pp dedicato a Sconfinamenti. Escursioni psico-antropologiche (a cura di S. Peggiora, M. Giampà, A. Lombardozzi, A. Molino, 2014, Milano, Mimesis) con de Martino citato 2 (due) volte, una in bibliografia, l’altra in nota. Potrei continuare.

In sostanza l’unico etnologo italiano che ha lavorato in modo significativo e forte alla frontiera dello psichico e dell’antropologico, ignorato dai primi, degno solo di qualche menzione via via meno pregna dai secondi. Proposta: prendiamo a pretesto la traduzione francese, o almeno il suo progetto. Ritroviamoci in una stanza a gestire apocalissi e frantumi di mondo, caos di storico e di psichico. Con vino, cibo e tempo. Anche in pochissimi, purché impuri. Non è un call for papers, come si usa dire. È un call for bodies, per ventri pensanti.

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