La paranoia come modalità euristica, il discorso paranoico come struttura delle ideologie e la folie à plusieurs come dimensione costitutiva del sociale.
Di questo si parlerà in un incontro organizzato dalla rivista IL CORPO al Castello di Rocca Sinibalda il 26-28 settembre.
Incontro ristretto e ‘ibrido’ costruito sulla contaminazione tra approcci diversi praticata da partecipanti portatori ciascuno di approcci e modelli euristici a loro volta ‘ibridi’.
Su invito.
Qualche info sui contenuti dell’incontro: https://www.ilcorpo.com/diario-paranoico/un-appunto-di-lavoro-per-alcuni-workshop-residenziali-sul-discorso-paranoico/

Per tre giorni, dal 26 al 28 settembre di quest’anno, avrà luogo un primo workshop residenziale su DISCORSO PARANOICO, IDEOLOGIA E FOLIE À PLUSIEURS. Altri due seguiranno nel 2026.
Al Castello di Rocca Sinibalda. Millenario, zoomorfo, monumento nazionale, Wunderkammer, 70km da Roma. A picco su tre valli. www.castelloroccasinibalda.it
15 partecipanti, integralmente ospiti de Castello. da tutte le humanities e le performing arts: psicoanalisti, sociologi, storici, medici, antropologi, artisti, letterati, filosofi, cultori di immagini, di segni e di forme. I partecipanti dovranno esser disposti a contagiare e lasciarsi contagiare. Il Castello è plasmato dalle Metamorfosi di Ovidio nella sua architettura e nei suoi affreschi rinascimentali, e coltiva tutto ciò che è tra.
Chi è incuriosito e interessato a partecipare può scrivere a paranoia@ilcorpo.com o paranoia@castelloroccasinibalda.it. Utile se spiega cosa la/lo interessa e magari perché.
Qui sotto un Appunto di lavoro e un elenco esteso di possibili interessi specifici.
L’ultima lettera di Bucharin a Stalin
delirare contro la morte personale, storica (enrico pozzi)
La rivoluzione è affare di logici folli, di Wallace Stevens
Ideologia vs dolore. Un gioco suicida, un nonno, un adolescente, il (n)PCI e uno sterminio di classe (a cura di enrico pozzi)
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L’ultima lettera di Bucharin a Stalin
Strettamente riservato Personale Chiedo che nessuno legga questa lettera senza l´autorizzazione di I. V. Stalin.
a I. V. Stalin Josif Vissarionovic!
Ti scrivo questa lettera, che è sicuramente la mia ultima lettera. Ti chiedo il permesso di scriverla, benché mi trovi in stato di arresto, senza formalismi, tanto più che la scrivo solo per te e la sua esistenza o non esistenza dipende solo da te…
Oggi si chiude l’ultima pagina della mia tragedia e, forse, della mia vita. Ho esitato a lungo prima di scrivere, tremo per l´emozione, migliaia di sentimenti diversi mi travolgono e mi controllo a fatica. Ma proprio perché mi trovo sull´orlo dell´abisso voglio scriverti questa lettera di addio, finché sono ancora in tempo, finché riesco a scrivere, finché i miei occhi sono ancora aperti e finché il mio cervello funziona.
Perché non vi siano malintesi, voglio dirti subito che per il mondo esterno (la società):
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delirare contro la morte personale, storica (enrico pozzi)
Il 13 marzo 1938, Nikolaj Ivanovic Bucharin viene giustiziato nel carcere della Lubjanka. Era stato uno dei vertici della rivoluzione bolscevica. Nella sua Lettera al Congresso del 24 dicembre 1922 – il cosiddetto Testamento – Lenin lo aveva definito « il prediletto di tutto il partito ». Nella stessa pagina Lenin chiedeva l’allontanamento di Stalin dalla carica di Segretario generale del Pcus. 16 anni dopo, Stalin trionfante elimi- na fisicamente l’allora rivale.
Bucharin era stato arrestato il 27 febbraio 1937 durante il Plenum del Comitato Centrale. Il 2 marzo 1938 inizia il processo. Insieme ad altri 20 imputati Bucharin è accusato di essere uno dei leader del cosiddetto Blocco Trotskista di Destra, colpevole di una serie fantasiosa di crimini, tra cui il progetto di assassinare Stalin, il rovesciamento del regime sovietico e lo smembramento dell’URSS, la restaurazione del capitalismo, lo spionaggio, il sabotaggio di settori industriali chiave ecc. 18 dei 21 vengono condannati a morte, e in 24 ore la sentenza viene eseguita.
Con questo Terzo processo di Mosca si conclude l’eliminazione fisica di tutti i vertici del Partito e della rivoluzione bolscevica non incorporati nel nuovo gruppo di potere staliniano. Gli altri – il livello immediatamente inferiore – vengono annientati in modo discreto, senza vistose rappresentazioni pubbliche. Oltre il 70% dei 139 membri titolari o supplenti del Comitato Centrale eletto al XVII Congresso del Pcus (1934) sono arrestati e giustiziati. Stessa sorte per 1.108 dei 1.966 delegati.1 Quasi un’intera generazione politica viene spazzata via, lasciando lo spazio libero agli ‘uomini nuovi’ e al potere assoluto di Stalin.
Come la Rivoluzione francese durante il Terrore, anche la Rivoluzione bolscevica divora i suoi figli, con metodo e rigore […..]
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La rivoluzione è affare di logici folli, di Wallace Stevens
da Esthétique du mal (1944) XIV
Victor Serge said, “I followed his argument
With the blank uneasiness which one might feel
In the presence of a logical lunatic.”
He said it of Kostantinov. Revolution
Is the affair of logical lunatics,
The politics of emotion must appear
To be an intellectual structure. The cause
Creates a logic not to be distinguished
From lunacy … One wants to be able to walk
By the lake at Geneva and consider logic:
To think of the logicians in their graves
And of the works of logic in their great tombs.
[…..] [traduzione]
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Ideologia vs dolore. Un gioco suicida, un nonno, un adolescente,
il (n)PCI e uno sterminio di classe (a cura di enrico pozzi)
Il 6 settembre 2018 Igor Maj, 14anni, viene trovato impiccato a casa, nella semiperiferia di Milano. Si pensa al suicidio. Emerge via via un’altra ipotesi: il ‘gioco’ del blackout – soffocarsi fino a al limite estremo dello svenimento – lanciato da centinaia di siti sul web. Il ragazzo lo tenta in solitaria e viene ucciso dalla corda alla quale si è appeso
Igor era un giovanissimo rocciatore, con i Ragni di Lecco, con il padre, spesso in arrampicata libera. La corda che lo ha ucciso è la corda usata in falesia, quella dalla quale dipende la sicurezza propria e altrui. Quella dalla quale ogni arrampicatore libero fan- tastica di potersi liberare, senza più ancoraggi, senza quasi peso, viaggiatore senza bagagli nell’onnipotenza del volo euforico.
Qualche giorno dopo ricevo nella mia casella di posta universi- taria una lunga mail. Viene ufficialmente dal (n)PCI, un irrilevante gruppo politico che si vuole erede puro e solo legittimo del Pcus rivoluzionario e stalinista. È fatta di tre parti. [……]
Francesco Dimitri, Never the wind, Londra 2022, Titan Books, 319 pp., £ 8.99
Non è vero che i ciechi vedono di più.
A quasi 13 anni Luca Saracino diventa progressivamente cieco. Questo evento catastrofico catalizza nei suoi genitori una svolta radicale. Decidono di andare alla ricerca di un nuovo inizio. Lo vedono là dove inizia ogni possibilità di vedere. Con l’ingenuità cieca di chi vede, si dirigono verso l’origine, il punctum dal quale ogni realtà si dirama e la realtà sembra poter essere riscritta. Tornano in Puglia, nella masseria di famiglia, vicino al mare. Sono portatori superficiali della razionalità metropolitana

La Strega è nuda.
Nella Villa dei Misteri a Pompei è rappresentata l’iniziazione di una fanciulla in un culto misterico. A iniziazione avvenuta, dopo essere morta e risorta, la fanciulla danza felice, divina – e nuda.
Nei rituali iniziatici accadeva spesso di spogliarsi. Il più importante storico della stregoneria in attività, Ronald Hutton, ha osservato che, al di là di questi riti, la nudità è rara nella pratica religiosa, ma è comune in quella magica – e, possiamo aggiungere, un’iniziazione misterica unisce le due.
Un incantesimo di folk magic inglese richiede che una donna che non riesce ad avere figli vada nel suo orto nuda la vigilia di Mezza Estate. O, se una donna volesse avere una visione del suo futuro marito, potrebbe fare di peggio: andare a correre nuda
M. BETTONI POJAGHI, L. CAPOCACCIA, A. CIOCCA, F. M. FERRO, M. RIZZO
“Un’altra volta, ancora”. Nuove riflessioni su Ellen West, Roma, 2013
Pochi ma potenti fantasmi carsici di donna scandiscono la storia della psicoanalisi e dintorni. Anna O., Emmy von M., Lucy R., Elizabeth von R., Dora, l’Aimée. Acronimi zavorrati progressivamente con nomi anagrafici e biografie: Bertha Pappenheim, Fanny Louise von Sulzer-Wart, Ilona Weiss, Ida Bauer, giù fino a Marguerite Anzieu.
Ellen West sembra avere un nome e un cognome, ma sono falsi. Li ha inventati L. Binswanger nel 1944 per produrre la sua narrazione di questa giovane tedesca, sua paziente per meno di 3 mesi a Kreuzlingen, suicida nel 1921 a 34 anni. Più di altre, Ellen West è rimasta fantasma, senza un nome vero. Solo un tessuto di narrazioni incrociate: le sue, quelle del marito, di Binswanger, degli altri che l’hanno avuta in cura, degli esegeti e ricercatori successivi – mi veniva da dire: inquirenti… Una vita palinsesto scritta da molti co-autori, ognuno dei quali ha riscritto pro domo sua le narrazioni degli altri e per gli altri, a partire dalla stessa presunta coautrice principale, Ellen West, il suo diario, le sue lettere.
Tre mesi, un suicidio, 23 anni per poter scrivere Der Fall Ellen West1, l’ur-palinsesto polifonico al quale numerose altre voci si sono poi aggiunte: scrivendo, riscrivendo, cancellando, interpolando, aggiungendo, interpolando, grattando via, falsificando, fino a produrre quel testo composito e incompiuto che è per noi allo stato attuale la narrazione di |Ellen West|.
Un’altra volta, ancora promette nel sottotitolo Nuove riflessioni su Ellen West. È vero: un’altra volta, ancora, per questa narrazione interminabile. Ed è vero anche quel «nuove», ma prodotto dalla struttura del libro più che dai singoli diseguali contributi.
Il volume affronta Ellen West nell’unico modo euristicamente fecondo. Ellen West non è un esempio di una qualche casella nosografica da identificare, ma un «fatto sociale totale»2 (Marcel Mauss), un «universale singolare » (Sartre, Pozzi)
Eugenio BORGNA, L’indicibile tenerezza. In cammino con Simone Weil, Milano, Feltrinelli, 2016
Generoso, questo libro di Eugenio Borgna su Simone Weil. Disperatamente empatico. Eppure inutile. Borgna si disperde nel suo oggetto, e in questo modo perde l’oggetto. Dopo 218 pagine verbosamente appassionate, Simone Weil rimane lontana, incomprensibile, e non per eccesso di senso, ma per difetto di distanza critica.
Lo psichiatra Borgna rivendica da sempre la matrice fenomeno-ogica della sua psichiatria. Questa grande scuola filosofico-psichiatrica gli serve per proporre e difendere la comprensione della sofferenza psichica, che ha sempre un senso. Su questo Borgna innesta un afflato religioso, fatto di misericordia e di riconoscimento della dignità assoluta della persona sofferente, del suo discorso verbale e del suo comportamento. L’esito sperato è una strategia spontanea della immedesimazione come accesso al mondo dell’altro, e come breccia terapeutica. L’esito possibile è una relazione quasi mistica con la persona sofferente, relazione che acceca lo sguardo.
Questo libro su Simone Weil è esemplare della trappola confusiva – per di più desiderata, e considerata conoscenza – che attende Borgna al varco. Chi ha amato la tradizione psichiatrica cui Borgna si collega poteva aspettarsi ciò che quella tradizione ha saputo e sa dare nei suoi momenti alti: la rappresentazione, vorrei dire: la descrizione densa (thick description) del Dasein dell’altro, il suo modo specifico di essere-nel-mondo, di vivere il mondo e di costruirne il proprio significato sovraccarico di sofferenza e distruttività.
Nulla di tutto ciò in queste pagine su Simone Weil. Borgna viaggia dentro la vicenda umana e testuale di questa giovane donna, immerso, senza prendere aria e senza cercare un qualche punto di vista decentrato sul suo viaggio. Teresa di Calcutta, Teresa di Lisieux, Giovanni della Croce, Etty Hillesum: sono questi i modi di essere-nel-mondo usati come specchio e commento per la vicenda umana e per il pensiero della Weil. Detto in breve: per Borgna la Weil è santa, dominata da un amore inconsulto e illimitato per l’umanità intera, un amore distillato e sublimato dalla sofferenza fisica e psichica.
In questo modo a Borgna sfugge l’essenziale. Al centro del Dasein di Simone Weil sta l’odio, un odio smisurato verso sé stessa dunque verso gli altri
Partiamo dal racconto dell’antropologo Pierre Déléage, La folie arctique, Bruxelles, Zones sensibles, 2017.
Émile Petitot, francese, Oblata di Maria Immacolata, parte come missionario in Canada nel 1862. La sua destinazione finale è la piccola missione cattolica di Nostra Signora della Buona Speranza, in terra Dene, annessa al Fort Good Hope, sul fiume MacKenzie, area del Great Bear Lake. Qui trascorre 12 anni. Frequenta ass duamente le tribù locali. Prova all’inizio una forte repulsione fisica. Presto è attratto sempre più intensamente. Le giovani lo corteggia- no con audacia insolente. Ma il missionario è sedotto dai ragazzi. Li spia da lontano, li segue nella foresta, si masturba di continuo in cerca di pace. Gli piacciono i loro corpi, e anche il loro modo di vivere, nomade su territori immensi e vergini, in apparenza senza confini, lo spazio giusto per il suo bisogno di perdere gabbie, vin- coli e limiti.
Si innamora di uno di loro, Dzanyu, che ribattezza Hyacinthe, poi di altri. Hanno rapporti. Si meraviglia dell’indifferenza generalizzata della tribù per l’erotismo tra persone dello stesso sesso. Per lui non è così. Sprofonda nella colpa. La sua struttura paranoidea trova il pretesto atteso. Si convince che tutti parlano di lui, ironizzano, raccontano dettagli, lo prendono in giro. Lo dice al suo vescovo, cerca di dedicare a dio le sue “amicizie particolari”. Non funziona. La paranoia diventa una comunità paranoica di nemici che vuole ucciderlo. Percepisce ovunque voci e segnali evidenti di questa cospirazione. Appoggiandosi sui lavori di un suo parente noto ‘alienista’, Prosper Despine, capovolge la paranoia sul suo oggetto: i Dene sono colpiti da « contagion morale », una patologia psichiatrica generalizzata, folie à plusieurs sempre pronta ad esplo- dere in episodi di hystérie arctique, la pibloktoq inuit.
Intanto il suo pensiero costruisce un altro percorso. Si interroga sull’origine etnica dei Dene. Coglie nei loro tratti somatici eviden- ze semitiche. Appoggiandosi su brandelli di frasi di altri esploratori, si convince che i Dene, forse unici tra le popolazioni del Grande Nord, sono Ebrei. L’ultima delle 12 Tribù d’Israele – la Tribù di Dan, una delle due non menzionate dall’Apocalisse – è diventata in qualche modo i Dene. Cerca le prove nelle norme sociali, nelle mitologie, nei riti e cerimonie, nel linguaggio. Ovviamente le trova. L’Antico Testamento, più di rado anche il Nuovo, hanno riscontri puntuali, a volte fino nei dettagli, con le narrazioni Dene, dai tabù alimentari fino al Diluvio Universale, dalle Creazione a Giona e la Balena, dalla cacciata dal Paradiso terrestre alla redenzione dell’umanità da parte del figlio di dio ecc.
Essere Ebrei deve star scritto nei corpi. Petitot insegue nei Dene la presenza della circoncisione e del suo rito. Cerca con gli occhi il pene dei maschi, traccia in altri esploratori osservazioni di conferma. Si convince facilmente. Ma il reperimento della Dodicesima Tribù d’Israele segnala l’arrivo della fine della Storia. La conquista delle anime dei Dene significa un trionfo escatologico. Per vincere la concorrenza sleale dei Protestanti, occorre allearsi con questi decisivi resti di Israele. Occorre rimanere cattolici e farsi ebrei/ Dene, ebrei erranti. Occorre circoncidersi. Glielo chiedono a mezza bocca i Dene (“ancora non sei dei nostri”), e glielo chiede la sua funzione messianica di gestore dell’Apocalisse.
Petitot implora i Dene e i suoi co-missionari di circonciderlo. Non lo fanno, e disperatamente cerca di farlo da solo a varie ri- prese con una pietra tagliente.
L’11 settembre è stato concausa, alibi e punto di partenza di una schedatura universale degli abitanti del pianeta, con gli aeroporti come laboratorio tecnologico, politico e sociale di un assalto illimitato ai confini degli individui.
Dopo è venuto tutto il resto, il tracciamento integrale delle nostre vite, la trasparenza totale al potere e ai poteri, le gigantesche macchine private e statali.
Il controllo sociale totale come ‘modernità’ trionfante e gloriosa.
E noi complici attivi, entusiasti: servi volontari.
Quando ricordo a lezione l’assioma del liberalismo politico – lo stato e i poteri trasparenti al cittadino, il cittadino opaco allo stato e ai poteri – mi guardano strano. Ma che sta dicendo? che vuol dire? di che parla?
Spero che qualcuno stia scrivendo un elogio del segreto, della menzogna, del sotterfugio, della duplicità, del portare una o tante maschere, della comunicazione cifrata, del non lasciare tracce, del falsificare, del confondere gli sguardi del potere.
Intanto qui metto la bella installazione che Yoko Ono ha fatto al Louisiana Museum, a nord di Copenhagen: entrare in un labirinto di vetrata trasparenza dove tutto è visibile a tutto, e perdersi nel panico psichico. Titolo: AMAZE.
A-MAZE….. THE MAZE…. il carcere ad altissima sicurezza dell’Irlanda del Nord dove vennero rinchiusi i prigionieri politici dell’IRA, e 10 vi morirono nello sciopero della fame. Fame nel Panopticon, come strategia disperata per essere individui. Il bel film di Steve MacQueen, HUNGER. (enrico pozzi)


Recensendo un volume utile sul caso Ellen West, ho scoperto nell’ultima pagina una collana che non conoscevo: Psicopatologia, dell’editore Fioriti, diretta da Mario Rossi Monti.
Quasi tutto da leggere: Schneider, Ballerini, Cargnello, Straus, Minkowski, lo stesso Rossi Monti. Molta scuola fenomenologica. Contributi italiani importanti e irreperibili: per es. Cargnello sul caso Ernst Wagner o su Binswanger. Alcuni classici della psichiatria ormai introvabili anche nei reprint, come Binet sulle alterazioni della personalità. Ovviamente molto sulla paranoia, come ci si può aspettare da Rossi Monti. Ricordo ancora l’emozione cognitiva intensa provata leggendo La conoscenza totale nel 1984, e da allora punto di partenza del mio interesse interminabile per il discorso paranoico e i suoi rapporti con le produzioni sociali raziocinanti, le ideologie, le pseudo-scienze, il potere, l’organizzazione razionale dei massacri. Così ecco finalmente in italiano Sérieux e Capgras sulla “folie lucide”, una lettura e rilettura sempre feconda. O la ristampa di La vergogna e il delirio.
Una riflessione e una annotazione. Ho provato a parlare con colleghi psicoanalisti e psicoterapeuti spesso più giovani di questi testi e di altri classici della psichiatria che magari aspettano una versione italiana. Ne sanno poco e più spesso niente. Poi magari – i migliori – si districano agevolmente nei labirinti teorici di una psicoanalisi ormai quasi priva di centro, manovrano micromodelli concettuali spesso solipsistici, incapaci di senso comunicabile fuori dalle società psicoanalitiche. Sfugge loro il corpo a corpo complesso e carico di pathos euristico che ha caratterizzato la psichiatria della seconda metà dell’800 e del primo ‘900: il tentativo di riconoscere, classificare e gestire stati-limite del comportamento psichico/somatico, lo sforzo per una evidence-based psychiatry, l’affinamento della capacità di descrivere (si leggano le straordinarie descrizioni cliniche di quegli anni!), la tensione verso procedure di cura, la produzione spesso sofferta di quel setting speciale di contenimento e conoscenza chiamato asilo/manicomio ecc. C’è in quella psichiatria una ricchezza dinamica capace di coinvolgere anche a distanza di un secolo. La condanna aristotelica della conoscenza dell’individuale vi si scontra con la insopprimibile presenza di individui e di narrazioni individuali da ‘conoscere’ in quanto tali, l’approccio genotipico si dibatte nella rete dei fenotipi. Ne risultano – certo non sempre – tensione e pregnanza: vitalità. Non se ne può fare a meno.
L’annotazione: i volumi che ho visto sono carenti sul piano editoriale. L’impaginazione, le immagini, la cura dei testi segnalano disattenzione e talvolta sciatteria. Per rimanere al volume su Ellen West, nel solo saggio di Marta Rizzo ho contato oltre 20 errori, sviste e parole mancanti. Peccato. Questa psichiatria non lo merita. (enrico pozzi)