Serena Danna, David Weinberger, Too big to know. Avere tutte le parole del mondo riduce al silenzio.

L’impossibilità di dimenticare generata dal Web e dagli archivi elettronici non riguarda solo le vite personali. Alle nostre identità è concesso sempre meno il sollievo dell’oblio e della palingenesi verso un altro sé o un altro nome. Lo stesso però vale per altre attività umane, ad es. l’attività scientifica e la scrittura.

È Serena Danna a porci il problema con un bell’articolo nell’inserto La Lettura del Corriere della sera del 22 gennaio (http://lettura.corriere.it/sappiamo-tutto-capiamo-poco/). Il punto di partenza è un saggio piuttosto superficiale di David Weinberger, tipico prodotto di filosofia-spettacolo, che per fortuna la Danna usa solo come pretesto.

Come si può ancora pensare, o scrivere, o asserire qualcosa quando si è immersi nel flusso dell’overload informativo?

Se ho a disposizione tutti i dati o i libri o gli articoli o i meme del mondo su un argomento, e poiché mi sarà impossibile leggerli tutti, come farò mai a scrivere qualcosa? Scrivere mette un termine all’acquisizione delle informazioni, ma quale criterio mi indica che ne ho acquisite a sufficienza? Dove fermare la saturazione progressiva dell’accumulo di conoscenze? Continuo a leggere volumi e articoli, ad aggiungere fonti e dati, mi accorgo che il costo marginale della mia impresa sta aumentando sempre più e che l’utilità marginale conoscitiva di ogni ulteriore lettura o dato diminuisce. Ma dov’è la soglia alla quale sospenderò la mia hubris acquisitiva? E chi, cosa, mi garantisce che da qualche parte, non letto, si nasconda il dato o il testo o il documento che invaliderà ciò che sto per fissare nella scrittura?

In tempi neurocognitivamente rozzi, ma filosoficamente non banali, Bergson aveva colto bene che dietro ogni atto della memoria si nasconde un immenso lavorio di dimenticanze (Matière et mémoire, 1896). In ogni attimo della mia vita posso agire  – e dunque anche compiere quella azione speciale che si chiama pensare, e quella specialissima che si chiama scrivere – se dimentico praticamente quasi tutto ciò che sta nel mio cervello, salvo quegli infinitisimi brandelli di informazione necessari a quell’atto. Ricordare è filtrare selvaggiamente, uccidere, i ricordi possibili. Una delle più gravi patologie della memoria e del sé si ha quando un individuo è sempre invaso ad ogni attimo dalla quasi totalità dei suoi ricordi.

Molte difese hanno protetto finora lo scienziato dall’overload informativo. Per esempio i topi, attivissimi editor del primo manoscritto della Ideologia tedesca di Marx, affidato per l’appunto alla “critica roditrice dei topi”, come lo stesso Marx scrisse. O i topi di biblioteca, sistematici ladri di volumi o di pagine di volumi, per fortuna quasi sempre quelle che ci sarebbero servite di più. O i colleghi, predatori preventivi di ciò che sarebbe stato utile alle proprie ricerche, capaci di tenersi materiali per anni contro ogni regolamento per impedire ai concorrenti di usarli (l’attività scientifica non è forse onesta collaborazione della koiné degli scienziati verso il sommo bene della verità?).  O ancora i bibliotecari, pronti a tutto pur di rendere irreperibili e non consultabili i volumi chiesti. Oppure la babele delle lingue: per nostra fortuna, solo in casi rari si era in grado di leggere più delle 4-5 lingue canoniche dell’aristocratico, della persona colta o del ricercatore autentico: benvenuti dunque testi e articoli in lingue impossibili. Per ultimo, la pigrizia, la stanchezza, la noia, le emorroidi, i distacchi della retina, e le mille altre strategie dell’autoinvalidamento a fin di bene (scientifico).

La storia della scienza è piena di ignorantia felix. Qualche esempio dalle parti mie. Henri Pirenne, il grande storico belga, deportato dai tedeschi e privo di qualsiasi libro, scrive con mezzi di fortuna e con la sola memoria la sua Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo, pubblicata solo postuma, punto di partenza per la magistrale sintesi di Maometto e Carlomagno. Erich Auerbach, ebreo tedesco fuggito a Istambul, non ha biblioteche con i libri che gli servono. Reso lieve, felice “viaggiatore senza bagagli” come l’amnesico di Anouilh, scrive nient’altro che Mimesis. Commenterà più tardi: «se avessi potuto far ricerche, informarmi su tutto quello che è stato scritto intorno a tanti argomenti, forse non mi sarei più indotto a scriverlo».

Ancora. Ernst Jones, feroce guardiano del movimento piscoanalitico e dell’ortodossia freudiana,  produce nel 1914 un testo straordinario – La concezione della Madonna attraverso l’orecchio (Jahrbuch der Psychoanalyse, VI (1914).  Vi sostiene la tesi che lo spirito – e dunque lo Spirito Santo – è solo una versione sublimata della flatulenza; di qui una vertigine visionaria che porta alla  bocca-ano, alla parola-Verbo, alla fecondazione per aurem attraverso il Verbo ecc. Punto di partenza l’orecchio scoperto della Madonna verso l’Angelo nella Annunciazione del Lippi, che sarebbe un topos delle rappresentazioni pittoriche dell’Annunciazione tra il 400 e il 500. Problema: l’orecchio scoperto è uno stilema statisticamente molto minoritario. Se Jones avesse avuto la voglia, il tempo e i materiali per esaminare qualche centinaio di Annunciazioni, non avrebbe potuto scrivere il suo saggio, oppure avrebbe dovuto rinunciare alla potenza mitopoietica di quella figurazione iniziale. Per fortuna sua e nostra, Jones aveva bisogno di scrivere quel saggio e nessun repertorio di immagini facilmente accessibili lo costringeva ad accorgersi della debolezza statistica del suo pretesto iniziale. Google avrebbe forse ucciso la Madonna, la flatulenza, lo spirito, lo Spirito, e il corporeo soffio dell’Angelo.

Scrivere è una azione che mette un termine e un limite alla fuga delle idee chiamata pensiero. Una poesia non scritta, ma solo pensata, non è una poesia, scriveva Mallarmé a un giovane aspirante poeta. Ma ogni azione è possibile solo attraverso una brutale riduzione della complessità, oppure un quasi assoluto oblìo di quasi tutto. Per agire devo decidere, cioè – caedo – tagliare. La scrittura esige una scarnificazione, una aggressione sadica al corpo carnoso, alla infinitamente troppa carne di significanti e significati che ingombra le nostre cavità interiori, dette mente, e ridotte stupidamente da troppi a neuro-, al solo cervello. Ancora Mallarmè, il coupe-papier di Divagations, il coltello-scrittura. Ancora il rasoio di Ockham che continua a tagliare l’occhio del Chien andalou restituendogli in questo modo la possibilità di vedere.

I topi sono scomparsi. Google realizza l’incubo della biblioteca di Babele borgesiana, dove nessun libro sparisce mai e tutti tutti insieme sono eternamente disponibili a fronte della mia carnale finitudine umana legata al limite alla morte. I bibliotecari online trovano sempre tutti i dati e tutti i volumi. I colleghi non ci regalano libertà facendo sparire i volumi ma li riproducono in plagi illimitati. La riproducibilità infinita dell’opera e del testo elimina la possibilità di non vederla. Google traduce ogni lingua in ogni altra lingua, e ci riduce alla paralisi mutacica del parlare tutte le lingue, o alla onnipotenza del pensiero glossolalico. Nessun editore stupido o umilmente intelligente ci farà il regalo di non pubblicare un testo, dato che ognuno, editore di se stesso, può pubblicare senza filtro e senza requie tutto. Nessun dato o saggio o volume sarà tanto lontano o tanto scomodo o tanto unico da non poter essere raggiunto, reso accessibile o ripetuto dalla archiviazione elettronica di tutte le parole dette ovunque.

Weinberger e colleghi sono figli di un illuminismo inconsapevole della dialettica dell’illuminismo, ovvero del fatto che la luce può essere nera. Le loro risposte sono buone e fiduciose, si appellano a procedure autoregolative inerenti al medium – in questo caso il web -, evocano magiche entità chiamate ‘filtri’ alle quali affidare non solo la riduzione della complessità, ma addirittura funzioni di falsificazione e verifica tramite le dinamiche spontanee del medium. Lo “spettro nella macchina” di queste metafisiche di rete è provvidenzialista e da “intelligent design”: tutto sommato, alla fine la rete andrà nella direzione giusto, verso il fatto condiviso e vero. Il Web come figura contemporanea del Mercato di Adam Smith, con la “mano invisibile” che lo guida verso la massimizzazione del godimento euristico, la conoscenza pressoché perfetta. In fondo per i veri credenti c’è senpre bisogno di dio.

Colpisce del libro di Weinberger che non ci sia nessun tentativo di verifica empirica sistematica e misurabile delle sue tesi. Cosa avviene concretamente quando si usa il web, e solo o soprattutto il web, per conoscere? Quanto sono più soddisfacenti, più adeguati, più attendibili, più verificabili e accessibili alle procedure del dubbio gli esiti di un atto conoscitivo effettuato solo attraverso la Rete? Le dinamiche del Web  facilitano le rotture di paradigma, oppure le rendono più difficili?  Sopravvivono in questo nuovo ecosistema euristico gli individui e le minoranze che propongono la crisi dei modelli esistenti – scientifici, espressivi, emozionali? Trova spazio e page rank e followers e trackbacks il deviante euristico, quando si scontra col phantasmata dell’intelligenza collettiva?

Quando Pareto riflette sulle condizioni che redono possibile il mercato perfetto, e dunque la “mano invisibile”, ne propone due prevalenti: la concorrenza perfetta e la simmetria informativa. Sulla prima c’è solo da sorridere: forse mai nella storia dell’umanità, salvo che in situazioni arcaiche di microgruppi sociali, sono esistiti monopoli così assoluti sui ‘fatti’, e concorrenze così impossibili. Sulla seconda, la risposta viene dal titolo dell’articolo della Danna: “Ci sono troppe informazioni. La soluzione? Aumentarle”. Tutto accessibile a tutti sempre.

La risposta migliore a questo la dà un breve racconto di fantascienza: Arthur C. Clarke, I nove miliardi di nomi di Dio. La vicenda: un monastero tibetano noleggia un elaboratore e alcuni tecnici per effettuare tutte le permutazioni possibili delle 9 lettere del loro alfabeto. I tecnici arrivano e iniziano il loro lavoro. Scoprono presto che, secondo i monaci, una volta elencati i 9 miliardi circa di permutazioni possibili – ovvero tutte le parole mai pensabili – il mondo finirebbe. Naturalmente i nostri giuggioloni portatori della ragione illuminista non ci credono, e ne ridono. Finalmente portano a termine il loro lavoro, impacchettano le loro cose e l’elaboratore, e cominciano a scendere a valle per tornnare in America. Uno dei due ammutolisce. L’altro si chiede perché, e alza gli occhi al cielo. Lassù le stelle hanno cominciato a spegnersi.

La disponibilità di tutte le parole del mondo spegne il mondo. Appunto. Punto.

 

PS Il racconto sta in quella bellissima antologia classica di fantascienza che è Le meraviglie del possibile, a cura di Sergio Solmi e Carlo Fruttero, Torino, Einaudi, 1959.

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