La narrazione interminabile di Ellen West. Un libro da leggere

M. BETTONI POJAGHI, L. CAPOCACCIA, A. CIOCCA, F. M. FERRO, M. RIZZO, “Un’altra volta, ancora”. Nuove riflessioni su Ellen West, Roma, Giovanni Fioriti Editore, 2013, 18 €

Pochi ma potenti fantasmi carsici di donna scandiscono la storia della psicoanalisi e dintorni. Anna O., Emmy von M., Lucy R., Elizabeth von R., Dora, l’Aimée. Acronimi zavorrati progressivamente con nomi anagrafici e biografie: Bertha Pappenheim, Fanny Louise von Sulzer-Wart, Ilona Weiss, Ida Bauer, giù fino a Marguerite Anzieu.

   Ellen West sembra avere un nome e un cognome, ma sono falsi. Li ha inventati L. Binswanger nel 1944 per produrre la sua narrazione di questa giovane tedesca, sua paziente per meno di 3 mesi a Kreuzlingen, suicida nel 1921 a 34 anni. Più di altre, Ellen West è rimasta fantasma, senza un nome vero. Solo un tessuto di narrazioni incrociate: le sue, quelle del marito, di Binswanger, degli altri che l’hanno avuta in cura, degli esegeti e ricercatori successivi – mi veniva da dire: inquirenti… Una vita palinsesto scritta da molti co-autori, ognuno dei quali ha riscritto pro domo sua le narrazioni degli altri e per gli altri, a partire dalla stessa presunta coautrice principale, Ellen West, il suo diario, le sue lettere.

Tre mesi, un suicidio, 23 anni per poter scrivere Der Fall Ellen West1, l’ur-palinsesto polifonico al quale numerose altre voci si sono poi aggiunte: scrivendo, riscrivendo, cancellando, interpolando, aggiungendo, interpolando, grattando via, falsificando, fino a produrre quel testo composito e incompiuto che è per noi allo stato attuale la narrazione di |Ellen West|.

   Un’altra volta, ancora promette nel sottotitolo Nuove riflessioni su Ellen West. È vero: un’altra volta, ancora, per questa narrazione interminabile. Ed è vero anche quel «nuove», ma prodotto dalla struttura del libro più che dai singoli diseguali contributi.

La donna chiamata Ellen West     
L. Binswanger, visto da Kirchner

  

 Il volume affronta Ellen West nell’unico modo euristicamente fecondo e legittimo. Ellen West non è un esempio di una qualche casella nosografica da identificare, ma un «fatto sociale totale» (Marcel Mauss), un «universale singolare2» (Sartre, Pozzi3) che condensa in una vita specifica e unica tutto il generico di cui ogni vita unica è irrimediabilmente fatta: un organismo, una collocazione e definizione sociale (donna, ricca, ebrea, Germania, ecc), una dinamica storica, una matrice linguistico-culturale, una famiglia, un sistema relazionale, un sistema medico-terapeutico. Il volume insegue questa complessità: la ‘cosa narrativa’ |Ellen West| è detta simultaneamente da un medico internista, un germanista, uno psichiatra, uno psicoanalista, una ‘biografa’, senza che a nessuno di questi punti di vista sia attribuito un privilegio euristico.

   “Interdisciplinare” è un termine consumato. La ricchezza di quello che avviene nel lettore di queste 139 pagine ha a che fare piuttosto con il «romanzo polifonico» di Bachtin4, annidato dietro la forma retorica e testuale dello scritto scientifico. In questo modo rispecchia e rivela quell’altro «romanzo polifonico» che è la narrazione intorno a |Ellen West|, la «parola bivoca» che gli è propria (a quando un avvicinamento al caso clinico, ai casi clinici della grande psichiatria e della psicoanalisi, partendo da Bachtin?).

   L’internista Capocaccia interroga da medico tutta la vicenda, intrecciando il rigore della evidence-based medecine con una sensibilità psicopatologica e medico-legale. Critica le fonti. Esige trasparenza e falsificabilità. Tenta anamnesi individuali e familiari. Insegue ereditarietà. Valuta le ipotesi di patologie organiche formulate all’epoca. Mette in dubbio – con procedura indiziaria – le modalità del suicidio e l’attendibilità del marito come testimone principale. Critica tempi, modi e sequenze degli interventi psicoterapeutici, sottolineandone l’inadeguatezza, la contraddittorietà e l’arcaicità. Le sue conclusioni nette sono a p. 7:

1. Molti aspetti del caso non sono stati valutati
2. Non si può parlare di fallimento delle psicoterapie di Ellen West perché queste non furono appropriatamente condotte
3. Il caso Ellen West è stato inquinato e distorto da parenti e medici, non so se a scopo diagnostico e/o giustificativo
4. Nessuno ha seguito questo caso scientemente, coscientemente, durevolmente e pazientemente come avrebbe meritato
5. Esso avrebbe potuto avere un decorso e una prognosi diversa 
6. La segretezza che da un secolo quasi copre il caso Ellen West lascia perplessi sulle sue motivazioni.

   Un episodio di cattiva medicina, accompagnato da un difetto etico grave e da risvolti degni di una indagine giudiziaria. Utile, questo richiamo agli aspetti hard della vicenda. Una persona muore. Si poteva evitare questa morte? Come è morta? Quali sono le responsabilità mediche e etiche dei medici curanti? Quale ruolo ha effettivamente svolto la famiglia: ha cercato di evitare questa morte o l’ha aiutata, peggio, stimolata? Dal punto di vista dell’episodio clinico, tutte domande importanti. Ma noi non continuiamo a leggere la vicenda tragica di Ellen West per indignarci della sua morte, per cercare l’assassino, o per riflettere sulla precarietà e incertezza dell’atto medico, sulla fragilità del suo ammantarsi di ‘scienza’, sulla sua storicità (allora Ellen West non si salvò, oggi forse si sarebbe salvata…). Questo caso non è una pessima cartella clinica, è una potente narrazione corale incompiuta, ci trascina dentro di sé, ci interroga, ci spinge a completare o a riscrivere a modo nostro la narrazione, ci fa cercare altre possibili narrazioni per quegli stessi materiali. Opera aperta in cerca di coautori.

   Là dove l’internista Capocaccia cerca la verità clinica, Marta Rizzo cerca la verità biografica. Il suo obiettivo è riscattare dalla narrazione la realtà di «questa giovane ardimentosa tedesca», ripristinando l’oggettività della sua vita. L’uso prudente e intrecciato di Binswanger e di due saggi5 basati sul recupero recentissimo di una parte di documentazione in mano alla famiglia permette una ricostruzione frammentaria della biografia e di alcune distorsioni rivelatrici della narrazione. Lo pseudonimo voluto da Binswanger – in particolare quel West derivato dalla Rebecca West del Casa Rosmer di Ibsen, una scelta che sancisce après coup l’identità e il destino della donna. Le caratteristiche della famiglia: la personalità di padre, madre, nonni, bisnonni, fratello maggiore, fratello minore, i due fratelli morti, e infine il grande autore parallelo del ‘testo’ di Ellen West, il marito-cugino Karl (anche questo un nome inventato da Binswanger). Nessun dato economico o sociale a parte l’agiatezza. Poi, passo passo, la biografia in senso stretto, estraendo il massimo di informazioni possibili da accenni spesso minimi e non fattuali. La nascita nel luglio 1987 oltreoceano, ma non si sa esattamente né dove né quando. Il trasferimento in Germania 10 anni dopo. Il carattere della bambina. Le abitudini alimentari. La scrittura. I viaggi. A 18 anni il primo accenno al Mondo Etereo. I fidanzamenti osteggiati con successo dai famigliari. Lo sport intenso, l’intermittente attività sociale, l’anoressia con punte bulimiche, l’amenorrea.

   Via via che si avvicina la fase finale, la biografia si fa più precisa. Matrimonio con il cugino Karl. Peggioramento delle condizioni fisiche tra il 1919 e il 1920. La prima terapia con von Gebsattel (febbraio-agosto 1920). La seconda con von Hattingberg (ottobre-dicembre). I primi tentativi di suicidio. I due ricoveri a Kreuzlingen. I dettagli dell’approccio di Binswanger. L’uscita concordata dalla clinica. Qualche giorno dopo, il suicidio in un contesto inquietante (probabile complicità attiva del marito).

   Un aide mémoire utile per quanto dice, e per quanto non può dire. Marta Rizzo è ben consapevole dei limiti della sua ricostruzione. Le fonti sono le pagine scritte da Ellen (selezionate dal marito Karl, e spesso scritte da lui più o meno sotto presunta dettatura della moglie), la narrazione di Binswanger, alcune testimonianze, materiali vari messi a disposizione con parsimonia selettiva dalla famiglia a partire da un fondo vincolato presso l’Università di Tubinga, alcune lettere del marito, e i saggi di Liliane Studer e di Hirschmüller nel volume curato appunto da Hirschmüller nel 2003 (ma le fonti su cui lavorano sono di fatto le stesse – potenzialmente tendenziose – di cui sopra).

   L’obiettivo qui è estrarre Ellen West persona dalla |Ellen West| come materiale nosografico, salvarla dalla sua riduzione alla malattia, alla diagnosi e alla cura. Rizzo cita la Studer6: «Bisogna tentare di scrivere della signora Ellen West, donna, nubile» (p. 37). Si tratta di dare forma almeno parziale all’informe di una esistenza – noi diremmo: all’ipertrofia di forme proposta dalla lettura psicopatologica – attraverso un approccio ottuso (Barthes) alla sua vita/opera. Una lettura ottusa della sua biografia consente di « [entrare] nelle violente, evidenti, acute spade, ingiustizie, contraddizioni cui questa donna ha dovuto far fronte […] per poi concludere sostenendo, senza esitazione alcuna, che è stata una donna del tutto inascoltata » (p. 63).

     Una conclusione che mi lascia perplesso. Il mancato ascolto è un aspetto generico e di genere della vicenda di Ellen West. Accomuna questa donna a migliaia di altre donne del suo stesso ceto, e a milioni di donne di quell’epoca. Quale rapporto euristico esiste tra questo mancato ascolto collettivo e le forme specifiche, sue, della sofferenza psichica di Ellen West in quanto individuo? In che modo il mancato ascolto aiuterebbe a comprendere quanto è andato accadendo al suo Leib, il franamento del suo stare col suo corpo nel mondo? Marta Rizzo è volutamente ironica quando diagnostica un mancato ascolto per questa persona ascoltata, iperascoltata, senza tregua da se stessa e da altri da viva e poi da morta. Sarebbe stato utile declinare le modalità e le intenzionalità dell’ascolto, parlare di ascolti diversi e di diverso impatto, o di ascolti affettivamente o terapeuticamente errati – forse. Conservando il dubbio che l’ascolto è sempre parziale e talvolta impossibile.

  

La raccolta dei testi scritti da Ellen West
Il volume curato da  Hirschmüller (2003)
che ha rilanciato con materiali nuovi il caso Ellen West

 

   La stessa tentazione del riduzionismo storico-sociologico trova forme esasperate nel saggio del germanista Bettoni Pojaghi sulla scrittura di Ellen West. La sua vicenda sarebbe la traduzione sintomatica dell’esperienza di una donna vissuta in Germania da ebrea nell’aurora del nazismo:

Le sue lettere, le sue scarne e un po’ retoriche poesie, i suoi diari, parlano una sola lingua, quella del dolore. […] Il dolore di una donna che da sola cercò di affrontare la crisi di un’epoca e di una cultura (quella dei primi del Novecento, sancita dalla finis Austriae e dal crollo dell’impero): la crisi di un mondo che andava scivolando verso la guerra e l’ideologia nazista. [p. 66]

  Intorno a questa vittima si addensano le complicità dei persecutori e dei carnefici. La verità biografica negata a Ellen West – a 95 anni dalla sua morte ancora non si sa neanche il suo nome – è una reticenza organizzata che continua a nascondere la colpa e il crimine: «Il buio [della biografia] è spiegabile. Spiegabile con una lunga serie di bugie e di reticenze, che in parecchi raccontarono e ancora oggi raccontano. In tanti hanno sbagliato e in troppi si sono nascosti». Gli anni trascorsi tra il suicidio (1921) e il testo di Binswanger (1944) sono il segno di una damnatio memoriae volontaria:

Chi aveva interesse a ricordare una donna ebrea, esteticamente non bella né interessante, negli anni della dittatura nazista e anche nella cultura del secondo dopoguerra? La Germania faceva ancora paura [ndR – ???!]. Meglio affidarsi al buio. Al vuoto. Questo nulla dura ininterrotto dalla sua morte fino al 1944. Che è l’anno della prima pubblicazione del saggio di Binswanger : Der Fall Ellen West. [p. 70]

E questo termine “caso”, il ridurre a “caso” la vicenda umana di questa donna, non è forse una modalità di uccisione semantico-testuale simmetrica al lasciar andare a morire Ellen West dimettendola da Kreuzlingen? Un omicidio in forma scientifica che dovrebbe far riflettere, e che esemplifica uno sterminio psichico di massa praticato con leggerezza precritica dagli approcci psichiatrici e psicoanalitici. «Già, il “caso” Ellen West. Non la donna Ellen West. Non la persona, l’artista o la scrittrice Ellen West. Ma appunto il “caso”. […] Se pensiamo che sono trascorsi quasi cento anni dalla sua morte, e che quello descritto è l’unico scenario di cui siamo a conoscenza, c’è di che rabbrividire».

   D’altra parte non girano forse nella vicenda personaggi compromessi con il Nazismo o addirittura teorici di alcune sue strategie di eliminazione? Passi per i rapporti di uno degli analisti della donna con l’Istituto Göring (von Gebsattel si redimerà partecipando con grande prudenza alla resistenza anti-hitleriana). Ma c’è «il temibile dottor Hoche», che propugnò in chiave eugenetica e di eutanasia sociale l’eliminazione delle «vite indegne di essere vissute», tra cui alcune categorie di malati psichiatrici. Il 24 marzo 1921 Hoche e Bleuler vengono convocati da Binswanger a Kreuzlingen per un consulto su Ellen West. Concordano su una diagnosi di schizofrenia. Il 30 marzo Ellen West, pur avendo dichiarato le sue intenzioni suicide, viene dimessa da Binswanger (come sappiamo, si ucciderà il 4 aprile). Ce n’è abbastanza per insinuare che Hoche abbia facilitato la dimissione di quella «vita indegna di essere vissuta», partecipando così in modo attivo alla soluzione per eutanasia praticata quasi certamente poi dal marito Karl su presunta richiesta della moglie.

   Bettoni Pojaghi cita a questo proposito Hannelore Homberg, che ha descritto la gestione medica degli ultimi giorni di Ellen West come «istigazione al suicidio». Ricorda poi come il già nominato dott. Hoche abbia difeso in un memoria la liceità giuridica del suicidio assistito appunto a proposito di Ellen e del marito. In sostanza la morte della donna si colloca nella zona d’ombra di un crimine. Questa spiegherebbe le reticenze della famiglia a aprire il suo archivio, la connivenza di Binswanger, e una singolare coincidenza (esistono mai complotti senza singolari coincidenze?): «Gli scritti [di Ellen West] sono conservati (almeno per la parte nota, perché sul resto pesa ancora silenzio) presso l’archivio dell’università di Tuebingen, ove si trova, ma guarda un po’, l’archivio privato del suo terapeuta Binswanger». [p. 70]

   Ma guarda un po’. Una delle espressioni tipiche del pensiero cospiratorio… Non basta. Tubingen non è forse il luogo dove è stato rinchiuso Hölderlin per trent’anni? Vale la pena citare per intero questo passaggio:

Un caso – per usare questa parola terribile, altamente inadatta a descrivere qualsiasi vicenda umana – davvero intricato. Quasi poliziesco. Se è vero che larga parte di questi testi, anche quelli conservati a Tübingen (la cittadina sveva nella cui torre venne rinchiuso per 36 anni forse il più grande lirico della Germania classica, Friedrich Hölderlin) non risultano catalogati né pubblicamente accessibili. [p. 70]

La story line è chiara. Un quasi-crimine. Un segreto. La complicità tra la famiglia e il medico curante, che diventa contiguità e complicità di archivi. Tübingen: il luogo dove si imprigionano e si fanno morire i poeti e le loro poesie: Hölderlin, Ellen West.

   A questo punto evito di esprimere il mio parere sulle qualità poetiche e letterarie di Ellen West, salto in blocco l’analisi che il germanista fa di alcuni sogni della donna, e cito la sua conclusione:

Il nostro pensiero oggi, concludendo questo studio, va ancora una volta a lei, al suo destino amaro; insieme, alle squallide rivisitazioni che in molti, non solo tra i testimoni dell’epoca, ne seppero trarre. Mostrando a tutti, e improvvisamente, la meschinità delle false scienze. [p. 86]

   Per fortuna c’è il saggio di Filippo Maria Ferro. Le «false scienze» si vedono restituire la grandezza e la fatica del loro sforzo di conoscere, riconoscere, classificare e ricondurre a diagnosi/prognosi alcune modalità estreme della vita mentale. Devo a Ferro di aver scoperto, molti anni fa, la grandezza di una pittura lombarda a me ignota, e in particolare di Tanzio da Varallo. Questo a volte mi fa dimenticare che Ferro è anche probabilmente il più acuto conoscitore italiano della storia della psichiatria, in particolare quella in lingua tedesca. Come pochissimi riesce a inseguire e ricostruire i percorsi difficili del pensiero psichiatrico senza annientarne il pathos euristico. Non è cosa semplice o ovvia tentar di ridurre a ragione ciò che fuori dalla ragione sembra porsi. Così Ferro insegue la fatica di Binswanger, senza riduzionismi o ricorsi al pensiero paranoico. La redazione del caso di Ellen West è collocata sullo sfondo concettuale di dilemmi diagnostici, talvolta aporie, che partono da Janet, passano per Kraepelin e Bleuler, si intrecciano con la psicoanalisi nascente e con le sue diaspore svizzere, incontrano Husserl prima poi Heidegger. Schizofrenia, schizofrenia simplex o paucisintomatica, anoressia nervosa, nevrosi ossessiva e sintomatologia ancastica, patologia organica, melanconia, la “presenza”, il Verstehen, la diagnosi di curabilità. La mappa costituisce il territorio, ed è una mappa molto fluttuante.

   Altrettanto instabili le procedure e i personaggi. Le tecniche psicoterapeutiche vivevano una fase caotica di ricerca per tentativi ed errori. Le modalità di formazione erano da un lato quelle irrigidite ma potenti delle scuole psichiatriche consolidate, dall’altro quelle ‘selvagge’ e incestuose della psicoanalisi nascente nelle sue diverse configurazioni. Chi si meraviglia e magari si scandalizza quando legge le pagine di Ferro su von Gebsattel, von Hattinberg e la loro gestione della paziente Ellen West vada a leggersi di corsa un po’ di storie cliniche di quegli anni, e i casi clinici di Freud.

   Ellen West è rimasta impigliata in questa rete euristica e terapeutica in fieri. Percorrendo la sua vicenda, ho pensato spesso che se fosse stata meno benestante le sarebbe andata meglio. Invece no. I soldi le hanno permesso di cortocircuitare una parte importante della psichiatria e psicoanalisi di quegli anni. Ha attraversato diagonalmente la matrice perdendo ogni possibilità di sentirsi offrire un ‘centro’ quand’anche rozzo, una narrazione di se stessa a se stessa che fosse strutturante, relativamente coerente e compatta, un ‘mito organizzativo’ interno. La sua complessità psichica è franata nella complicazione. La diversità delle varie relazioni terapeutiche e dei loro apparati concettuali ha reso ancora più difficile per lei trovare brandelli di pelle psichica surrogata, contenitori moderatamente efficaci, forse.

   Seguono i due saggi di Antonio Ciocca. Del primo – «La storia e le storie. La ricerca storica e la psicoanalisi» – non so cosa dire. Mi sembra affrettato, confuso e non particolarmente utile al volume. L’unico senso che sono riuscito a dargli è la proposta di uno sfondo storico cognitivo per il caso Ellen West. Descrivendo brevemente alcuni casi, quelli di Freud e in particolare l’Uomo dei lupi, potrebbe emergere in un certo senso la struttura retorica e narrativa che aveva in quel periodo il caso clinico, e dunque i modelli rispetto ai quali la narrazione su Ellen West si definisce e differenzia. Se questa era l’intenzione di Ciocca, diciamo che si è fermato prima ancora di accennarla.

   Il secondo riguarda direttamente Ellen West e in particolare le due psicoterapie in qualche modo ‘psicoanalitiche’ che hanno preceduto Kreuzlingen. Qui Ciocca diventa pertinente. La terapia con von Gebsattel dura 7 mesi (febbraio-agosto 1920) e viene interrotta dall’analista per una sua «crisi mistica» (collegata a Leonhard Stark, uno dei molti “santoni dell’inflazione” che pullulavano nella prima Weimar). Binswanger sembra prendere per buona questa ragione (terapia interrotta «per cause esterne»). Per Ciocca invece von Gebsattel crolla perché non regge l’incandescenza e i contenuti della relazione terapeutica quotidiana con la giovane donna. Ciocca ci offre degli elementi abbastanza convincenti a sostegno, anche se ovviamente i materiali su cui si basa sono a volte fragili, indiziari e indiretti. Tuttavia non credo che la “crisi mistica” sia stata solo un inconscio espediente per sottrarsi al peso emotivo di Ellen West. Per tutta la vita von Gebsattel ha coltivato scorciatoie fusionali di tipo religioso-settario, peraltro diffuse tra non pochi suoi colleghi.

   Più complessa la ricostruzione del breve rapporto psicoterapeutico di tipo analitico con von Hattingberg (settembre-dicembre 1920), caratterizzato anche da una serie di acting out suicidi della donna. Coccia usa con intelligenza i sogni di Ellen West e alcune pagine del suo analista per capire cosa può essere accaduto. Vede la svolta in un agito notturno della paziente collegato a un sogno (enuresi), e nel fatto che von Hattingberg non sia riuscito a “capirlo” (io direi piuttosto: comprenderlo): «Si scatena allora una spirale ingravescente di agiti (tentativi di suicidio) preceduta da una serie di sogni drammatici che segnalano ormai un ingorgo, un blocco mentale, una incapacità di elaborare l’angoscia. […] La dimensione corporea sembra ormai indipendente dal controllo della mente […]. Gli agiti diventano sempre più drammatici e incontrollabili» (p. 125). Segue il primo ricovero a Kreuzlingen (novembre), seguito poi da quello definitivo.

   C’è sempre molto azzardo nel lavoro secondario su materiali come i sogni di questa paziente, gli appunti e la lettera di von Hattingberg a Binswanger, gli accenni di quest’ultimo. Coccia se ne rende ben conto (vedi nota 8, p. 121). Tuttavia è convincente. Non perché la sua lettura di quanto è avvenuto tra «un nobile, un ariano, un pazzo» (Freud su von Hattingberg) e la donna sia ‘giusta’. Quanto perché, nelle uniche pagine psicoanalitiche del volume, emerge l’Antonio Coccia psicoanalista attento e articolato, la sua percezione profonda del dramma ‘anoressico’, la sua empatia partecipe e concettualmente arricchita. Chissà cosa è avvenuto effettivamente nel 1920. Ma Coccia ce ne offre una nuova narrazione che prende a pretesto il 1920, i diari e i sogni, ma che è in realtà la sua, gravida della sua esperienza con pazienti anoressiche, delle sue griglie teoriche (anche se Bion io l’avrei lasciato perdere…), della sua attenzione sensibile e sottile a segnali quasi impercettibili. Una narrazione plausibile (cos’altro si può chiedere ad una narrazione psicoanalitica? Non certo di essere vera…) e dunque probabilmente efficace. Di quell’efficacia simbolica dei canti usati dagli sciamani Cuna per guarire le difficoltà del parto che sta al centro di uno degli scritti più belli di Claude Lévi Strauss.

   Coccia chiude il suo saggio con un richiamo al corpo, e ad una sorta di non luogo a procedere cbe affligge la psicoanalisi riguardo al corpo, malgrado di corpo si affanni a parlare sempre di più.

L’importanza del corpo, della fisicità, sta ricevendo un ampio riconoscimento nella letteratura psicoanalitica. Ma ancora oggi il corpo è un oggetto difficile da focalizzare dentro il campo di osservazione analitica, un oggetto che tende a rimanere essenzialmente extra-analitico. E a questo proposito Meissner ha notato come sia spesso l’atteggiamento mentale dello psicoanalista teso a privilegiare lo psichico, il verbale, il simbolico a costituire un ostacolo da elaborare. [p. 131]

 Sottoscrivo. Non basta la nuova ‘moda’ del corpo negli ambienti e nelle riviste psicoanalitiche a restituire il corpo alla psicoanalisi e la psicoanalisi al corpo. Ci vuole ben altro, ben altra complessità e capacità di percepire il corpo come un «fatto sociale globale» (il già citato M. Mauss). Per riprendere una bellissima frase di una recensione di E. Glover a von Hattingberg: «La teoria dell’analista corrisponde ai sintomi del paziente». Appunto.

   Così, per altra via (Glover…) siamo di nuovo a Ellen West, a |Ellen West| e a questo volume. Bello e utile, uno dei pochissimi contibuti italiani di rilievo su quel ‘caso’ insieme alla Introduzione di Stefano Mistura per l’edizione Einaudi di Binswanger. Non per la qualità intrinseca di ciascuno dei suoi saggi – solo alcuni hanno valore –, quanto per la rete euristica che la struttura del volume propone implicitamente: il Körper/organismo, la biografia e il suo rapporto non lineare con una vita come storia e una cura come narrazione co-costruita, la lettera del ‘testo’ prodotto dal paziente e dalla relazione di cura, la griglia degli strumenti offerti dalle corporazioni scientifiche (medico-psichiatriche, psicoanalitiche) e la cassetta degli attrezzi storicizzata che ne deriva, il pathos che si nasconde nelle categorie, il rischio del caso7 che inerisce ad ogni cura e narrazione della cura, il corpo/Leib.

   Mancano qui parti fondamentali di questa rete: l’uso della storia è una parodia riduzionistica della storia, il sociale si riduce a qualche litania banale (tipo “donna ebrea”), ben altro si può fare e con ben altri strumenti sui testi di Ellen West. Rimane però il richiamo di fondo: la diade {[Ellen West]⊂ ⊃[|Ellen West|]} – la persona e la sua narrazione polifonica – può essere avvicinata solo come condensazione dinamica di molte prospettive e dimensioni diverse, un universale singolare. Senza di questo ciò che ne risulta sono solo modesti esercizi scolastici. [enrico pozzi]

 

NOTE

1 Esistono varie traduzioni italiane. Segnalo quella con l’importante Introduzione di Stefano Mistura: L. Binswanger, Il caso Ellen West, Torino, Einaudi, 2011.

2 Per il «fatto sociale totale» in Mauss, si veda l’Introduzione di Cl. Lévi-Strauss a M. Mauss, Sociologie et anthropologie, Paris, PUF, 1968; B. Karsenti, Marcel Mauss. Le fait social total, Paris, PUF, 1994.

Collegato al tema della biografia impossibile o interminabile, il concetto di «universale singolare» percorre tutta l’opera di Sartre da La Nausée in poi. Trova formalizzazioni esplicite nel saggio introduttivo Questions de méthode in La critique de la raison dialectique (1960) e nella ‘biografia’ incompiuta di Flaubert (L’Idiot de la famille, 1971-72). Pozzi ha usato il concetto sartriano nel quadro dei problemi posti dal metodo biografico in sociologia e dal caso clinico in psicoanalisi. Cfr per esempio Testo e genere nel metodo biografico, in AA.VV, Biografia, storia e società, Napoli 1985, pp. 73-84; on line: http://www.enricopozzi.eu/Biografia_storia/testo_genere.pdf

Cfr Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino, Einaudi, 1968

5 Fondamentale A. Hirschmüller (a cura di), Ellen West. Eine Patientin Ludwig Binswanger zwischen Kreativität und destruktivem Leiden, Heidelberg, 2003. Il suo lungo saggio introduttivo è stato tradotto parzialmente nel 2005 nella rivista di Maurizio Fagioli, Il sogno della farfalla; poi integralmente da Giacomo Conserva nel 2012 (solo on line:http://gconse.blogspot.it/2012/06). A Tubinga Hirschmüller detiene in qualche modo le chiavi dell’archivio Ellen West per conto della famiglia; o per meglio dire, le parti dell’archivio che la famiglia ha deciso di mettere a sua disposizione con molti vincoli.

6  L. Studer, «Schriftstellerin oder Anorektikerin? Ellen West im Spannungsfeld von eigenen Wünschen und Gesellschaftlichen Entwartungen», in Hirschmüller 2003, cit.

Cfr Enrico Pozzi, «Il rischio del caso», Il Corpo, VI, 2002, n. 10-11.  http://www.enricopozzi.eu/Il_rischio_del_caso.pdf

 

TESTI CITATI

BACHTIN Mikhail, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino, Einaudi, 1968

BINSWANGER Ludwig, Il caso Ellen West, Torino, Einaudi, 2011, con una «Introduzione» di Stefano Mistura.  Utile la lettura del testo originale del 1944, anche per correggere la ‘tendenziosità’ di alcune scelte terminologiche dei traduttori italiani. Lo si può trovare on line in 4 parti sul sito degli Swiss Archives of Neurology and Psychiatry

http://www.sanp.ch/docs/historical/BinswangerL-EllenWestA.pdf

http://www.sanp.ch/docs/historical/BinswangerL-EllenWestB.pdf

http://www.sanp.ch/docs/historical/BinswangerL-EllenWestC.pdf

http://www.sanp.ch/docs/historical/BinswangerL-EllenWestD.pdf

HIRSCHMÜLLER A. (a cura di), Ellen West. Eine Patientin Ludwig Binswanger zwischen Kreativität und destruktivem Leiden, Heidelberg, 2003

HIRSCHMÜLLER A., AKAVIA N. (a cura di), Ellen West. Gedichte, Prosatexte, Tagebücher, Krankengeschichte, Heidelberg, 2007

KARSENTI B., Marcel Mauss. Le fait social total, Paris, 1994

LÉVI STRAUSS CL., Introduction, in M. MAUSS, Sociologie et anthropologie, Paris, 1968

POZZI E., «Il rischio del caso», Il Corpo, VI, 2002, n. 10-11

POZZI E., «Testo e genere nel metodo biografico», in AA.VV., Biografia, storia e società, Napoli 1985, pp. 73-84; on line: http://www.enricopozzi.eu/pubblicazioni/Biografia_storia.pdf

SARTRE J.-P., Questions de méthode in La critique de la raison dialectique, Paris, 1960

SARTRE J.-P., L’Idiot de la famille, Paris, 1971-72, 3 voll.

STUDER L., «Schriftstellerin oder Anorektikerin? Ellen West im Spannungsfeld von eigenen Wünschen und Gesellschaftlichen Entwartungen», in Hirschmüller 2003, cit.

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