Pezzi di corpi in cerca di una Nazione

Barbara BRACCO, La Patria ferita. I corpi dei soldati italiani e la Grande Guerra, Firenze, Giunti, 2012, pp. 237, €16 

Nel 1914, a 22 anni il giovane aspirante pittore Otto Dix si arruola volontario nell’esercito del Kaiser. Ferito ripetutamente, sopravvive. Negli anni successivi elaborerà la più potente rappresentazione visiva della Grande Guerra e del suo lascito corporeo: Skat, Via Praga, il Venditore di fiammiferi, le straordinarie incisioni di Der Krieg, la passeggiata sinistra dei Mutilati di guerra, il pannello destro e sinistro di Metropoli (1927-28), il volto maciullato del Veterano ferito: pezzi incompleti di corpi vagano nella trincea, nella metropoli, nel tempo e negli spazi della vita quotidiana. Quasi contemporaneamente Georg Grosz  spargerà mutilati nelle sue rappresentazioni degli inizi della Repubblica di Weimar, tra pescicani di guerra, borghesi grassi, generali medagliati, prostitute ecc sullo sfondo della Große Stadt.

 

Otto DIX, Giocatori di skat, Olio su tela, 1920

 

Niente di tutto ciò in Italia (o, aggiungiamo noi, in Francia, in Inghilterra…). Solo Alberto Martini e le tavole della sua Danza Macabra Europea: belle, ma scontate nell’iconologia, lontane dalla realtà materiale della guerra, e senza mutilati.   

Questo il punto di partenza del libro interessante di Barbara Bracco. L’Italia di quel dopoguerra non si è consentita una qualche forma di Neue Sachlichkeit. L’evidenza irriducibile dei corpi martoriati ha preso altre strade. Almeno per una lunga prima fase, ha trovato elaborazioni e sublimazioni diverse rispetto alla Germania degli anni ’20. Quali? Perché? Una parte – ovviamente solo una parte – della risposta sta nei modi, nelle strategie e nelle politiche con le quali l’Italia ha gestito i mutilati, il Mutilato.

Nelle statistiche ufficiali, circa 450mila corpi gravemente lesi eppure vivi. Scrive con forza l’autrice: «catastrofe del corpo», «trauma anatomico», «cesura fisica tra un prima e un dopo», «la Grande Guerra come apocalisse della modernità». Un nuovo tipo di essere umano, «l’uomo protetico», convive stabilmente con l’uomo intero. Individuo e massa, parte di una entità collettiva ad elevata visibilità – la comunità dei mutilati – portatrice di enorme potenza simbolica, monumento (quasi) vivente della guerra appena finita, serbatoio della domanda senza fine di un risarcimento impossibile, incarnazione (letteralmente) di una esperienza-limite che non può consentire agli altri di dimenticare, forza virtualmente politica da agganciare e usare nello scontro politico reale, legittimazione sociale che fa gola a corporazioni professionali in ascesa.

Il primo momento di gestione sociale della mutilazione è nella guerra stessa. Barbara Bracco descrive in parallelo l’esperienza corporea della guerra e della mutilazione da parte dei combattenti, il modo in cui l’Esercito e (meno) gli attori politici si fanno carico di questi corpi, la tensione tra l’uomo-macchina militare e l’uomo-corpo del soldato, il ruolo fondamentale dei medici sul crinale tra il ripristino funzionale del primo e il prendersi cura effettiva del secondo.

Per l’Esercito il corpo «giovane e maschile» del soldato è «un sorvegliato speciale», un apparato di cui garantire in qualche modo livelli decenti e duraturi di capacità di dare/subire morte. Si tratta di mantenerlo più o meno efficiente attraverso l’abbigliamento, l’alimentazione, la propaganda. Ma occorre anche difenderlo da se stesso, dai limiti antropofisici di un’Italia spesso sottonutrita e fragile, dalla propria ignoranza delle regole corporee di convivenza adeguata, dall’analfabetismo funzionale di modi di vivere contadini che potevano aiutare a morire, ma diventavano un pericolo per se stessi e gli altri (ad es. lo sputare in giro collegato alla tubercolosi in quanto principale causa di invalidamento e morte non bellica nell’esercito italiano). Un imponente disciplinamento di massa fisico, comportamentale e psicologico, la più significativa scuola della nazione realizzata dall’Italia post-unitaria. Bracco ne delinea vari aspetti, anche se stranamente ignora lo sforzo di indottrinamento ideologico, il tentativo di bloccare la ‘sovversione’ non solo con il terrore e la censura ma anche con una pedagogia politica diretta. Pagina dopo pagina, ecco la pochezza reale di tanta messa in scena di cura per il soldato: l’inadeguatezza di scarpe e vestiario, l’alimentazione largamente insufficiente, la povertà delle soluzioni logistiche di assistenza e supporto, l’insipienza degli Alti Comandi di fronte alle necessità di un esercito di massa per una guerra di lunga durata.

L’esperienza corporea del soldato è ovviamente al centro di molte pagine. Nulla che non sia già stato molto descritto, anche se la freschezza tragica e dolente si rinnova ogni volta. L’originalità qui sta nell’uso ampio delle testimonianze mediche. Ma l’attenzione alla medicina di guerra, alle percezioni e autopercezioni dei medici, ai loro conflitti (non frequentissimi) tra funzione medica e obiettivi bellici, è forse l’aspetto più interessante del libro. Il medico è un protagonista primario della corporeità del soldato, l’interlocutore dei corpi sani e dei corpi feriti, dei corpi che simulano e di quelli che soffrono atrocemente, il giudice spesso ultimo di un destino individuale. A lui si deve l’essere salvati o abbandonati a morire, l’amputazione demolitrice o l’intervento più o meno riparativo.

La corporazione medica esce dalla guerra rafforzata socialmente, legittimata politicamente, investita di un potere senza confronto con l’anteguerra. Tutta la comunicazione sociale e parascientifica esalta le capacità demiurgiche del medico, in particolare del chirurgo al fronte e nelle retrovie: rifà i volti e gli arti, surroga i pezzi di corpo perduti, inventa originali soluzioni funzionali alla perdita di organi interni, rispristina la capacità lavorativa, restituisce socialità e imitazioni di schema corporeo a corpi-brandelli privati di molte caratteristiche dell’umano. La guerra diventa per la corporazione medica uno straordinario laboratorio che costringe a sperimentazioni, tentativi e interventi altrimenti impensabili o illeciti. Lo stato d’eccezione bellico vale anche per il medico rispetto al corpo ferito, gli consente scorciatoie, audacie operative e interventi d’avanguardia anche con bassissime probabilità di riuscita. E dopo la fine della guerra, ecco il medico come misuratore dell’efficacia residua di un corpo, misuratore di livelli di invalidità, dispensatore di status, riconoscimenti, pensioni di guerra e altri sussidi: agente burocratico-economico della «Nazione ferita», più prosaicamente dello Stato.

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Creare l’illusione di una ampia riparabilità dei corpi offesi è solo parte di uno sforzo molto più ampio del sistema politico-sociale per “risemantizzarli” (uso il linguaggio dell’autrice). Non basta risarcire il Körper individuale, occorre ripristinarlo come Leib. Non basta restituire parvenze umane e sociali (che è la stessa cosa) a pezzi di corpi, occorre ridare significato a un corpo collettivo mutilato, al Mutilato in quanto nuova categoria sociale e in quanto comunità/massa di corpi.

Barbara Bracco segue due percorsi. Da un lato le forme, le modalità e i difficili equilibri tra assistenza pubblica e assistenza privata, con le loro visioni spesso abbastanza diverse delle priorità d’intervento e degli obiettivi da raggiungere (ad es. il reinserimento del mutilato nel lavoro: quale, dove, come). Dall’altro l’associazionismo dei corpi offesi: l’Associazione Nazionale Invalidi e Mutilati tenta di reinserire (con scarso successo) l’invalido nel circuito simbolico e patriottico della guerra durante il conflitto, in particolare nei momenti più disastrosi – Caporetto e il post-Caporetto. Nelle intenzioni di una parte dell’Associazione, si tratta di far ridiventare l’invalido un quasi-soldato, fisicamente incompleto ma appunto per questo un più completo esempio di Soldato.

Il tessuto connettivo di questo doppio percorso è fornito da due discorsi dominanti e interconnessi: il martirio che rigenera il corpo invalidato della Nazione verso una rinascita, e il tema della vittoria mutilata. Il mutilato diventa contemporaneamente lo specchio di una mutilazione inferta alla Nazione stessa e al suo immenso sacrificio; e lo strumento, il vettore simbolico della ricomposizione vincente del suo corpo sociale, della rinascita dell’Italia. Sappiamo bene quali furono, tra alterne vicende iniziali, gli esiti di tutto ciò.

La parte più debole del libro riguarda appunto questo livello. Manca un modello teorico del cosiddetto corpo sociale e della Nazione, dunque una concettualizazione del rapporto tra corpo individuale e corpo collettivo, tra schema corporeo del mutilato e Nazione mutilata, tra risarcimento del corpo offeso e risarcimento rigenerativo dell’Italia. L’autrice avrebbe potuto fare appello alla modellistica psicoanalitica del rapporto gruppo/individuo (il Freud della Massenpsychologie, Bion, Money Kyrle), al Kantorowicz dei due corpi, agli studi sul Milite ignoto  ecc. Niente di tutto ciò nel libro, dunque rimangono in piedi domande fondamentali. Di cosa è fatto secondo la Bracco questo corpo sociale? Come, attraverso quali percorsi dell’immaginario, mediante quali rappresentazioni sociali e fantasmatiche interagiscono il corpo-madre della Nazione e il corpo mutilato del figlio? Di quali simboli, segni, icone e immagini mentali collettive sono fatte le reti semantiche che collegano il corpus fictum individuale e la persona ficta del corpo sociale?

Una articolazione concettuale di questo snodo avrebbe permesso all’autrice di scrivere pagine ben più ricche e feconde sulle percezioni e autopercezioni del corpo offeso, sulla sua iconografia e mitografia, sul ruolo dell’immagine fotografica e filmica (quest’ultima ignorata). Cioè sulla fantasmatica sociale e individuale insieme della Patria ferita, sulle dinamiche dell’immaginario sociale che impregnano sempre le vicende dei corpi. Una autentica sensibilità interdisciplinare le avrebbe consentito di moltiplicare le risonanze della sua analisi ben oltre i confini piuttosto angusti in cui l’ha costretta.

L’antropologia della morte e dei rituali del lutto, la sociologia della guerra e del corpo, il folclore e le strutture dell’immaginario, la psicologia e la psicologia sociale delle situazioni di stress estremo, gli studi sulla comunicazione e la propaganda bellica, il vasto terreno della cultura ‘bassa’: tutti campi contigui alla storia, e straordinariamente ricchi di idee, suggestioni, ulteriori ipotesi interpretative. Qualche esempio?  Il tema del sopravvissuto – tale è l’invalido –, colui che passa per il regno dei morti e ne torna vivo, il morto-vivente carico di infinito risentimento verso i pienamente-vivi, il soldato della Chasse Arthur o della Schiera selvaggia: una configurazione iconica e immaginaria che le ‘camice nere’ sfrutteranno intensamente quanto (forse) inconsapevolmente fin nei dettagli. Il tema della elaborazione del lutto collettivo, con le sue varianti depressive e paranoidee.  Il rapporto tra mutilazione, schema corporeo e ripristino della identità individuale/collettiva. L’arto fantasma come potente metafora euristica. Su un altro registro: la potenziale fecondità di confronti con altri paesi dove il problema dei mutilati è stato ancora più importante quantitativamente e qualitatitivamente (analogie, simmetrie, ma anche importanti differenze). E così via.

Alla fine però queste critiche sono ingenerose. Rispetto a molta storiografia sulla Grande Guerra, più di altri Barbara Bracco si è avventurata extra moenia2. La corporeità è estranea alla prospettiva della maggior parte degli storici italiani. La battuta «il corpo … finalmente» lanciata da Alain Corbin come riconoscimento della scoperta della corporeità da parte degli storici francesi negli anni ’70 non è mai stata pronunciata da noi (cfr R. Mandressi, Gli storici francesi e il corpo, IL CORPO 2/13, pp. 3-43).  I pochi tentativi sono rimasti generosi ma marginali: i seminari di Laboratorio di storia e Sergio Bertelli a Gargonza, Paravicini Bagliani e la stupenda serie di Micrologus, Sergio Luzzatto, Giovanni Ricci, Ottavia Niccoli, i saggi di Cristiano Grottanelli nella rivista IL CORPO, un po’ di Camporesi, altre cose qua e là in ordine sparso, ancorate all’ovvio della guerra e della medicina. Per il resto silenzio, il tiepido rincantucciarsi dentro i confini sicuri di un far storia senza ibridazioni e corti circuiti. Storia tranquilla per gente tranquilla al riparo dalle contaminazioni. Gente prudente, perché fin troppo consapevole che il corpo non può fare a meno di contaminazioni: «fatto sociale totale» (M. Mauss), campo di disordini euristici e di pericolose incursioni nelle terre di nessuno tra le trincee delle corporazioni accademiche.

 


NOTE

1  Il quadro a olio di Dix è stato incluso dai Nazisti nella mostra del 1937 sull’Arte degenerata sotto la dicitura Gemalte Wehrsabotage (Sabotaggio militare in pittura). Si veda il Catalogo ufficiale della mostra a p. 15. Se ne sono perse poi le tracce. Ne rimane una versione a puntasecca, stampata in 35 copie variamente disperse (il MOMA di New York ne possiede un esemplare di eccellente qualità). La mostra del 1937 è stata duplicata, per quanto possibile, dalla Neue Galerie di New York, un piccolo museo-gioiello tra i più vivi sulla scena newyorchese. Cfr. O. Peters (ed.), Degenerate Art. The Attack on Modern Art in Nazi Germany, 1937, New York, Prestel 2013.

2  Insieme a questo volume, utile vedere il fascicolo monografico Il corpo violato. Sguardi e rappresentazioni nella Grande Guerra, a cura di Barbara Bracco e Teresa Bertilotti, «Memoria e Ricerca», 38/2011. Sul tema specifico del volto, rimandiamo al bel workshop di Suzannah Biernoff a Durham nel settembre 2014: http://www.ilcorpo.com/ilcorpo/news/2014/09/07/the-mutilated-faces-of-the-great-war-lost-identities-restored-identities-an-interesting-workshop-in-durham-on-sept-18th/

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