23 Ott Aprire il corpo di Gheddafi, ovvero l’autopsia difficile di un corpo sociale
Misurata (Libia), 22 ottobre 2011. Alcune ore dopo l’uccisione di Gheddafi, il portavoce del consiglio militare di Misurata, Fathi al-Bashaagha, dichiara che l’autopsia sul cadavere «non verrà fatta nè oggi nè mai. Nessuno sta per aprire il corpo di Gheddafi» (si veda tra i tanti Il Sole 24 Ore, http://24o.it/tP9Um).
Nei giorni successivi i vincitori sembrano cambiare idea, probabilmente anche per le pressioni degli alleati esteri. Rimane però la domanda: perché, a caldo, prima della politica, nel momento dell’immaginario, quella autopsia non si poteva fare?
Prima ipotesi: l’autopsia avrebbe rivelato il linciaggio di Gheddafi ferito, prima del colpo di pistola finale. Ma figuriamoci: che il dittatore sia stato linciato da vivo è evidente da tutta la documentazione visiva disponibile, compresa la sodomizzazione con un bastone. I ribelli ci fanno una brutta figura? Ma quando mai: lasciamo questi pensieri alle anime belle e tenere di cuore, da che mondo è mondo, la caduta dei dittatori non rispetta il bon ton.
Seconda ipotesi: l’autopsia ritarda la sepoltura, ovvero l’atto socialmente organizzato che mette una pietra tombale sul morto separandolo definitivamente dai vivi e dai sopravvissuti. Un corpo insepolto rimane in qualche modo disancorato dall’ordine delle cose socialmente sancito. Sta in una zona liminale e indefinita, fuori dal nomos (che, ricordava Carl Schmitt, significa anche ‘recinto’). E’ un corpo fuori dalle categorie, dunque ‘impuro’, selvaggio, senza controllo: morto non pienamente morto, sregolato, carico della potenza e della rabbia dei morti senza che un rito sociale lo abbia ingabbiato in una tomba e forse in qualche modo anche appagato (“requiescat in pace”). Mantenerlo nella comunità dei vivi significa avere tra noi una scheggia impazzita e rabbiosa – la folle du logis – in grado di produrre disordine e distruzione. Per esempio rimanendo simbolo attivo della guerra civile, capace di alimentarla e rilanciarla quando invece la sua morte avrebbe dovuto segnarne la fine.
Terza ipotesi: il Sovrano – anche il più derelitto dei sovrani – è sempre in qualche modo sacro, e la sua uccisione sacrilega. L’autopsia rappresenta un seconda uccisione, un ulteriore sacrilegio che sfida la Potenza (la Macht weberiana) sempre nascosta dietro il potere/persona (la Herrschaft). La messa a morte del Sovrano si colloca nella logica del sacrifico, e nello schema dell’atto sacrificale. Per quanto il Sovrano da uccidere sia meritevole di morte, appena viene ucciso assume la posizione e i poteri della vittima sacrificale. Chi lo uccide va invece espulso dalla polis con le scuse più varie, o addirittura a sua volta primo o poi messo a morte: il tirannicida salvifico trasformato in pharmakos, o quanto meno condannato all’ostracismo. Quando il sacrificante – individuo o gruppo – ordina l’apertura del cadavere del Sovrano e l’esposizione del suo interno allo sguardo del sacrificatore e del popolo, si sente confusamente preso nel sacrilegio e promesso a un destino di pharmakos. Difficile volerlo con tranquillità.
Quarta ipotesi: ogni polis nasce da un sacrificio rituale, da un cadavere. Questo cadavere diventa il contenitore in cui si condensa la Potenza della sovranità, consacrata ulteriormente dalla messa a morte sacrificale. La nuova configurazione del Noi – la nuova polis – trae la sua forza da questo sincizio di sacro che la fonda, e che la irradia con la sua forza di nucleo denso di sacro: il “sole nero” che dà vita, compattezza e potenza alla nazione, avrebbe detto Hölderlin. L’autopsia sottrae in parte il cadavere al campo della Potenza, lo svuota in parte di sacralità, lo riduce a mero corpo da esplorare con l’occhio della ragione. Laica, non serve a chi ha bisogno di costruire il nuovo Noi su una cisti di sacrilegio fondatore. Girard, Burkert? Il primo è robetta, ma il secondo, perché no?
Quinta ipotesi: l’autopsia espone l’altrimenti invisibile interno del Sovrano, il corporeo sancta sanctorum, la forma incorporata degli arcana imperii. Ma di che cosa è fatto l’interno del corpo del re? O per meglio dire: di cosa è fatto l’interno del corpo politico del Re? La risposta è l’immagine del frontespizio del Leviatano di Hobbes: il corpo politico del Re è costituito dall’aggregato dei sudditi, che il Re contiene tutti dentro di sé, facendosi eguale al corpo sociale. A modo suo, l’ipotesi di Freud sul rapporto Capo-gruppo nella Massenpsychologie del 1921. Oppure potremmo tentare una risposta più durkheimiana, del Durkheim delle Formes élementaires de la vie religieuse: il Re è la forma concreta della totalità sociale, che a sua volta è la forma cognitiva ed emozionale del sacro. Il cadavere del Re – il cadavere di Gheddafi – contiene ancora il corpo politico del suo regno, anche se in una modalità che chiameremmo concava, in negativo, e tramite questo cadavere il sociale continua in realtà ad esistere. Ma se l’autopsia apre il cadavere, che ne è del sociale che esso contiene? Fugge dal ventre aperto, e si sfalda sotto lo sguardo laico della lezione di anatomia. L’autopsia genera il fantasma dell’anomia, della disintegrazione del corpo sociale tramite l’effrazione del cadavere sacro del Sovrano. Ed è questa anomia disgregante ma incombente che per qualche ora il coacervo dei ribelli libici ha istintivamente cercato di evitare salvando l’integrità consacrata del corpo/vittima di Gheddafi.
Delirio paranoico-critico? Certo.