ANTONELLA SALOMONI, Lenin a pezzi. Distruggere e trasformare il passato, Bologna, Il Mulino, 2024
Les statues meurent aussi. Così Chris Marker e Alain Resnais titolavano all’inizio degli anni 50 il loro documentario anticoloniale sull’arte africana, bloccato dalla censura per quasi un decennio.
Anche le statue di Lenin muoiono, racconta la storica Antonella Salomoni. Il punto di partenza è la frattura politica, simbolica e immaginaria introdotta dalla sua morte. Gravemente invalido da anni, ormai isolato nella sua dacia a Gorki, Lenin rimaneva ancora il padre fondatore dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il fil rouge fantasmatico che ancorava il nuovo stato socialista alla élite prerivoluzionaria poi bolscevica. La sua scomparsa rischiava di far esplodere le tensioni e i conflitti già evidenti all’interno del gruppo dirigente del PCR(b) poi PCU(b). Il vuoto aperto nell’immaginario collettivo di una società appena uscita da una guerra civile e lacerata da mille fattori diversi riapriva spinte disgregative che la prudenza della NEP non bastava a mitigare.
Così Lenin morto non poteva morire. Salomoni ricostruisce il con testo, le matrici prerivoluzionarie e i tentativi bolscevichi di inventare memoria, persistenza ed ‘eroi’ esemplari alla liquefazione sociale introdotta dalla rivoluzione. Lo stesso Lenin aveva proposto una strategia di “propaganda con i monumenti” per introdurre in gran fretta forme di persistenza nella ‘catastrofe’ (come da teoria delle catastrofi) rivoluzionaria. Questa stessa ‘propaganda’ investe ora il suo propugnatore. Lenin deve diventare monumento.
Un doppio monumento. Il corpo morto deve trascendere la morte diventando reliquia integrale e dinamica.
Un documento affascinante e inquietante. Il Sacro del potere cui la Religione serve da supporto marginale.
La catastrofe naturale dell’uragano Harvey toglie potenza alla Potenza carismatica e salvifica di Donald Trump. Occorre ripristinarla in un rito mediatico pubblico gestito dal Pastore Jeffress e da alcuni altri Pastori sapientemente multirazziali. Arcaiche le parole. Arcaico il cerchio dei corpi e il toccamento delle mani protese, gesto esemplare della taumaturgia e circuito corporeo della Potenza restituita. Arcaici i richiami alla Coppia Regale Divina. Arcaiche le posture dei volti, entusiaste di dio. Arcaico il tono.
Tutto arcaico, nel cuore della modernità. Il disincantamento del mondo così fragile rispetto alla domanda di incantamento che sale dalla paura.
Il corpo di Donald Trump, nella sua pochezza e nella sua maschera ridicola, è irrilevante. E’ un altro corpo, il doppio Corpo del Re Taumaturgo. Kantorowicz e Marc Bloch, con sullo sfondo il Potere carismatico weberiano che cerca di restaurare la prova del suo rapporto privilegiato con la Potenza, la capacità di tenere a bada la Natura catastrofica.
Da vedere e rivedere. (enrico pozzi)
Jim Jones, suicidio collettivo, oicofobia, antropofobia, Finkielkraut, Ernesto de Martino, e Adriano Favole
Jim Jones è stato il fondatore, il capo carismatico e il pifferaio paranoico del People’s Temple, la comunità religiosa califor-niana che si è suicidata in massa – 1012 morti – nella giungla della Guyana il 18 novembre 1978.
La famiglia del Reverendo era atipica. 1 figlio dalla moglie Marceline e altri 8 adottati nel corso degli anni: Indiani Ameri-cani, Asiatici, Neri, caucasici ecc. Jones la chiamava la “Rain-bow Family”, la Famiglia Arcobaleno.
Come il People’s Temple, la Famiglia Arcobaleno era il prolungamento fantasmatico dell’Io e del corpo del Capo. Il gruppo esisteva in quanto Io-folla di Jones, il contenuto cui il corpo del Reverendo serviva da pelle psichica e sociale insieme: Body Natural e Body Politic in una perfetta e mortifera incarnazione dei «due corpi del Re » (Kantorowicz). La Famiglia Arcobaleno conteneva in sé tutti i colori possibili della realtà, tutte le ‘etnie’ umane: una Famiglia-Mondo, steno-gramma dell’umanità. Tramite la sua Rainbow Family, Jones perdeva il confine e i confini, diventata illimitato uomo-specie, incarnazione dell’universale, figura corporea di ogni possibile vivente, il luogo geometrico corporeo dell’onnipotenza divina: essere il padre di ogni vivente possibile, essere tutti, il tutto.
Questa concreta costruzione delirante implicava la tragedia finale, il cianuro distribuito in fila nella giungla. […]
______________
Intorno a de Martino. Mal franzese per de Martino postumo
A quanto pare, sarebbe in arrivo la traduzione france-se della grande opera postuma di Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, uscito a Torino nel 1977 da Einaudi (nuova edizione a cura di Clara Gallini nel 2002).
Lo annuncia un seminario che si è svolto nel 2014-2015 a Parigi, nell’ambito dell’École des Hautes Études di Bd. Raspail, quella EHESS che dovrebbe anche pubblicare il testo. Organizzatori del seminario: Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio (non c’è bisogno di presentarli). Titolo: «Traduire de Martino: l’atelier conceptuel de l’anthropologie italienne». Bel titolo, più vicino alla nostalgia e alla speranza della self fulfilling prophecy che non alla realtà. Francamente nell’antro-pologia italiana di de Martino rimane ben poca traccia. Non tanto concettuale […]
Hugh TREVOR-ROPER, The Invention of Scotland. Myth and History, New Haven, Yale University Press, 2008
Da un lato le poche nazioni per bene: non hanno miti e non ne hanno bisogno per essere nazione. Dall’altro le molte nazioni ‘voyou’: esigono miti per esistere e sono condannate a produrli senza fine. L’Inghilterra anglosassone, il meno mitopoietico dei popoli. I Celti e la Scozia, con la loro infinita produzione di miti, alla quale i poveri anglosassoni si devono aggrappare quando hanno bisogno di mito. L’Inghilterra, condannata allo spirito critico, alla realtà, alla luce, alla verità e al pragmatismo. La Scozia, vincolata all’immaginario, alla fantasia, alle nebbie, alla falsificazione, all’illusione e alla narrazione. La prima diventa l’identità che è. La seconda inventa l’identità che altrimenti non ha, e diventa questa invenzione.
Hugh Trevor-Roper organizza intorno a questa trama cognitiva la sua invenzione di come la Scozia ha inventato se stessa. […..]
___________
Giuliana PAROTTO, Sacra officina. La simbolica religiosa di Silvio Berlusconi, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 107, 15€
Il problema è sopravvivere all’incipit: « L’ascesa politica di Silvio Berlusconi non è certo passata inosservata e ha sollevato numerosi interrogativi e questioni ». Ohibò… Se si riesce ad andare oltre una così desolante piattezza, quello che viene dopo è uno dei pochissimi libri interessanti e utili sul berlusconismo usciti in Italia. Mi dispiace di essermi accorto della sua esistenza per caso, 6 anni dopo la sua pubblicazione nel 2007.
Il libro si divide in due parti. Nella prima, Giuliana Parotto insegue la presenza di simboli religiosi espliciti e impliciti nella comunicazione e nella autorappresentazione di Berlusconi. Anticipo che si tratta della parte concettualmente più debole del volume, anche se qua e là incuriosisce, diverte e preoccupa. La seconda parte invece – sul corpo di S.B. – è di gran lunga più compatta e stimolante. Si dissente spesso, ma ci si sente trasportati in un territorio che vale la pena attraversare, magari litigando sulla mappa.
Il punto di partenza è il ruolo dell’immaginario. L’« elemento nuovo » del berlusconismo starebbe « nella dimensione simbolica e dell’immaginario che viene decisamente messa in gioco », non come banale precipitato della comunicazione mediatica soprattutto televisiva, ma come consapevole strategia politica: « L’emergere dell’immaginario darebbe luogo ad una nuova forma di legittimazione politica, andando a costituire la risposta alla crisi della rappresentanza » [p. 10]. L’immaginario apre necessariamente sul simbolo, e a sua volta l’attenzione ai simboli mette in evidenza quel sottoinsieme simbolico particolare che sono i simboli religiosi. In questo modo la trama ‘religiosa’ del discorso politico berlusconiano diventa visibile. […..]
___________
Luca MASTRANTONIO, Intellettuali del piffero. Come rompere l’incantesimo dei professionisti dell’impegno, Venezia, Marsilio, 2013, 270 pp., 18€
Una delle occupazioni preferite dei chierici è scrivere pamphlet sul tradimento dei chierici. Luca Mastrantonio ha pensato bene di non fare eccezione. Ma per lo meno ha saputo trovare un equilibrio tra il divertente e l’agghiacciante.
Un conto è il contatto quotidiano, casuale e frammentario, con quanto giorni dopo giorno i nostri chierici vanno dichiarando, scrivendo, proclamando, insinuando, interpretando, canticchiando e zufolando. Altro conto è trovarsi un po’ di tutto questo raccolto insieme, da una pagina all’altra, senza respiro, in una sorta di cacofonia o cantilena che non dà tregua.
Si soffoca. Si cerca di ritradurre tutto in pettegolezzo colto, ma non ci si riesce. Quello che emerge è un ethos trasversale privo di etica, un uso perverso e improprio del saper dire, una ipertrofia incongrua di Ego spesso microscopici.
I prodi chierici si sentono singolarità forti, torri eburnee del pensiero che svettano sulla piana malarica abitata dai poveri cristi. Nel libro di Mastrantonio sono solo un blob che tutto inghiotte e trasforma in parole per poter su tutto parlare, e sentirsi così padroni verbali di una realtà sulla quale non hanno presa alcuna. Insisto: non un ceto, e non una casta, e neanche una corporazione, tutte entità sociologiche che presuppongono qualche struttura. No, solo una Cosa onnivora e informe, dunque pronta ad assumere ogni forma transitoriamente utile alla propria autoalimentazione e sopravvivenza sociale. Liquidi, come ci dice del mondo intero un loro degno rappresentante non italico, l’unico vero Idraulico Polacco […..]
Sequential waves of stickers bearing a Jim Jones’s photo have been flooding many squares and streets in downtown Rome.
Reverend Jim Jones was the founder, and the terminal angel of death, of the People’s Temple, a Californian sect-church which committed suicide with a cyanide-laced soft drink on November 18, 1978. The ritual of self-destruction took place in a rural community the Temple had created in the heart of the jungle of Guyana, and had aptly named Jonestown: 908 dead, including at least 200 children, plus a few others slain and suicidal at the church site in Georgetown.
A ondate successive, sono apparsi nelle piazze e strade romane gli sticker con una foto classica di Jim Jones.
Il Reverendo Jim Jones era stato il fondatore, e poi l’angelo della morte, del People’s Temple, un setta-chiesa californiana suicidatasi con il cianuro il 18 novembre 1978 a Jonestown, la comune creata nel cuore della giungla della Guyana: 908 morti, di cui almeno 200 bambini, più qualche altro sgozzato e suicida nella sede del Tempio a Georgetown.
Ian KERSHAW, The End: Hitler’s Germany 1944-45, London, Allen Lane, 2011, 596 pp.
Il 1 maggio 1945, le truppe russe raggiungono Demmin, una cittadina di 15mila abitanti nell’ovest della Pomerania. Seguono i consueti saccheggi, gli incendi delle case, il “Frau komm” degli stupri di massa. Niente di più e niente di meno di quanto stava accadendo su tutto il fronte Est della guerra.
Ma a Demmin nei tre giorni successivi oltre 900 abitanti si suicidano, talvolta dopo aver ucciso i familiari. Un uomo uccide la moglie e i tre figli, lancia un panzerfaust contro i sovietici e si impicca. Una famiglia di 13 persone si uccide. Seguita da un ragazzino in bicicletta, una madre spinge una carrozzina con due bambini verso una quercia al confine del borgo, avvelena i tre figli e tenta di impiccarsi a un ramo dell’albero. Altri si annegano nei due fiumi locali, oppure si sparano, si buttano dai tetti.
50 anni prima, in quello straordinario classico della sociologia nascente che è Le suicide (1897), Durkheim aveva affrontato brevemente i suicidi collettivi, citando tra gli altri il caso di Masada raccontato da Giuseppe Flavio nelle Guerre giudaiche. Li aveva classificati come una variante estrema del suicidio altruistico, la terza e la meno approfondita modalità sociologica del suicidio dopo quello anomico e quello egoista. Nel suicidio altruistico non agisce l’ipertrofia dell’io rispetto al vincolo sociale indebolito, ma piuttosto la sua irrilevanza: l’eroe in guerra va a morte certa perché il suo io ridotto alla quasi inesistenza è trasparente al volere del gruppo, e si sottomette ai suoi imperativi anche a costo di morire. Il suicidio collettivo – che Durkheim chiama anche suicidio obsidionale – porta all’estremo questa logica di dissolvimento dell’individuo nel legame sociale, attraverso quello che Freud avrebbe chiamato “sentimento oceanico” in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921): sentirsi goccia dispersa nell’oceano sociale.
Siamo di fronte a situazioni microsociali: 900 morti di Demming, i 3-4mila giapponesi di Saipan quando sbarcano i Marines, i quasi mille morti del People’s Temple di Jim Jones nel novembre 1978. Ma che dire quando un’intera nazione sembra pronta all’autodistruzione?
Questo è il problema di fondo posto da Ian Kershaw nel suo ultimo, bellissimo,
5 febbraio 2009. Paranoia ipocondriaca e potere politico. Obama, il vaccino e l’autismo
5 aprile 2009. Il corpo di Obama (1). Il fallo del leader carismatico e Michelle incinta
10 aprile 2009. Paranoia, nemico e riti di fertilità. Michelle Obama e l’orto di guerra della Casa Bianca
21 maggio 2009. La pelle del Sovrano e la pelle del Nemico. Obama, le Hawaii e le foto censurate di Abu Ghraib
23 maggio 2009. La pelle del Sovrano e la pelle del Nemico (2). Dorso a dorso per Obama
4 luglio 2009. Obama signore delle mosche, ovvero Belzebu alla Casa Bianca
.21 marzo 2010. Obama e l’hamburger. Ovvero i dilemmi alimentari del corpo populista.
La fine di un carisma è sempre anche la fine di un corpo. Liberarsi da Berlusconi significa anche liberarsi dal suo corpo. Il capo carismatico costruisce un vincolo di carne con i suoi seguaci, si offre come significante corporeo del vincolo politico e sociale che fonda. In attesa delle dimissioni, uno striscione a Montecitorio recitava “Piazzale Loreto”. Ed ogni leader carismatico esige per la sua fine una “piazzale Loreto” simbolica come ultimo appuntamento con il carisma, come rituale di disincarnazione del noi dal corpo del carisma, cerimonia di degradazione che vuole essere liberazione da un fascino che ha incantato e incatenato.
Gabriel García Márquez ha scritto, con L’autunno del patriarca, una delle più potenti rappresentazioni narrative delle logiche, delle grandezze e delle molte miserie del potere carismatico, apparentemente in salsa sudamericana. Poi un giorno il dittatore muore, e c’è la chiusa bellissima del libro: “… perché noi sapevamo chi eravamo mentre lui restò senza saperlo per sempre col dolce sibilo della sua ernia di morto vecchio, troncato di netto dalla stangata della morte,