20 Apr Jim Jones, suicidio collettivo, oicofobia, antropofobia, Finkielkraut, Ernesto De Martino, e Adriano Favole
Jim Jones è stato il fondatore, il capo carismatico e il pifferaio paranoico del People’s Temple, la comunità religiosa californiana che si è suicidata in massa – 1012 morti – nella giungla della Guyana il 18 novembre 1978. La famiglia del Reverendo era atipica. 1 figlio dalla moglie Marceline e altri 8 adottati nel corso degli anni: Indiani Americani, Asiatici, Neri, caucasici ecc. Jones la chiamava la “Rainbow Family”, la Famiglia Arcobaleno.
Come il People’s Temple, la Famiglia Arcobaleno era il prolungamento fantasmatico dell’Io e del corpo del Capo. Il gruppo esisteva in quanto Io-folla di Jones, il contenuto cui il corpo del Reverendo serviva da pelle psichica e sociale insieme: Body Natural e Body Politic in una perfetta e mortifera incarnazione dei «due corpi del Re» (Kantorowicz). La Famiglia Arcobaleno conteneva in sé tutti i colori possibili della realtà, tutte le ‘etnie’ umane: una Famiglia-Mondo, stenogramma dell’umanità. Tramite la sua Rainbow Family, Jones perdeva il confine e i confini, diventata illimitato uomo-specie, incarnazione dell’universale, figura corporea di ogni possibile vivente, il luogo geometrico corporeo dell’onnipotenza divina: essere il padre di ogni vivente possibile, essere tutti, il tutto.
Questa concreta costruzione delirante implicava la tragedia finale, il cianuro distribuito in fila nella giungla. Tramite il gruppo e tramite la mia famiglia Io sono tutto. Ma quando l’Io/corpo si avvia alla sua inevitabile morte, anche il mondo – la setta, la Famiglia Arcobaleno – non può che morire simbioticamente. La mia fine è alla lettera la dissipatio humani generis mistica, la fine del sociale come forma della fine del mondo.
Di tutto questo – l’evento e la sua logica – mi sono occupato molti anni fa. Me lo ha riportato alla mente Adriano Favole su La Lettura (Corriere della sera) di domenica scorsa. Se la prende pacatamente con la «oicofobia» (che brutta musica ha questa parola) delineata da Finkielkraut come male oscuro delle nostre società, la equipara alla «antropofobia», cioè «la paura, lo sgomento e la difficoltà a riconoscere e valorizzare la diversità culturale prodotta dall’umanità … Gli antropofobici detestano in genere la complessità dell’essere umano e cercano comode scorciatoie».
Sarà. A me pare che ci siano due grandi modalità diverse di vivere la complessità del mondo. La prima è orizzontale: accumulare le esperienze, fare di se stessi una silloge di frammenti di diversità umana, storica, valoriale, culturale, corporea. Inghiottire quanto più si può del mondo per introiettarlo e incorporarlo in sé. Farsi concreta sintesi, forse amorevole, forse rispettosa e attenta, della varietà delle forme viventi, delle produzioni culturali e artistiche, dei mille modi di esistere, pensare e amare. Vedere, attraversare, odorare, leggere, ascoltare, mangiare, toccare tutto, come può farlo un turista capace di un programma tragico.
L’altra modalità è quella che ho appreso come programma altrettanto estremo nella mia formazione psicoanalitica. Una modalità verticale. Sprofondare in se stessi, ritrovare non tutte, ma una grande varietà di configurazioni possibili del vivere, nessuna esclusa, attraverso quell’universale particolare che ciascuno di noi è se sa cercarsi tale.
Due modi diversi per poter dire che nulla di umano mi è estraneo.
Preferisco il secondo.
Nel turista tragico – forse antropofilo alla Favole – c’è il desiderio onnipotente di potersi sentire – con una locuzione abusata eppure potente – cittadini del mondo, contenitori accoglienti dell’infinito in una sorta di dispersione fluida dell’Io nell’Altro, del proprio punto di vista in una moltiplicazione beffarda di punti di vista. L’Aleph di Borges.
Chi cade verticalmente dentro se stesso almeno conserva una cosa, se stesso. Accetta una fatalità cognitiva: si può guardare efficacemente e amorevolmente il mondo solo se si assume uno specifico punto di vista dal quale guardarlo. Quando si accetta questo limite, quando si riconosce umilmente – una umiltà epistemologica – che si è condannati dalla stessa attività classificatoria della mente alla unilateralità, alla parzialità, allo stereotipo, allora da questo punto cieco ma insostituibile che è l’Io si possono tentare esplorazioni prudenti e provvisorie di altri mondi storici e sociali, di altre forme di vita. La forza dell’Io gli consente le debolezze misurate del regard éloigné, le imprudenze feconde di qualche perdita del centro e di qualche sfasatura della propria prospettiva, addirittura in pochi casi il capovolgimento temporaneo di questa prospettiva, perché come sanno l’antropologo e lo psicoanalista occorre avere la sensazione, la certezza, che prima o poi si tornerà da dove ci si è allontanati (la nostalgia, il dolore del ritorno, è la serva muta dell’antropologia e del viaggio nella psicosi).
Favole attribuisce a Finkielkraut una visione pietrosa e ontologica della identità, e la assume a comodo bersaglio negativo. Operazione di cui Favole è la prima vittima. Diversamente da Remotti (che cita en passant), non fa i conti con la differenza tra le Même e l’Identique, tra l’identità diadica dello A=A e quella triadica e dialettica del «diventa ciò che sei», il sottotitolo dell’Ecce homo di Nietzsche. L’oicofobia appartiene alle identità pietrose, quelle del «io sono come sono», la “freccia ferma” eleatica di tante vite, l’egemonia dell’essere sull’esistere. L’antropofilia come la prospetta Favole è la Rainbow Family, uno pseudocapovolgimento adolescenziale di quella visione dell’identità, la rinuncia onnipotente e fragile al limite e al confine che costituiscono ogni identità.
De Martino, il più sofferto, viene da dire l’unico sofferto dei nostri antropologi, quello che ha saputo avvicinarsi maggiormente all’esperienza della catastrofe. Il suo etnocentrismo critico, la consapevolezza forte che non si può non essere etnocentrici fino nel più profondo di noi, nelle categorie sociali a priori della conoscenza e del corpo. La consapevolezza collegata che solo da questo confine accettato nella sua pienezza di un quasi-destino può venire la possibilità di avventurarsi negli spazi dello straniero e dell’estraneo. Il dolore anomico delle società e dei Sé individuali esiste, è la folle du logis (ma il correttore automatico, carico di saggezza, aveva scritto folle du logos…), il carico impazzito nella stiva. Non riconoscerlo significa non poterlo accogliere, non ascoltarlo, non parlarci, respingerlo verso franamenti psicotici individuali e collettivi. Non riconoscerlo significa opporgli le parole della condanna (antropofobia) o del santino (antropofilia). Riconoscerlo nella sua pienezza, dignità di esperienza e verità sociologica permette di proporgli – forse – una catarsi liberatoria, un accesso a simbolizzazioni più mature, l’intuizione incerta che sono possibili identità meno pietrose di quelle sulle quali la sofferenza sociale e il panico anomico cercano di ritrovare basi incrollabili per il mondo. (enrico pozzi)