Un film gradevolmente falso sulla fotografa Nan Goldin

Un film gradevolmente falso. ALL THE BEAUTY AND THE BLOODSHED di Laura Poitras. Leone d’oro a Venezia.

Su Nan Goldin.

Le solite mitografie su un’artista (mezza) maledetta. Sesso ad ampio spettro (sì, spettro fatto di spettri), droga, povertà (tempo fa), una community di altri maledetti (veri, e prevalentemente morti – overdose e AIDS). Famiglia perbenista di merda. Sorella suicida. Relazioni distruttive (e distruggenti). La lotta vittoriosa ed eroica contro il Male (l’OxyContin, gli oppioidi, la famiglia Sackler) e per liberare l’Arte dal Male (fuori i Sackler dai musei del Mondo).

Ben costruito. Apertura e chiusura strappalacrime al punto giusto. Il Nemico (in varie incarnazioni) sempre presente. Sentirsi vittime vincenti.

Solo che il film non dice le cose essenziali. La crisi degli oppioidi sembra derivare solo dalla cattiveria avida di pochi (e la società USA dove sta? e le ragioni e i suoi folli modi di gestire l’ipocondria di massa?). L’atroce livello di distruttività e sofferenza nelle community che Nan Goldin ha attraversato (fuggendone via con lungimirante astuzia). Il fatto che il crollo della Purdue Pharma (produttrice dell’OxyContin) non è certo stato indotto dall’attivismo di una artista.

E soprattutto il come e perché della sua fotografia, del suo successo internazionale come fotografa (il successo è sempre tra le righe, mai evidente: it doesn’t fit the story line). La fotografia rimane un’appendice, la ricaduta estetica di una esistenza ‘estrema’, e non una disciplina e metodo e modo dello sguardo, e attenzione al mercato.

Di Nan Goldin si capisce molto di più occupandosi di altri che sono menzionati en passant: Peter Hujar, David Wojnarowicz, Cathy, i militi ignoti del Lower East Side, dello East Village e dei piers all’inizio dell’AIDS. E interessandosi di quelli, molti,  che il film avrebbe potuto menzionare e non lo fa. A partire dai fotografi del sesso gay negli spazi e capannoni abbandonati della East River e del West Side Pier: Alvin Baltrop, Leonard Fink e gli altri anonimi.

Me ne sono occupato su IL CORPO a varie riprese (https://www.ilcorpo.com/diario-paranoico-critico/rimbaud-flaneur-a-new-york-via-wojnarowicz/; https://www.ilcorpo.com/diario-paranoico-critico/manhattan-transfer-finalmente-una-mostra-del-fotografo-peter-hujar/). Ci torno nel prossimo numero, il 6/23.

Intanto per avvicinare sul serio anche la Goldin meglio la stupenda biografia di Cynthia Carr, Fire in the Belly: The Life and Times of David Wojnarowicz. Ancora si trova.

E di questo film così leggiadramente prevedibile, da salvare rari filmati recuperati dalla Poitras, di quando New York puzzava veramente.

 

la prima pagina di Google sintetizza bene le stucchevolezze

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