Il principe Myškin, l’epilessia e l’algoritmo

 Nuovo Cinema Palazzo, San Lorenzo, Roma.

Sala buia. Un grande schermo. Davanti, su quello che sembra un supporto, la silhouette di un corpo di donna.  Sul ‘palcoscenico’, in accappatoio, il corpo di cui quel corpo è la silhouette. Francesca Fini si toglie l’accappatoio e, nuda, va a collocarsi dietro la sua silhouette. Una assistente adatta leggermente – è un gesto fondamentale – i contorni del tratteggio per farlo coincidere più o meno con il corpo retrostante. Il corpo ‘vero’ è cadaverico, compreso nel suo marmoreo rigor mortis. I segni della individualità sono quasi cancellati: il volto coperto di cerone bianco, i capelli tirati indietro a scomparsa e anch’essi bianchi, una mortuaria maschera di cera.  Solo i peli del pube sono neri, ma il pube è della silhouette o di Francesca Fini? 

BODY QUAKE

Inizia Body Quake. Il tracciato digitalizzato di alcuni encefalogrammi di crisi epilettiche passa attraverso un algoritmo. Il suo discorso digitale viene interpretato e trasformato in un continuum di configurazioni astratte, di suoni e di luci&forme colorate. Il loro punto di convergenza, polo centripeto e centrifugo insieme, ma anche in senso stretto luogo geometrico, è il corpo cadaverico, investito da e vestito di questa narrazione polimorfa senza io narrante. O meglio, dove l’io narrante è l’io composito di una categoria nosografica, il soggetto ‘epilessia’ senza l’individuo epilettico.

 Così per circa 20-30’, non saprei… Il tracciato termina, l’onda sonora/logico-geometrica/visuale si spegne, il corpo si stacca dalla sua silhouette, Francesca Fini torna nel suo accappatoio a dargli e darsi forma, va a restituirsi individuo e volto e capelli togliendosi la biacca. Body Quake è finito.

Complesso il concept, bella la performance, intensa la sua capacità di coinvolgimento e la sua fertilità problematica, affascinante il progetto da cui nasce, HER1. Ne abbiamo parlato a lungo dopo con Cristina Cenci, e per questo abbiamo perso due autobus: sacrificio votivo non banale, la sera tardi a Roma.

Andiamo per punti.

La performance è costruita su un paradosso, meglio: un ossimoro. L’epilessia si esprime come un moto incontrollato del corpo. In Body Quake, il corpo è perinde ac cadaver, come prescriveva Ignazio di Loyola: ascetico, mono-tono (il bianco, salvo il pube), astratto, privato proprio di movimento. Il corpo non si muove: rimane fermo mentre si agita in modo parossistico sulla sua superficie qualcosa che dovrebbe scuotere dal dentro ma in realtà sta fuori, sul suo confine invalicabile, la pelle. I suoni, le configurazioni astratte, le forme così definite eppure informi, le luci, lo avvolgono, lo vestono, ma non lo penetrano. L’epilessia non si impossessa di quel corpo ‘generico’, viene indossata, e come ogni vestito si definisce protesi e non pelle, superfetazione sostituibile e transitoria, accessorio e maschera.

In teoria il tracciato gestito dall’algoritmo viene da dentro. Un elettroencefalogramma, la registrazione meccanica di quello che il cervello – il luogo dell’epilessia – sta producendo, il calco grafico delle sue ondate interne. Il ‘dato’ che fuoriesce dalla testa e retroverte dall’esterno verso il corpo come insieme sovraccarico di stimoli sensoriali multiformi. L’iperestesia appariscente dell’interno diventato esterno si abbatte sul corpo anestetizzato e si affanna a produrre intorno e sulla sua superficie un discorso. Invito alla mimesi che il corpo cadaverizzato non raccoglie e respinge al mittente: in questo caso non il suo cervello ma la macchina che è posseduta dal e possiede il ‘dato’. E dietro la macchina, il vero destinatario: il pubblico posseduto dall’elettroencefalogramma epilettico in una sorta di “epilepsie à plusieurs”. Qui culmina l’operazione ‘estetica’ di Body Quake 

 

Paradise Now

 

Mi ricorda Paradise now del Living Theater, l’ultima sua grande cosa in giro per l’Europa prima della dispersione definitiva di quell’esperienza teatrale eccezionale. Sulla scena – in questo caso volutamente un palcoscenico separato dal pubblico – un corpo disteso e nudo, anch’esso perinde ac cadaver. Intorno, senza fine, i corpi degli altri, nudi, a bombardarlo di stimoli di ogni genere, carezze, toccamenti, canti, urla, danze, colpi, strappi, strusciamenti, eccitazioni sessuali.  Dovevano riempirlo di se stessi per risvegliarlo al desiderio, alla Rivoluzione, alla fame di Paradiso qui e ora. Un «cadavre exquis» al tempo stesso corpo sociale, politico, individuale, e quel corpo-pubblico spettatore amorfo di là dal palcoscenico. Investito dal mantra di tutto quel rito teatrale interminabile: «I have seen the Bird of Paradise, she has spread herself before me, and I shall never be the same again», ripreso dal R. D. Laing più visionario, in The Politics of Experience, prima dello sprofondamento narcisistico nell’alcol.

Riempire un corpo con dei suoi contenuti estraneati, operare una restituzione d’anima. Anni fa, ai confini con l’Alaska, siamo capitati per caso in un villaggio nativo – Kitimaat, tribù Haisla – dove abbiamo visto un rito legato ad un processo di restituzione e ripristino. Un Museo svedese aveva ridato a quel villaggio un totem acquisito agli inizi del 900. Il villaggio gli stava rimandando in cambio una copia appena completata. Ma il totem era ancora solo un tronco di cedro rosso scolpito. Doveva ricevere identità e senso, un’anima. Di qui un rituale in tutto e per tutto simile a quello del Living, e a Body Quake. I carver e il maestro carver che ballavano intorno al ‘tronco’ giacente per ore, col suono dei tamburi e di altri strumenti, cantavano e urlavano, insultavano la cosa morta, la carezzavano, le soffiavano addosso fumo, fiocchi di cotone alaskano selvatico e sabbia, la insufflavano di aria – il pneuma –  prima di ergerlo sui suoi 12 metri, per poi in piena notte portarlo sulla canoa che alle 3 del mattino si infilò nella nebbia verso la nave che lo aspettava, seguita dalle canoe di tutto il villaggio. Ora quel tronco non più cadavere ma restituito al sacro era diventato un equivalente simbolico del totem ricevuto.

 

Il flatus digitale del cervello

 

Qui cominciano i problemi. Al corpo cadaverico e senza identità della performer viene rimandato un flatus digitale, un elettroencefalogramma. Dopo la performance Iaconesi ha detto che si trattava del tracciato di un’unica crisi. La lunghezza della performance mi porta ad escluderlo. Questo tracciato era in realtà un agglomerato di tracciati, un composito. Costruito con quale metodologia statistica o inferenziale, non sappiamo. Forse nessuna? Quanto sia effettivamente ‘tipico’, cioè rappresentativo di una classe di eventi, non possiamo dirlo. Certamente non era un individuo, la forma digitalizzabile della crisi epilettica di una persona specifica, ma condensava una categoria, era – voleva, sperava di essere – il tracciato dell’epilessia in quanto tale.

Diversi anni fa mi sono occupato di ritratti compositi e dei loro paradossi epistemologici. Verso la fine dell’800, in molte forme diverse il pensiero occidentale incontra il problema di ciò che Aristotele aveva dichiarato impossibile: la conoscenza dell’individuale. Psichiatria, medicina, psicologia, sociologia, criminologia, storia, epistemologia, il Methodenstreit, si trovano di fronte l’evento, e la sua forma princeps: l’individuo. Devono dirlo, descriverlo, conoscerlo scientificamente, inserirlo in una griglia di categorie, ma preservandolo come evento e individuo. Nella psicoanalisi nascente, questa tensione si esaspera: come dire in forma scientifica condivisibile lo sprofondamento nell’individuale che esigono l’ipotesi e la pratica clinica dell’inconscio? Che cos’è epistemologicamente il “caso clinico”?  Intorno al 1880 aveva tentato una risposta un vittoriano geniale, Sir Francis Galton, forse l’ultimo dei grandi scienziati-gentiluomini poliedrici: antropologo, meteorologo, esploratore, matematico, scienziato sociale, scopritore dell’impronta digitale, fotografo. Galton si chiede: posso fotografare una categoria cognitiva? Posso trasformare in immagine una classe di oggetti? Nella vita concreta io incontro singoli ebrei, prostitute, criminali ecc. Come posso vedere e far vedere, cioè rendere condivisibile con terzi, l’Ebreo, la Prostituta, il Criminale, ovvero un tipo e non un individuo?

Da questa domanda emerge il «ritratto composito»: prendo decine di ebrei o di criminali, li fotografo nello stesso setting e nella stessa identica posa del volto, sovrappongo le lastre fotografico e ottengo il ritratto di un ‘tipo’. Faccio quello che Aristotele aveva condannato all’infamia logica: conosco un individuo simultaneamente in quanto individuo e tipo, in quanto evento e classe logica di un evento.

 

F. Galton, l’Ebreo – ritratto composito

 

F. Galton, Il Criminale – ritratto composito

 

L’esperienza del guardare uno di questi ritratti compositi è sconcertante. Galton la accenna in vari luoghi. Io posso dire la mia, come l’ho scritta quando li ho incontrati per la prima volta:

 

Perché i compositi attraggono in modo così intenso chi li guarda? Perché sono percepiti spesso come belli? Stranamente, chi li osserva cerca subito di individuare un singolo ritratto dominante che darebbe la sua impronta forte al composito. Altrettanto stranamente, persone diverse individuano ritratti dominanti diversi. Perché questo bisogno, e perché questi errori? D’altra parte, appena si coglie un individuo che sembra prevalente, subito ci si trova a vederlo come sembiante di un gruppo. Messo di fronte al composito dei ragazzi ebrei, sono colpito dalla intensità di questo volto che non appartiene a nessun individuo specifico, subito cerco un individuo – una singola foto di ragazzo ebreo – che per così dire renda conto dell’individuo che vedo in quel composito. Ma appena credo di averlo trovato, non sono appagato, e torno a cercare il concetto visivo – il tipo – di ragazzo ebreo che, come un individuo pieno – si annida in quell’individuo che un attimo prima credevo con grande piacere intimo di aver individuato. Appena trovo un individuo, desidero il tipo; appena intuisco visivamente il tipo, mi precipito a inseguire un ipotetico Ur-individuo fondatore dell’identità del tipo. L’esperienza percettiva del ritratto composito sta tutta in questo loop senza fine tra individuo e tipo, tutti e due desiderati e inafferrabili, che si richiamano euristicamente l’un l’altro, costringendo l’osservatore ad un va-e-vieni continuo tra i due poli logici del composito. […]

Il ritratto composito – o « immagine generica », come Th. Huxley aveva suggerito a Galton di chiamarlo – si presenta come una mise en abîme euristica: l’individuo e il tipo coineriscono l’uno all’altro, non si può vedere l’uno senza vedere l’altro, quando si cerca l’uno si trova l’altro, e mai l’occhio/mente riesce a fermarsi e appagarsi in una percezione conclusa2

 

Stesso va-e-vieni dello mio sguardo-orecchio davanti al Body Quake3. L’insieme delle forme sonore e visuali emanate dall’algoritmo sta al corpo cadaverico come il ritratto composito sta agli individui che lo compongono. In-veste di Epilessia il corpo individuale dell’epilettica. Per farlo, deve ridurlo a corpo statisticamente mediano, corpo-categoria depurato del ‘rumore’ comunicativo della individualità. Per questo il cadavere, l’immobilità. Ma non è così semplice. La mente e il corpo dello spettatore vanno e vengono continuamente dal frame digitale della categoria Epilessia al corpo carnale che non possono non cercare nella categoria. Forme e suoni trascinano verso l’astrazione “crisi epilettica tipica” un corpo che in modo ostinato si aggrappa ad essere il corpo dell’individuo Francesca Fini, spesso di storia individuale, di tempo ed età, di tracce fisiche, di pelle mappata, di volume e peso; un corpo-evento che racconta se stesso come soggetto, e non il suo tipo. Un corpo di donna che contrappone all’algidità algoritmica delle figure geometriche una irriducibile potenza erotica. Una pelle-contenitore che mantiene la sua forma contro la disgregazione convulsiva tentata dalle luci, colori e suoni. Un pube vero o disegnato che resiste con il suo nero al bianco-non colore del non-desiderio e del non-piacere.

Sto assistendo ad una lotta al tempo stesso epistemologica e carnale. La categoria e l’individuo, il nomotetico e l’ideografico, si combattono. La messa in scena ‘estetica’ tramite anestesia contende a quel corpo il diritto ad essere il corpo di un individuo. Vuole ridurlo a «immagine generica», al «fantasma di una traccia delle peculiarità individuali4». Ma il corpo resiste, oppone a questa tentata egemonia della categoria nosografica Epilessia un negoziato continuo sui confini del frame che cerca di ingabbiarlo e ridurlo perinde ac cadaver. Non posso distogliere lo sguardo da una pantomima: lungo tutto l’arco della crisi epilettica, il corpo di Francesca Fini eccede  – di poco, a fatica, ma eccede – qua e là la silhouette alla quale era stato ‘adattato’ nel rituale sartoriale di apertura. Non ci sta a farsi astrazione, gli si erge contro come «nuda vita», dove ‘nuda’ non è qualificativo povero di ‘vita’ ma “vita nuda” carica della potenza carnale di quel corpo.

Per tutta la durata del Body Quake ho cercato il tempo. La duréeera lunga. Stavo per scrivere: intollerabilmente lunga. Sarebbe stato aderire allo stereotipo dell’epilessia, un parossismo breve. Invece devo scrivere: noiosamente lunga. Mancava il tempo: l’inizio, poi il climax, – la fase poi la progressiva detetanizzazione del corpo, in questo caso del suo vestito epilettico. L’aura, la fase tonica, la fase clonica… speravo che arrivassero i loro segni riconoscibili. Nelle esplosioni dei suoni e/o dei colori e/o delle forme geometriche cercavo un acme riconoscibile, credevo di trovarlo e poi a quell’acme ne seguiva un altro, senza speranza, senza un cenno di detumescenza, e poi un altro ancora, flash dopo flash dopo flash. In forme e modi sempre oggettivamente diversi – nessuna sequenza ripeteva altre sequenze -, vedevo il ritorno dell’identico, la negazione della storicità della crisi. Mi sono detto dopo: Body Quake è la rappresentazione non della crisi, ma dello stato epilettico, la modalità interminabile della crisi: una scelta scientifico-medica… Consolante. Ora penso che Body Quake ha messo in scena altro: il tempo vissuto (la durée, non il tempo cronologico) della crisi dal punto di vista immobilizzato di chi assiste impotente, e i minuti oggettivamente brevi sembrano senza fine. Oppure, chissà, il vissuto interno, quello del soggetto epilettico diventato oggetto della possessione epilettica e sprofondato fuori dal tempo per pochissimo tempo. Oppure ancora: Body Quake ha negato la crisi come storia perché il suo obiettivo era la rappresentazione dell’epilessia in quanto categoria, essenza atemporale di quell’incidente/evento che è l’individuo epilettico. L’epilessia sub specie aeternitatis di una logica semeiotica.

Oppure della logica dell’algoritmo. In che modo l’algoritmo può contenere in sé la propria fine, se non come deadline, limite temporale di morte, prestabilito da ciò – non da chi …. – che ha costruito quell’algoritmo? Un corpo individuale porta in sé la storia e la necessità della fine. Ma un’essenza – per esempio l’essenza logico-statistica di una malattia, dell’epilessia -, come può costruire la propria entropia?  Non vive. Sta. È. Il dato che l’algoritmo elabora non ha desiderio, aspettativa o emozione. Non lotta, non resiste, non spera, non ha progetto. Il suo movimento è falso movimento6. La frenesia parossistica che lo traduce è una illusione eleatica, «la freccia ferma» di E. Fachinelli e del Paul Valery del Cimetière marin.

Finalmente capisco meglio cosa mi è mancato in Body Quake: la lotta tra l’essenza Epilessia e quel corpo di quell’epilettico. In questa bella e potente performance, il corpo appare alla mercé della categoria e del ‘dato’. Ma il ‘dato’ è solo parte di ciò che accade. Esprime una ‘verità’ (del dato) che è una pseudo-verità per il soggetto. Qualcosa che viene dal cervello sembra impadronirsi dell’epilettico in una scala di impossessamento che va dal poco al moltissimo (le gradazioni della crisi). Per la durata (durée) della crisi sembra che l’epilettico sia solo il suo cervello. Non è così. Il suo corpo negozia, resiste, mantiene parti di sé fuori dal corpo-cervello cui il suo cervello pretende di ridurlo, scatena l’omeostasi, attiva le procedure complessive della risposta, della cura e del ripristino di se stesso come corpo totale e non corpo-organo. La crisi passa, quell’epilettico cessa di essere il ‘paziente’ dell’epilessia, il cervello torna nei limiti del soggetto.

La narrazione dell’epilettico eccede di molto il ‘dato’ dell’epilessia. Una qualsiasi raccolta di racconti di epilettici avrebbe restituito all’esperienza dell’epilessia una dinamicità interna, una dialettica vitale e una complessità euristica che il parossismo algoritmico mima mentre la elude. A volte la pelle (di Francesca Fini) non a che farsene del vestito digitalizzato. Il principe Myškin conosce verità di cui il ‘dato’ e l’algoritmo non sospettano forse neanche l’esistenza. Ma il principe Myškin è Idiota, e Body Quake è (troppo?) intelligente. (enrico pozzi)

  

NOTE

1 https://www.he-r.it/her-she-loves-data/, da un progetto di Oriana Persico e Salvatore Iaconesi. Da quanto ho capito, per Body Quake ha avuto un ruolo ideativo importante Arianna Forte, oltre naturalmente a Francesca Fini

2 Sul ritratto composito di  Francis Galton vedi E. Pozzi, «Fotografare l’inconscio: Galton e Freud», Il Corpo, IV, 1996/97, n. 6/7, pp. 67-106.  La cit. è a p. 84.  Nello stesso fascicolo della rivista, sono stati tradotti alcuni scritti di Galton sui suoi ritratti compositi.

Mio perché ero io che aggiungevo dialettica e – come scrivo dopo – lotta alla rappresentazione lineare in corso.

F. Galton, «Generic Images», Proceedings of the Royal Institution, 25 aprile 1879

5 Per chiarezza, ‘tempo’ e ‘durata’ qui rimandano a H. Bergson.

6 Non casuale riferimento a Wim Wenders e al suo Falsche Bewegung (1974)

 

 

 
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