Joan Snyder, ovvero il travaglio estetico dell’identità sessuale

Joan Snyder è una pittrice newyorchese affermata, e largamente sopravvalutata. I suoi «stroke paintings» degli inizi degli anni 70 furono considerati una innovazione potente, la rivisitazione decostruzionista della pittura astratta. A me sono sempre sembrati sì e no  ‘carini’. Recitanti, rassicuranti, adatti ai salotti di una borghesia ‘illuminata’ in cerca di qualche prudente brivido (estetico).

Il Metropolitan ha acquisito il cubo di cemento del vecchio Whitney ideato da Breuer sulla Madison Avenue e l’ha trasformato nel sua sezione di arte contemporanea. Giro per il 4° piano, la mostra Unfinished, e capito su Heart On. Non riesco a staccarmi. Tanto cerebralismo curatoriale nelle sale precedenti, e ora questa ‘cosa’ che sa di pancia, di corpo, di grumi dal profondo di una metamorfosi dolorosa in corso, ma ancora senza esito. Una griglia cartesiana, una geometria di quadrati che dovrebbe dire il trionfo della ragione astratta e misurante. Un territorio arato e ordinato da un agrimensore patriarcale attento lettore di Bachofen. Ma attraverso la griglia erompe la materia. Sa di carne spessa, di pelle, di colore denso e di caos. Rompe le linee dei quadrati. Cresce informe tra e sopra le forme. Cola secrezioni e impurità. La tagliano ferite che odorano di vagina semiaperta e di labiali incerte. Altre aperture turgide cucite a stento da una infibulazione, con il dentro che preme per far saltare l’ordito mutilante, e ancora non ci riesce. Sangue che spera di essere sangue mestruale mentre fuoriesce dal corpo-tela. Efflorescenze incerte tra la pustola, la vulva e il cuore. 

Joan Snyder ha creato Heart On nel 1975. Nel 1969 aveva sposato Larry Fink, il fotografo affermato delle celebrities e dei socialites di New York. Ne aveva avuto una figlia. Ma intanto le si era scatenato dentro un disordine profondo, una spinta omosessuale prima confusa, poi fecondamente caotica, e via via decisa, decisiva. All’inizio degli anni 80, poco dopo la nascita della figlia, la Snyder inizia una relazione con Margaret Cammer, un giudice della Corte Suprema dello Stato di New York. Nel 2011, 28 anni dopo, si sposeranno.

Heart On si colloca nel pieno di questa trasformazione. La rappresenta sincronicamente: la confusione, la presenza simultanea del nero e del luminoso, carne di donna e vagina infibulata, l’imprigionamento e lo sprigionamento, l’apertura cloacale e la fica ambigua. Ma l’opera è anche una narrazione nel tempo: dice il prima e quello che potrebbe essere, e sarà, il dopo. Racconto materico carnale di una metamorfosi in corso, dove la categoria – per es. il genere – apre verso l’ibrido, il puro verso l’impuro, l’identità verso una nuova possibile identità. Forma estetizzata del “Diventa ciò che sei” nietzscheiano, ma chi diventa non può aver certezza del “sei” che verrà, forse. Heart On mette in scena il cambiamento in corso come ossimoro, il rischio come speranza e terrore, il corpo come il luogo di quell’ossimoro e di questo rischio. 

L’opera era nella collezione permanente del Metropolitan. Non l’avevo mai notata. Almeno di questo posso ringraziare la mostra presuntuosa che ho dovuto attraversare per arrivarci davanti. (enrico pozzi) 

Joan Snyder, "Heart On", 1975

"Heart On", dettaglio

"Heart On", dettaglio

"Heart On", dettaglio

"Heart On", dettaglio

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