La paranoia come modalità euristica, il discorso paranoico come struttura delle ideologie e la folie à plusieurs come dimensione costitutiva del sociale.
Di questo si parlerà in un incontro organizzato dalla rivista IL CORPO al Castello di Rocca Sinibalda il 26-28 settembre.
Incontro ristretto e ‘ibrido’ costruito sulla contaminazione tra approcci diversi praticata da partecipanti portatori ciascuno di approcci e modelli euristici a loro volta ‘ibridi’.
Su invito.
Qualche info sui contenuti dell’incontro: https://www.ilcorpo.com/diario-paranoico/un-appunto-di-lavoro-per-alcuni-workshop-residenziali-sul-discorso-paranoico/

Per tre giorni, dal 26 al 28 settembre di quest’anno, avrà luogo un primo workshop residenziale su DISCORSO PARANOICO, IDEOLOGIA E FOLIE À PLUSIEURS. Altri due seguiranno nel 2026.
Al Castello di Rocca Sinibalda. Millenario, zoomorfo, monumento nazionale, Wunderkammer, 70km da Roma. A picco su tre valli. www.castelloroccasinibalda.it
15 partecipanti, integralmente ospiti de Castello. da tutte le humanities e le performing arts: psicoanalisti, sociologi, storici, medici, antropologi, artisti, letterati, filosofi, cultori di immagini, di segni e di forme. I partecipanti dovranno esser disposti a contagiare e lasciarsi contagiare. Il Castello è plasmato dalle Metamorfosi di Ovidio nella sua architettura e nei suoi affreschi rinascimentali, e coltiva tutto ciò che è tra.
Chi è incuriosito e interessato a partecipare può scrivere a paranoia@ilcorpo.com o paranoia@castelloroccasinibalda.it. Utile se spiega cosa la/lo interessa e magari perché.
Qui sotto un Appunto di lavoro e un elenco esteso di possibili interessi specifici.
M. BETTONI POJAGHI, L. CAPOCACCIA, A. CIOCCA, F. M. FERRO, M. RIZZO
“Un’altra volta, ancora”. Nuove riflessioni su Ellen West, Roma, 2013
Pochi ma potenti fantasmi carsici di donna scandiscono la storia della psicoanalisi e dintorni. Anna O., Emmy von M., Lucy R., Elizabeth von R., Dora, l’Aimée. Acronimi zavorrati progressivamente con nomi anagrafici e biografie: Bertha Pappenheim, Fanny Louise von Sulzer-Wart, Ilona Weiss, Ida Bauer, giù fino a Marguerite Anzieu.
Ellen West sembra avere un nome e un cognome, ma sono falsi. Li ha inventati L. Binswanger nel 1944 per produrre la sua narrazione di questa giovane tedesca, sua paziente per meno di 3 mesi a Kreuzlingen, suicida nel 1921 a 34 anni. Più di altre, Ellen West è rimasta fantasma, senza un nome vero. Solo un tessuto di narrazioni incrociate: le sue, quelle del marito, di Binswanger, degli altri che l’hanno avuta in cura, degli esegeti e ricercatori successivi – mi veniva da dire: inquirenti… Una vita palinsesto scritta da molti co-autori, ognuno dei quali ha riscritto pro domo sua le narrazioni degli altri e per gli altri, a partire dalla stessa presunta coautrice principale, Ellen West, il suo diario, le sue lettere.
Tre mesi, un suicidio, 23 anni per poter scrivere Der Fall Ellen West1, l’ur-palinsesto polifonico al quale numerose altre voci si sono poi aggiunte: scrivendo, riscrivendo, cancellando, interpolando, aggiungendo, interpolando, grattando via, falsificando, fino a produrre quel testo composito e incompiuto che è per noi allo stato attuale la narrazione di |Ellen West|.
Un’altra volta, ancora promette nel sottotitolo Nuove riflessioni su Ellen West. È vero: un’altra volta, ancora, per questa narrazione interminabile. Ed è vero anche quel «nuove», ma prodotto dalla struttura del libro più che dai singoli diseguali contributi.
Il volume affronta Ellen West nell’unico modo euristicamente fecondo. Ellen West non è un esempio di una qualche casella nosografica da identificare, ma un «fatto sociale totale»2 (Marcel Mauss), un «universale singolare » (Sartre, Pozzi)
Fernanda ALFIERI, Veronica e il diavolo. Storia di un esorcismo a Roma, Torino, Einaudi, 2021
Nel 1834 una giovane ragazza romana, Veronica Hamerani, di famiglia legata alla Chiesa, manifesta i sintomi di una possessione diabolica.
Per accidente, cercando altro, nell’Archivum Romanum Societatis Iesu, Fernanda Alfieri capita sul fascicolo Esorcisazione di Maria Antonina [in realtà Veronica] Hamerani, ritenuta ossessa (1834-1835). Il fascicolo raccoglie alcuni mesi di protocolli dell’osservazione partecipante degli esorcisti seduta dopo seduta, descrive il comportamento di Veronica, corpo, gesti, parole. Racconta le azioni di chi deve liberarla dal diavolo.
Soldati, uomini spettri e artisti sciamani, chiamati a commemorarli. Opere macerie estratte dalla collezione del MOMA e rivitalizzate da un setting interpretativo che trasforma le sale bianche del museo in un campo di battaglia. Le pareti diventano fantasmi animati di lame, volti ragni, carne ridotta a geometria di morte.
Soldier, Spectre, Shaman: The Figure and the Second World War è la mostra. Le immagini che seguono raccontano la sua impronta, le ombre dei fantasmi che mette in scena.






Salsicce fatte di carne umana
Pezzi di corpo in cerca di una nazione
Ovviamente, i comunisti mangiano i bambini
Da Treblinka all’Isola dei cannibali. Sterminio e dialettica dell’Illuminismo
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Eda KALMRE, The Human Sausage Factory. A Study of Post-War Rumour in Tartu, Amsterdam, Rodopi B.V., 2013, 180 p.
Il racconto ha l’evidenza archetipica del mito cannibalico e la struttura narrativa della leggenda metropolitana. Io non c’ero e dunque non ho visto direttamente. Ma una persona di cui mi fido totalmente mi ha riferito che…
In questo caso il narratore è un anziano signore che vive a Tartu, capitale dell’Estonia. Legge sul giornale locale, il Tartu Postimees, l’intervista ad una giovane ricercatrice. Riordinando gli archivi del Museo del Folklore Estone, Eda Kalmre ha trovato svariate tracce di una voce su una fabbrica di Tartu che produceva salsicce con carne umana. Interrogata da un giornalista, ha classificato questa voce come una tipica horror story, un racconto dell’orrore. Il lettore insorge: la storia è vera, gliela ha raccontata il padre, di cui ovviamente si fida e che ne è stato testimone diretto.
Ecco il canovaccio. Poco dopo la fine della guerra, 1947. Il padre sta al mercato di Tartu. Arriva una donna urlante e ferita. Grida che stanno ammazzando delle persone in un edificio in rovina a qualche centinaio di metri. Una dozzina di passanti, tra cui il padre del narratore, corrono verso il luogo, penetrano tra il filo spinato e le brecce nelle mura, trovano pezzi di corpi, capelli, quaderni di scuola, mucchi di vestiti. La donna – una lattaia – racconta di essere stata avvicinata al mercato da un Russo [….]
Barbara BRACCO, La Patria ferita. I corpi dei soldati italiani e la Grande Guerra, Firenze, Giunti, 2012, pp. 237, €16
Nel 1914, a 22 anni il giovane aspirante pittore Otto Dix si arruola volontario nell’esercito del Kaiser. Ferito ripetutamente, sopravvive. Negli anni successivi elaborerà la più potente rappresentazione visiva della Grande Guerra e del suo lascito corporeo: Skat, Via Praga, il Venditore di fiammiferi, le straordinarie incisioni di Der Krieg, la passeggiata sinistra dei Mutilati di guerra, il pannello destro e sinistro di Metropoli (1927-28), il volto maciullato del Veterano ferito: pezzi incompleti di corpi vagano nella trincea, nella metropoli, nel tempo e negli spazi della vita quotidiana. […]
Stefano PIVATO, I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 184
In un articolo del 1898, tradotto da Durkheim per la propria rivista, Georg Simmel si è chiesto Comment les formes sociales se maintiennent («L’Année sociologique», Première année, 1896-97, ma 1898, pp. 71-109). Prima ancora che le possibili risposte, conta la domanda. Il sociale non è ovvio. Lo si può anche vedere come una ‘cosa’ indipendente dagli individui che la costituiscono. Resta il fatto che il sociale è aggrappato ai corpi che lo compongono. Senza questi corpi nessuna società concreta esiste. I corpi hanno però la pessima abitudine di morire. Ogni individuo che muore minaccia di morte la società di cui è componente irriducibile. Di qui il problema: come fanno le società a garantirsi una qualche immortalità a partire dalla mortalità dei loro membri? Come sopravvivono al loro ricambio biologico, al passaggio delle generazioni? Come continuano?
Simmetricamente, ecco il problema della discontinuità. Come fa una società a non morire quando vive una catastrofe, ovvero un cambiamento radicale del proprio stato? Come si impadronisce della continuità sociale chi mette in atto soluzioni di continuità tra il passato, il presente e il futuro di una società? Il rivoluzionario che fa crollare un sistema politico e sociale sa bene che quel sistema aveva già costruito e sedimentato la propria sopravvivenza nella generazione successiva. Per durare, il rivoluzionario deve scardinare le modalità e i contenuti di quella sopravvivenza, e sostituirvi i propri. Deve afferrare a sé la generazione che segue la sua, la prima generazione dopo la sua e dopo il cambiamento catastrofico. Lì si gioca la partita autentica della rivoluzione.
Nella continuità come nella discontinuità, il problema è il processo di socializzazione. La costruzione sociale dell’infante come membro di una determinata società le permette di mantenere in qualche modo le proprie forme sociali con procedure e strumenti relativamente consolidati. Chi vuole spezzare quelle forme sociali deve invece disintegrare queste procedure, strumenti e contenuti per sostituirvene altri spesso estranei, privi di legittimità, inadatti a usufruire dei percorsi già consolidati. Per di più ha poco tempo: le generazioni durano poco, i cambiamenti radicali si vanificano in fretta se non riescono a organizzare la propria riproduzione sociale rapida. Quale che sia la natura della sua ‘rivoluzione’, il rivoluzionario è in corsa contro la morte della propria generazione. Se perde la corsa – così almeno lui lo vive – la rivoluzione è fallita, cioè finita.
Politiche, sociali, economiche, tecnologiche, religiose, scientifiche, erotiche: tutte le catastrofi-rivoluzioni producono in fretta – con disperazione – le strategie della loro discontinua continuità. Alla fin fine fanno tutte più o meno le stesse cose: trasformare la rivoluzione in conflitto generazionale (giovinezza giovinezza, i giovani contro i vecchi in tutte le innumerevoli varianti del gioco), occupare le strutture della socializzazione primaria e secondaria (scuole, ruoli sessuali, famiglie, i media, la comunicazione sociale, i simboli, i riti), plasmare consapevolmente l’immaginario collettivo.
Questo il livello dell’azione razionale. I fantasmi giocano una partita più radicale. La modalità più primitiva per impadronirsi totalmente di qualcosa è il divoramento. Quando inghiotto l’oggetto, esso viene introiettato, diventa me, mi compone e lo compongo in una simbiosi senza confini. La soluzione di continuità introdotta dalla ‘catastrofe’ si traduce nella più assoluta delle continuità, l’essere tutt’uno. I rivoluzionari e i loro avversari chiamano in gioco la matrice fantasmatica più primitiva, mangiare ciò che va ‘assimilato’ nel nuovo. Per questo nelle narrazioni del cambiamento catastrofico è così ossessivamente presente il “mangiare i bambini” come traduzione delirante della lotta intorno alla socializzazione e risocializzazione.
Per questo i comunisti mangiano i bambini, ovviamente.
Stefano Pivato non ha nessuna consapevolezza della posta in gioco […..]
Vasilij GROSSMAN, L’inferno di Treblinka, Milano, Adelphi, 2010 (1944), 79 pp., €6
Nicolas WERTH, L’île aux cannibales. 1933. Une déportation-abandon en Sibérie, Paris, Perrin, 2006, 245 pp.
Due diversi massacri di massa. Due diverse procedure di morte. Due diverse torsioni di una stessa dialettica dell’illuminismo.
Grossman racconta con potenza visionaria Treblinka II, il campo di sterminio attivo in Polonia tra il luglio 1942 e l’agosto 1943. Qui vennero gassate e ridotte in cenere quasi 1 milione di persone, prevalentemente ebrei polacchi, nell’ambito della cosiddetta Operazione Reinhard. Ogni giorno i treni scaricavano dai vagoni piombati circa 30mila deportati – solo 8-10mila nei ‘giorni di magra’ . Nel giro di poche ore, in genere 4, il ‘carico’ di un singolo convoglio (in media 6mila esseri umani) passava dalla vita alla cenere. All’avvicinarsi dell’Armata Rossa, Treblinka venne raso al suolo, e i nazisti cercarono di camuffare in ogni modo quanto vi era avvenuto.
Werth racconta un episodio minore: la deportazione-abbandono di migliaia di «declassati» su un’isola sabbiosa del fiume Ob, nella Siberia occidentale, con le morti di massa e le ondate di cannibalismo che caratterizzarono la vicenda. Nazino – questo il nome dell’isola – è però solo una microstoria esemplare consentita dalla sopravvivenza casuale di una dettagliata documentazione proveniente da varie fonti ufficiali e da archivi locali. Il focus vero dell’indagine di Werth è il grande progetto di «purificazione sociale» […]
G. Giorello. Il tradimento. In politica, in amore e non solo, Milano, Longanesi 2012
Si torna spesso sul luogo del delitto, spesso per completarlo o migliorarlo, o per salvarsi la faccia. È il caso di Giorello sul tradimento. Anni fa – nel 2007, per la precisione – aveva curato un Almanacco Guanda sul complotto (Il complotto. Teoria, pratica, invenzione, Parma): uno stanco volumetto senza idee (https://www.ilcorpo.com/ilcorpo/diario-paranoico-critico/paranoia-1-immaginiamo-complotti-per-colpa-della-morte-di-dio/). Ora ha pensato bene di dedicarsi al metalivello che condiziona la pensabilità, la desiderabilità e la concretizzazione del complotto, ovvero il tradimento.
Non disponendo di un tipo ideale o di una qualche modello concettuale del tradimento – tutta roba che costa fatica –, Giorello la butta in caciara.Prende i traditori sicuri – quelli letterari (molti), quelli storici (pochissimi) – e si lancia in una fenomenologia ‘colta’ del tradire. Per sua e nostra tranquillità va sull’ovvio:
La scena contemporanea approssima a noi mondi lontani. Nel renderceli vicini sollecita il movimento di afferrarli, di farne concretamente parte, di esserne tutt’uno. Rende così inquiete le appartenenze, irrequiete le genti come le idee, le cose come le immagini. Quante aspirazioni, sofferenze, ineguaglianze trasudano dai viaggi contemporanei! Quante illusioni di incontri salvifici vengono in essi riposti.
In cerca di lavoro e benessere, di emozioni ed esperienze, si spostano continuamente lungo l’asse nord sud due differenti viaggiatori dal diverso potere contrattuale e dalla complementare destinazione. Non si incontrano e, se capita, si evitano. Sono l’Emigrante e il Turista.
L’installazione etnografica li rappresenta tutt’uno con il loro immediato contesto, li fissa – a terra spiaggiati –
le belle immagini di Fabiola Ledda, incontrate nei contesti di
Cuore di preda, antologia poetica contro la violenza delle donne
lavorano su uno slittamento del quotidiano, espongono la nudità femminile a contatto con le cose comuni – convenzionali, con gli oggetti di convenzionale competenza femminile: tovaglie, letti, abiti da sposa, tavoli e pentole – in una convivenza disarticolata e aliena
manifestano subito come sia spiazzante il dolore subìto:
Un uomo entra in un bar di un piccolo paese.
La signora che gestisce il locale, insospettita da una faccia poco raccomandabile e dall’aspetto trasandato, chiede l’intervento di una pattuglia dei carabinieri. Un agente sopraggiunge e procede al con-trollo. L’uomo lo invita a seguirlo, i suoi documenti sono custoditi nella moto parcheggiata fuori. L’uomo apre il bauletto della moto, estrae una pistola e uccide il carabiniere con due colpi. Nonostante i posti di blocco in tutta la zona circostante, riesce a fuggire e fa perdere le proprie tracce. È il 22 luglio del 2004, a Pereto di Sant’Agata Feltria (Marche), e l’uomo in fuga si chiama Luciano Liboni, pregiudicato e latitante da due anni.
Il 24 luglio, a Roma, vicino alla stazione Termini, due agenti del-la polizia fermano un uomo che sembra assomigliare al fuggitivo. È Luciano Liboni, che ingaggia una sparatoria e fugge un’altra volta, sequestrando un’automobile e facendosi portare dal conducente alla vicina stazione della metropolitana. Il dispositivo di controllo